Gli anni di piombo? Tutti pietas. Il modello fortunato di Mario Calabresi in Mondadori ricalca Einaudi con Benedetta Tobagi. E la città è salva, Milano sempre si assolve. “Benedetta ha letto e studiato tutti gli atti processuali, con rabbia, amarezza e tanta voglia di capire un periodo complesso come gli anni Settanta”, così il libro si presenta. Ma non è storia: non di quello che Tobagi era, e rappresentava a Milano e al “Corriere della sera”. Non è un saggio politico - il linguaggio è questo: “A quel tempo la politica era una cosa terribilmente seria, le etichette e le logiche di appartenenza prevalevano spesso sulla sostanza delle persone” (dove “spesso” sta per i gruppi che non si possono nominare). Non è un libro di nera, come vanno di moda. Non è nemmeno una vera cronaca giudiziaria, di cui ci sarebbe gran bisogno: l’assassinio di Tobagi e la sua copertura sono una delle non minori vergogne di Milano. Non è un libro di memorie, Benedetta aveva tre anni quanto il padre fu ucciso, di appena trentatrè. Da un giovane bene di Milano.
C’è Caterina Rosenzweig, la pasionaria che viveva con l’assassino Barbone, sparita dall’inchiesta dello zelante procuratore Spataro – lo stesso che per molto meno, la cattura di un imam a Milano, ha incriminato i capi dei servizi segreti italiani e mezza Cia. E c’è Craxi, sebbene non sia simpatico a Benedetta – anche se suo padre gli era molto legato, “troppo” secondo i giornalisti che spadroneggiavano al “Corriere della sera” e in Rizzoli. Ma il “Corriere” non c’è. E non si vede come. Ha ricordato Chiaberge sul “Sole 24 Ore” del 15 novembre di quando nel 1978, sbarcato alla Rizzoli, dovette smentire di essere “amico” di Tobagi di fronte a un membro del Comitato di reazione che lo interpellava con la stella rossa sul berretto alla Lenin. Di quando, un anno dopo, richiesto al telefono da Tobagi mentre era in riunione in redazione, si rifiutò. E di quanto, un anno dopo, seppe dell’assassinio di Tobagi, a opera di “enfants gatés della buona borghesia milanese”.
La storia è bruttissima. Tutta politicizzata, in senso improprio e anzi violento – di “ordinaria” giustizia politica già a quei tempi. Il capitano dei carabinieri che ricevette l’informativa sui nomi e le circostanze dell’assassinio di Tobagi e la cestinò – la relegò agli atti – sarà otto anni dopo il colonnello col quale si confesserà Marino, l’accusatore di Sofri. Avviando infine in chiaro la orrida stagione, di cui ancora Milano si vanta, della giustizia politica.
Uno è tentato di dire che Tobagi non avrebbe approvato: lui era uno che parlava chiaro anche nella mafia del terrorismo, densissima a Milano. Il che è solo vero. Ma non è la cosa più importante di queste pubblicazioni. La cosa più importante, anzi tragica, è che, oggi come allora, di quel terrificante clima di odio e intimidazione si può scrivere solo in punta di penna e facendosene una colpa. Segno che a Milano e nell’editoria il “gruppo di comando”, se non di fuoco, è lo stesso.
Benedetta Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre, Einaudi, pp.302, € 19
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