Finge che niente stia succedendo, Silvio Berlusconi, ma un po’ come don Abbondio si tirava fuori dagli eventi: non vede, non sente, parla di altro, continua il suo tran-tran di statista controvoglia come se nulla fosse. La moglie Medea? La figlia cocalide? Fini Bruto? Gianburrasca Tremonti? Un terzo capitoletto andrebbe aggiunto al personaggio Berlusconi (per chi volesse documentarsi, i precedenti nel sito sono a http://www.antiit.com/2009/05/berlusconi-2-non-ce-altro.html e http://www.antiit.com/2007/11/il-mondo-com-2.html), quello del lombardo emerito manzoniano. Che fa del bene, a Montanelli, Santoro, Guzzanti, Fiorello, Mentana, Carelli, e mal gliene incoglie (per quanto, voleva fare del bene anche a Moana...). Senza uscire dalla Commedia dell’arte, i cui personaggi e canoni sono sempre vincenti in questa scena politica plebiscitaria.
Berlusconi è più manzoniano per gli Azzeccagarbugli, per la verità, che per il parroco. Non ci sono nel catalogo ormai spesso della berlusconeide, ma quella degli avvocati è la storia forse più significativa a questo punto del personaggio, oltre che avvincente. L’avvocato Dotti, con le sorelle “Omega”, Cesare Previti, Pecorella, Ghedini. Che si sono fatti una fortuna con Berlusconi, con le sue innumerevoli carte – mai azienda è stata tanto avvocatesca come la sua, ancora prima della persecuzione ambrosiana. Poi ne sono stati premiati con la toga senatoriale, qualche presidenza, qualche ministero. E alla fine gli possono fare la fronda, nei talk show e sui giornali dei suoi nemici. Solo Previti è finito male, ma era di Reggio Calabria – la manzoneide è ovviamente milanese.
Ma poi non c’è niente nella sua storia recente, dopo la “discesa in campo”, che non rientri nel copione dei “Promessi sposi”. Berlusconi è un po’ pollo tramaglinesco, un po’ don Rodrigo, un cattivo inetto. Sempre tra i preti, senza costrutto. E vittima dei bravi, di cui la sua Milano torna ad abbondare, maschi e femmine come vuole il diritto repubblicano, seppure “napoletani”: guardie di Finanza, procuratori della Repubblica, giornalisti, cronisti giudiziari, e gli abominevoli pentiti – specialisti della suppressio veri come suggestio falsi.
La D’Addario ci voleva, chi l'ha inventata è andato sul sicuro. L'arricchito milanese Berlusconi che si fa principe a Roma, con tanto di palazzo, deve sottostare a tutte le miserie del ruolo, la cupidigia delle cameriere, la perfidia del cuoco, lo spionaggio del portiere, e alle vanterie di tutte le cortigiane d’Italia, alle gelosie della moglie, incapace di vivere la politica, all'immaturità dei figli – senza magari essersi divertito. C’era tutto ciò per i principi Savoia, e per i figli e i generi del Duce, e ci sono per lui. In questo, è vero, l’Italia è rimasta indietro, ai fasti del ventennio. Berlusconi, we si fa fare sondaggi ogni giorno, doveva sapere che in Italia trombare è peccato. Lo rimproverano pure a Cossiga, con ignota interpreta irlandese (e Cossiga lo rimprovera a Moro, di cui dice che nella cattività scrivesse lettere appassionate a una formosa cantante pop). Ma questo, il gossip, non è l’Italia: è merda. Che ogni paese produce – l’Italia ne produce giusto per sessanta milioni di residenti.
Altrimenti non si esce dall'ordinario, che è cupo. Chi legge “la Repubblica” sa che vive in un paese in cui al governo sono dei criminali, sostenuti dalla mafia e dai razzisti, che in Italia sono la maggioranza, stupratori delle minorenni, conculcatori della rinomata libertà della Rai, intercettatori e assassini dei giudici e i giornalisti non ossequenti. È un sapere sprecato. Ma non senza effetto: è il modello sovietico sovrimposto – inconsciamente? peggio – al paese, che l’ideologia impegnava a odiare. Si vede che l’ideologia non è morta: Berlusconi è l’evidenza di un Muro che non è caduto, o se sì non è stato spazzato via, non in Italia, è una cartina di tornasole della malafede. Peggio ancora chi legge Asor Rosa e dice che vive nel fascismo. Che è un modo di dire pasoliniano, vetusto quindi se non preistorico. Per di più da proscritti a Capalbio, se non nella cinta senese, coi maiali carissimi. C'è bisogno insomma di un aggiornamento. Non senza un appello alla vigilanza antifascista, che sempre ci vuole.
Il topos è vecchio di almeno trent’anni (Pasolini), se non di cinquanta (Malaparte). Era fascista Craxi. Era fascista la Dc. A partire da de Gasperi, nel 1947, nel 1952. Prima cioè che lo diventasse conquistando con Berlinguer tutto il potere. Una sorta di “normalità” fascista ricorrente, che ha bisogno di una parentesi. Usa dire che il fascismo fu popolare (De Felice), fu l’espressione dei ceti medi, della piccola borghesia (Salvatorelli, Gramsci, e i tantissimi altri, per esempio Asor Rosa ultimamente). Sono connotazioni che sono anche un critica della democrazia di massa. Sì.
Nella democrazia di massa, a suffragio universale, a partecipazione diretta, è inevitabile che i partiti e le politiche vincenti siano di massa, o comunque maggioritari, e per ciò stesso rispecchino anche larghe fette di ceti popolari Ma, eticamente, una colpa si può loro addebitare solo se si identificano con gli atti perversi di un regime, non se ne sono traditi, o ne sono divenuti ostaggio. Politicamente, è insensato scindere, come usa nei film e romanzi su Pinochet o l’apartheid, la massa piccolo borghese dalla grande borghesia di censo, cultura, nascita. La prima facinorosa la seconda tollerante e illuminata. È certo vero che ci sono più torturatori fra i piccoli che fra i grandi borghesi, ma è un fatto statistico. Mentre non c’è regime che si sia affermato contro le classi dirigenti. Anche il khomeinismo: l’ayatollah fu l’uomo della grande borghesia, intellettuale, finanziaria, militare perfino, laica. Ugualmente è proporzionata secondo statistica la disillusione. Con una differenza: quella dei ricchi e colti è più visibile, sa farsi meglio valere.
C’è un curioso ergersi di spirito aristocratico nella critica al fascismo (nazismo, peronismo, razzismo, khomeinismo e integralismo, bonapartismo arabo e sudamericano) come fenomeno popolare. Curioso perché scinde la colpa e in sostanza assolve i ricchi e i potenti, anche se dichiara il contrario. È questa un’operazione di destra, anche se non rozza come il fascismo, con le armi della critica democratica. Diverso sarebbe criticare i meccanismi della democrazia popolare: la formazione-manipolazione dell’opinione pubblica, il ruolo inattendibile (strumentale) dei media, i limiti del voto. De Felice non è criticabile perché fa opera di storico: dice che il fascismo fu popolare quando lo fu, e i motivi per cui lo fu – e che fu anche impopolare. Diverso è il giudizio a carattere politico – della sociologia politica da Salvatorelli a Asor Rosa – che attacca la democrazia popolare senza criterio: senza rispondenza ai mutevoli fatti storici, e senza un quadro generale delle cause e degli esiti.
Chiusa la parentesi, resta vero che bisogna sempre essere vigili contro il fascismo. Anche di chi ha distrutto la sua università per creare un posto a sua moglie. E di chi, sia esso un giudice o un grande giornale, squalifica proditoriamente l'avversario anche se senza l'olio di ricino, con dossier prefabbricati, con servizi deviati, con le intercettazioni e gli Zappadu (chi è Zappadu?), e con le accuse facili e il tintinnar di manette. Questo lo facevano i gerarchi. Mentre questo non si può dire di Berlusconi. Che sarà, come oggi appare, un pallone gonfiato. Uno per cui il culto di se stesso non è più azione politica, ma un Ersatz della propria incapacità come politico: come uono di governo (lo hanno messo sotto personaggi del calibro di Bossi, Fini, Casini, Follini, ora di nuovo Fini), promotore di buone leggi, addomesticatore del Parlamento riottoso, promotore di energie (in due elezioni presidenziali e in innumerevoli elezioni a sindaco che avrebbe potuto vincere a man bassa, a Napoli, Roma, Firenze, Torino, Venezia, le città emiliane, le stesse città toscane, non ha saputo esprimere candidati validi, talvolta ha vinto per caso). Ma non è arrivato con squadracce di arditi, di cui la sinistra ancora si para nelle piazze, di questo non gli si può fare colpa, o con tintinnare di manette: è arrivato da signore liberale, con corteo di miti intellettuali, molto pacifici, Urbani, Marzano, Colletti, Vertone, Ferrara, Pera. Fu così che arrivò al 1994, un atto di sediziosa liberazione, se non si vuole usare la parola rivoluzione, che avrebbe dovuto spazzare via cinquant'anni di vecchia politica.
Una ragione ragionevole alla separatezza, se non all’odio, in realtà c’è, ma sottile. Se un alto livello di considerazione fosse consentito, Berlusconi potrebbe ritenersi un esempio del “populismo autoritario” codificato da Stuart Hall, studioso britannico delle culture, contro Margaret Thatcher. Con tutte le differenze, caratteriali, di storia personale, di asset e tradizione politica, di tradizione e struttura decisionale nazionale, di strumentazione dell’opinione pubblica, di ideologia – il thatcherismo è la liberalizzazione spinta, il berlusconismo i consumi. Che fanno Berlusconi più umano, e anzi banale, rispetto al primo ministro britannico, che in pochi anni ha rovesciato quattro secoli di sedimentazioni storiche. Berlusconi si può dire (suo malgrado?) il capo e il terminale del circuito casa >> musica pop, fiction, spot tv >> casa, con la scuola inerte sullo sfondo. Che esaurisce la vita sociale, ma è il motore, eh sì, della cultura di massa.
Il “popolare” è la “cultura di massa”. Non ce n’è altro: la campagna? la magia? la taranta? i dannati della terra? Retorica, neppure più bene intenzionata. E le masse (della cultura, della comunicazione) sono sempre quell’agglomerato amorfo e contraddittorio che le forze egemoni informano. Questo è scuola di Francoforte, invecchiata quanto si voglia e altezzosa, ma è la verità. Tutto è già del resto nelle “Mitologie” di Barthes, che sono vecchie di quasi sessant’anni. O nella “Società dello spettacolo”, dieci anni dopo. Gramsci, che nella subalternità prefigurava, o forse solo auspicava, forme di resistenza alle culture (interessi) dominanti, non avrebbe difficoltà a riconoscerlo. Come chiunque viva nel mondo nel suo tempo. E del resto l’antiberlusconismo questo è: un adattamento volgare della stessa scuola, gli occhi chiusi davanti di fronte alla realtà. Creandosi un paese deluso, o confuso, o narcotizzato, o farfallone, o corrotto. Una professione di aristocraticismo che avrebbe fatto inorridire Horkheimer e Adorno, plebeo ritenendo anche il “che fare?”, un po’ d’impegno politico. Mentre volgare è questo inarcare le ciglia, da vecchia zia offesa. Il paese restando la sola cosa solida di questo interminabile post-sovietismo-cum-Dc, arguto, rapido, agile, anche se non lo facciamo parlare, giusto il piagnisteo, o linguaggio Rai, e quindi si concentra sul voto. Quanta vitalità non deve avere il paese per sopravvivere in tanta dolente ipocrisia?
Ancora prima, volendo essere troppo seri, unificava la città. Che si fa risalire, in questo senso, alla città di Haussmann, uniformemente borghese, e cioè secondo impero francese. Ma la storia è nata prima della Francia, e della città già Quintiliano lamenta che la scelta delle parole, la loro pronuncia, e i linguaggi fossero quelli derivati a cascata dai maggiorenti e le persone colte, “tutto il contrario della rusticità”, che ancora si portava a segno di autenticità – non detta, Quintiliano non si avventurava come Heidegger in parole vuote di senso e di senno come l’autenticità. Al tempo di Marx, senza scuole, senza giornali e senza altri mezzi di comunicazione di massa, c’era una certa spontaneità popolare, comunque non borghese, o piccolo borghese. Ora “il linguaggio «popolare» non è altro che il linguaggio borghese imbastardito, generalizzato volgarizzato, imbalsamato in una specie di «senso comune»”, come scriveva Barthes quarant’anni fa, “un purgatorio”, che sarebbe “rivoluzionario” evitare. Ora comunque, la semiologa Kristeva l’ha accertato, “la comunicazione è una merce”, fatta apposta insomma per Berlusconi, il Grande Venditore.
Di questa cultura di massa Berlusconi è il sintomo e non la causa. Non ha creato un linguaggio, lo ha sfruttato. Non ha creato il circo mediatico, ci si è inserito. Non ha creato il teatrino politico, ci si è inserito al meglio. È il segno (questa gli piacerebbe…) non la malattia. Ha saputo sfruttare la sovversione perché meglio degli altri ha letto il senso dell’antipolitica, della rivolta contro i partiti. Con la “discesa in campo”, “forza Italia”, il “partito della libertà”, a tratti perfino dell’“amore”- sa anche che il messaggio dev’essere semplice. Da sempre ci se ne attende la fine, prima con la Boccassini, la paladina di De Benedetti nell’affare Sme, poi con Bossi, col cancro, con l’incapacità di governo, con la moglie, con Fini. Ha resistito perché ha interpretato meglio degli avversari il senso delle cose: il successo di Berlusconi, che se anche finirà fra tre anni avrà improntato venti anni di storia, non è quello del tiranno, o del moghul dei media. È lo specchio dell’opposizione, una lettura della realtà molto più efficace di quella dei suoi supponenti nemici. Qui si può innescare il discorso del paese confuso, o narcotizzato, ma dopo aver capito la propria pochezza, si nobiliti pure con Proust o le zie, e il naso arricciato per lo sdegno. "La doxa, l'opinione pubblica, costitutiva delle nostre società democratiche, potentemente aiutata dale comunicazioni di massa, non è definita dai suoi limiti, dalla sua energia di esclusione, dalla sua censura"? Questo sapeva Barthes già quarant'anni fa - ma è meglio non esagerare.
La cultura non è divisa, è unita. Non c’è una cultura borghese e una cultura popolare, opposta o diversa. Il linguaggio è peraltro mediamente comune, abbastanza equalizzato tra il movimento ascensionale della scolarizzazione e quello restrittivo della comunicazione di massa, la programmazione per vasti strati, con l’appiattimento e la semplificazione dei significati. Nella televisione di Bernabei, cinquant’anni fa, la metà delle parole non erano capite da tre quarti degli ascoltatori, oggi tre quarti delle parole sono “capite”, anche male, da tre quarti degli spettatori, quindi da borghesi e non insieme. Sempre il linguaggio popolare si modella su quello borghese, con rari innesti in senso inverso – anche nel “Simplicissimus” e nella lingua furbesca. La cultura di massa, se vogliamo, li unifica su basi eguali, il linguaggio non è più classista nella civiltà dei consumi – l’Inghilterra è simbolicamente crollata per prima, la roccaforte del classismo linguistico, col no bras e i Beatles (ma il grande mulino democratico sono gli Usa). Ma è anche fatale che in questa democrazia vincano i Berlusconi, sempre vince il voto l’interprete del senso comune.
Il terzo capitolo che ora si apre promette qualche novità: quello della monaca di Monza, nelle vesti della moglie. Una storia non altrettanto cruenta, ma non meno efferata: potrebbe essere la fine di tutto ciò che Berlusconi ha costruito. Del lodo Mondadori, e non esclusa Mediaset e tutta la Fininvest. L’aria da pugile suonato che Berlusconi ha avuto per qualche settimana non dipendeva da Fini né tanto meno da Tremonti, ma dalla decisione della moglie di sfidarlo in tribunale. Pensava di cavarsela con le ville, compresa quella svizzera della “mammetta”, e con i miliardi, mentre sua moglie vuole distruggerlo, lui e anche suoi figli, i figli di lei, niente di meno. L’azienda è tutto Berlusconi, la voglia dissolutrice della moglie di Berlusconi ne ha trovato il vero punto debole, dopo aver vagato con le veline.
Ma non si può dire, l'uomo è sempre stato fortunato - sarà la Provvidenza? E anche, a un secondo vedere, in questa storia di guaglione: le signorine del Sud hanno scacciato gli altri ben più solidi fantasmi, quelli del conflitto d’interessi, dal calcio alla giustizia.
La ragione semplice del successo di Berlusconi, che non è naturalmente il fascismo, categoria screditatissima, anche tra i fascisti, è sempre valida. È la fiducia che vuole trasmettere, e malgrado i suoi tanti difetti evidentemente ci riesce. O, più che la fiducia in Berlusconi stesso, la ripulsa del grigio vittimismo di questa sinistra, cattocomunista – che, certo, non è cattolica e non è comunista, è solo un coagulo di potere, di quelli che si sono eretti a società “civile”. La ripulsa della nozione stessa di "crisi", anche qaundo la crisi c'è, perché questa sinistra che non sa altro che godere minacciando crisi ha stufato: il paese vuole essere governato. Quest’uomo che fa ridere il mondo intero si può allora immaginarlo in negativo. Come riflesso di una situazione evidentemente ancora più ridicola. Se non del comico, come a lui piace, del santo, dell'eccesso. Non è un mistero, il suo perdurante successo è l'effetto di un'opposizione che più demente non si può.
Berlusconi si è messo lì, ed è stato messo lì, dai politici in rotta e dal partito dei padroni, per contrastare il cattocomunismo. Ma poi non ha avuto bisogno di fare nulla, giusto capitalizzare sulla serie infinita di regali della sinistra, di cui è perfino difficile assommare le stupidaggini. Che ora lavora con personaggi screditatissimi e infidi, Spatuzza, Ciancimino, per farlo passare per mafioso. E fa una battaglia di libertà sulle intercettazioni. A favore. Lo scandalo delle intercettazioni, la criminalità comune di giudici, polizie giudiziarie e croniste, difeso come lotta di libertà è solo delirante – un referendum contro le intercettazioni passerebbe col novanta per cento, se non il cento per cento, dei voti. I giudici manolesta e le polizie giudiziarie ricattano queste sinistre? Ma l’elenco delle scemenze è interminabile.
In questo senso, con questi eccezionalissimi favori, è anche l'uomo della provvidenza manzoniana. Tra collaboratori inetti, specie i ministri, che gli accozzagliano leggi wsempre sbagliate. E alleati politici tanto presuntuosi quanto vuoti di idee e di principi, quali Bossi e Fini. Uno che ogni giorno tiene a bada Bossi e Fini fa certamente una buona azione politica. Di politica gretta. Ma questa è la politica che ci ha imposto e ci impone il giustizialismo da venti anni, l'allegro golpismo dei gidici.
Ma poi è pure vero che Berlusconi non si saprebbe immaginarlo altrimenti. Con dei talk show non pregiudizialmente sfavorevoli, se non favorevoli, analoghi ai cinque-sei ostili della Rai, tutti fatti con lo stampo, stile sovietico, che giornalmente lo deridono. O come il "Corriere della sera", "la Repubblica", "la Stampa", "Il Sole 24 Ore", "Il Messaggero", i cosiddeti “giornali d’opinione”. Non si saprebbe immaginarlo altro che come il Nemico. Una figura che in astratto non è pagante.Ma al confronto con questa sinistra evidentemente sì. Perché una delle ragioni, se non la più importante, è che il paese vuole liberarsi di questa sinistra. E quando non vota Berlusconi o Bossi vota Di Pietro, Grillo, chiunque. Si fa troppo facile ironia sul cattocomunismo, che sarebbe inesistente – ma non per chi lo ha sperimentato personalmente, a “Repubblica”, alla Rizzoli Corriere, e non per chi opera tra i dipendenti pubblici, nella sanità, nella scuola, all’università, alla Rai, nei giornali, faziosissimo, durissimo.
Se si vuole, si può anche dire come si dice, che Berlusconi non ha inventato nulla: s’è solo appropriato delle turpitudini del golpe milanese sulla politica. Si prenda il capitolo Rai. Berlusconi è tristemente famoso per l’editto bulgaro, a carico di tre oppositori suoi della Rai che sono tutti noi, benché conformisti, Fazio, Santoro e Travaglio. Ma aveva dato asilo a Santoro al tempo dell’editto dei professori di Prodi di cui non si parla, molto di stagione, il bocconiano Demattè, Zaccaria e altrettali – alla Rai è difficile inventare qualcosa, ogni turpitudine è già stata sperimentata. I professori di Prodi avevano bulgarizzato anche Vespa, altra liquidazione omessa dalle cronache ma considerevole nella storia. Con l’ausilio dell’ottimo capo del Personale Pierluigi Celli, che per questo diventerà poi direttore generale – dove si segnalerà subito per l’estromissione dalla Rai di Giovanni Minoli, altro indigesto a Prodi, o a D’Alema, suo dichiarato patron politico, patron di Celli. Anche le stelline, più meno virtuose, in scoperto flirt coi vertici Rai non sono una novità di Berlusconi ma dei prodi professori. Uno di essi, il valorosissimo professor Zaccaria, di cui ancora Firenze fatica a capire il peso culturale o politico (l’uomo pensò di potersi candidare a presidente del consiglio... ), lasciò addirittura per esse la moglie e i figli benché buon cattolico. L’unica differenza con Saccà (e Berlusconi) è che Zaccaria le stelline se le faceva per davvero – peccato non averlo intercettato.
L’ambizione unica di Berlusconi è di essere accettato, e uno scandalo in più non è dirimente. Ha preso il centro-destra, qualificandosi per liberale, perché era la posizione libera, dopo il dissolvimento dei socialisti e della Dc moderata a opera dei catto-comunisti, ma non per riformare l’Italia. Era nel craxismo perché il Psi di Craxi, a sua volta tenuto a distanza dall’establishment bancario e confindustriale, promuoveva gli outsider. Ma la sua ambizione è entrare nell’establishment. Ostenta Bmw e Audi dal culo largo dopo lo sfortunato approccio all’Avvocato della Fiat (“ne tengo il ritratto sul comodino”), finito con Ruggiero ministro degli Esteri e il dialogo con i black block culminato nel G8di Genova, snobbato e anzi irriso dai nipoti dell’Avvocato, anche se entrambi non sembrano del tutto commendevoli.
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