“Qualunque parola tu dica –\rendi grazie\alla perdizione”. Non è grato il destino dei salvati. È questo il buio non tanto oscuro della poesia di Celan. Primo Levi lo accusava di oscurità e nichilismo, ma Celan non si cela, è solo un poeta critico: se è ossessionato dalla morte, lo è anche dalla lingua, che lo ispira e lo diverte, la lingua tedesca, fantasioso, acrobatico, inventivo.
Fatta la tara dell'acuta sensibilità, non aveva molto peraltro da stare allegro. Il più grande poeta innovativo della lingua tedesca nel Novecento sarà stato uno che le avanguardie tedesche hanno rifiutato, perfino con disprezzo. Giuseppe Bevilacqua ricorda che Celan, invitato da Ingeborg Bachmann al Gruppo 47, fu isolato e costretto ad andarsene, da gente del calibro di Grass e Uwe Johnson. Cioè, Bevilacqua non lo ricorda, ma il fatto è noto: avvenne proprio in quel 1952 in cui, dice il germanista, “il poeta tenta di costituirsi una «seconda soglia»”, di vita e di opera, salvando la memoria e la lingua materna. E approda alla sua cifra, “un modello di linguaggio”, specifica Bevilacqua, “allo stesso tempo cifrato ed esplicito; cifrato per sottrarlo alla declamazione frettolosa che «indora» la parola e quindi la sterilizza”. Il caso esemplare è l’“oscuro” Char, contro la sgargiante retorica di Eluard – che sono anche due casi di chi la Resistenza l’ha combattuta e di chi la canta.
Celan è un poeta critico. Uno che evita di pubblicare, o è in grado di rivedere, riesaminare, il già pubblicato (ritira presto la sua prima pubblicazione, a Vienna, straniero, già di ventisette anni). A più di un titolo innovativo del Novecento tedesco, più di Benn, seppure rifiutato dalle avanguardie. In una lingua, di una lingua, che lo rifiutava, anche maldestramente. Ma musicale. Di una musicalità ricercata. Anche risonante, cantabile. Con aggettivazioni omeriche, felicemente, naturalmente: zeitroten, spätrot, rosso serale, messerumfunkelte, di lame sfavillante, sonnendurchschwommene, del mare attraversato dal sole. E sostantivazioni: Nachtgewiegte, ciò che la nota culla, Tagenthobene, sottratto al giorno, la Zwiegestalt, l’ambigua figura. In “Assisi”, a contatto col santo, si vuole anche fortemente ritmico e rimato. Ugualmente ritmici e assonanti i due componimenti precedenti e più noti, “Innestato nell’occhio” e “Chi ci contò le ore”.
È una poesia che si dovrebbe leggere con le note, le note esplicative. Che in traduzione non ci sono, ma sarebbero poi una: il lutto. La seconda metà dei suoi cinquant’Anni Celan l’ha trascorsa nel lutto. Sempre interrogandosi e mai liberandosene, fino a soggiacervi, alla resa col salto finale nella Senna. Sovrastato dalla solitudine del Fremdling, l’eterno estraneo, dalla sabbia, il buio, il freddo. Ma con un’oscura fede nella poesia. Inetto all’amore: “Questo sfarfallìo, questo volteggiare intorno,\io lo sento – e non lo vedo!” O: “In due nuotano i morti”. Ma non all’amore della poesia, costante. Molto ben accudito, sempre perfezionato.
La poesia dopo Auschwitz naturalmente c’é. È quella del dolore, del disinganno per l’uomo di fede. Dell’io sommerso, dalla sabbia, dal ghiaccio. Delle ripartenze (di onda in onda, le due porte, la doppia chiave). In questa sua seconda raccolta, naturalizzato ma straniero a Parigi, dove poeta in tedesco, Celan vede l’amore e la bellezza, ma sempre su fondo malinconico, la sabbia, il buio e il freddo sono ricorrenti. La sera della parola, la dice, la notte della parola. La memoria di un mondo rubato. E una morte che non muore, occupa anzi la memoria. Quel misto di memoria intransitabile, fredda nella sua terminologia, ghiacciata. Ma sempre musicale, e quindi comunque allegra, vivente – studiata in quanto sofferta.
Paul Celan, Di soglia in soglia
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