“Il Verri” n. 26, Céline
mercoledì 30 dicembre 2009
C'è Céline in Gadda
Fuori dalla scapigliatura (Dossi) e dall’espressionismo, categorie italiane, Renato Barilli, analizzando Céline, pone Gadda dentro una dimensione europea, culturale e stilistica, che tutto sommato più si confà allo scrittore, milanese di molteplici esperienze. Nel saggio, "Vitalità patologica di Céline", Gadda è, gaddianamente, in nota, sei righe che dicono tutto. Ma rientrava poi, nello stesso numero del “Verri”, per un lungo tratto insieme con Céline, nell’ampia recensione che Barilli fa di “Eros e Priapo”. La ribellistica è rivelatrice, dice Barilli: fatta salva la posizione giusta, antifascista di Gadda (dopo vent’anni….), di contro al bieco antisemitisimo di Céline, l’“omologia” è fortissima. Stilistica, perfino linguistica, e retorica: da entrambi i loro bersagli, Gadda e Céline fanno discendere la stessa colpa, la disgregazione della “sanità” di istinti e volizioni dei poveri ariani. Entrambi “positivisti in ritardo”, seppure “mossi da una disperazione irrimediabile” - che non potrebbe essere la contemporaneità, questa e non Proust, la disintegrazione di ogni speranza, sia pure positivista?
Molti testi sono del numero speciale “Céline” dei “Cahiers de l’Herne”, 1965, quindi già ben noti ai cultori. Ma per altri versi resta storico il numero del “Verri” quarta serie, il 26, che Anceschi dedicò a Céline (la rivista del nuovismo è senza tempo - immortale? - ma questo “Céline” è del 1968). Intanto per la scelta dei testi dall’ammasso del quadernone de l’Herne: l’omaggio a Zola, la prefazione al “Semmelweis”, la fine dell’argot. E un saggio critico, tra i tanti, molto illuminante: già nel 1934, a un anno dal debutto col “Viaggio”, Céline poteva contare sull’analisi stilistica di Leo Spitzer, circostanziata (notevole in particolare per la categoria del “richiamo”). Ci sono poi, con le impressioni di Celati, le difficoltà del tradurre Céline di Caproni, e un lungo saggio linguistico di Anna Licari, una chicca fulminante di Franco Lucentini: l’invenzione di una mostra, “Céline e i celineschi” al Petit Palais, dove il futuro giallista tenta di liberarsi del fantasma ingombrante mettendolo al museo. E il saggio di Renato Barilli, per almeno due aspetti sempre magistrale.
Il riconosciuto vitalismo di Céline è patologico perché è “vecchio”, è lo scientismo del secondo Ottocento trasposto in un mondo disintegrato. Céline è tutto d’un pezzo, argomenta Barilli, fin dalla sua prima opera, la tesi di laurea su Semmelweis: tutto vi è anticipato, in particolare il sodalizio col “vero”(con Semmelweis come poi con Plinio il Vecchio, Galileo, Harvery, Pasteur), “l’«io» basso”, la sensibilità sociale radicale, e la cifra stilistica del rendu émotif, l’imitazione fortemente introiettiva del parlato – tutto tranne il pessimismo che poi dilagherà. L’identificazione scientista col “vero” Barilli ritrova anche nei libelli antisemiti. Che palese rendono il limite di Céline, col “trionfo” di Proust cui lo stesso Céline a suo modo s’inchinava: “Il trionfo della complicazione semita su un rozzo schema deterministico, su un quadro di reazioni obbligate a pochi impulsi primari”. Céline è al suo tempo “minoranza”, anche se “agguerrita, stupendamente energica, affascinante”.
È però una minoranza attiva. Dopo le catastrofi della seconda guerra Céline ritorna, argomenta Barilli, in un “abbassamento”, negli anni 1950 e 1960, “a toni e ritmi via via più accelerati e corsivi, bassi e volgari”. Barilli cita il picarismo beat americano, lo “stile basso” di Grass, gli esperimenti di “parlato” di Sanguineti e Lucentini, Arbasino al registratore. Ma soprattutto rintraccia più di un’identità in Gadda - è questa la seconda traccia ancora fertile, tanto più per essere rimasta inesplorata.
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