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mercoledì 30 dicembre 2009

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (51)

Giuseppe Leuzzi

“L’Alta Velocità fino al Ponte sullo Stretto”. Non è vero, non c’è un progetto e nemmeno un disegno, ma il ministro può dirlo, il “Corriere della sera” non gliene chiede ragione, e in Calabria e Sicilia l’annuncio viene celebrato.

Si fa una festa nel reatino dell’olio d’oliva. A cui partecipano specialisti e scienziati del settore. Si possono così ascoltare analisi spassionate del tipo: “L’olio spagnolo è connotato all’olfatto da inconfondibile piscio di gatto”. Vomitevole allora? No, al contrario, dev’essere connotazione di pregio, poiché l’extravergine spagnolo si vende ad almeno otto euro al kg, quasi il doppio che l’equivalente italiano – non si vende in Italia, ma nel Centro Europa sì, così pare. E il perché non è un mistero: è il marketing, che la puzza fa diventare un sapore.

Vita agra per gli emigrati interni della seconda ondata, intellettuale: insegnanti, infermieri, medici, ingegneri. Non amati al Nord, rifiutati al paese d’origine, invidioso, triste.

Sicilia
Camilleri racconta in siciliano la Sicilia senza trovarsi costretto dalla mafia. La lascia dove essa è, ai margini, nella sua mediocre vita parallela di violenze. Nei suoi romanzi e racconti il mafioso è un caratterista e non un protagonista. Dei cento, o quanti sono, casi criminali di Montalbano, commissario di polizia a Porto Empedocle, non uno è di mafia. La mafia c’è, ogni tanto se ne parla, ma non prende nell’economia della narrazione più di quanto prende nei problemi di ogni giorno. Anche nei sette, oquanti sono, romanzi storici di Camilleri la mafia non c'è. Sciascia, che ne è invece ossessionato, che ne avrebbe detto?
È che Sciascia viene da una cultura isolana, di paese. Racalmuto, il suo paese, ha questo motto: ““Muto e silenzioso\il cuor mio si rinvigorì ”. Camilleri è di cultura urbana. Viene da una città di mare, a ridosso della città capoluogo, per quanto modesta.

La Sicilia profondamente s’identifica al Gattopardo, al principe Lampedusa in disarmo: che tutto sa e nulla fa, se non nutrire il proprio ammirato misoneismo. Che ha un disegno preciso del mondo ma è misantropo e anche spregiatore di sé. Forestierista e sinceramente spassionato. Il suo unico affetto andando a una cugina canara, e a un cugino spiritista, che solo aspettavano di morire prima che finisse il capitale.

La Sicilia non ha nulla d’italiano, si legge a p.375 di “Tra amiche”, la corrispondenza Arendt-McCarthy tradotta da Sellerio. Mary McCarthy passa le feste di fine 1967 col marito dell’epoca in Sicilia, dodici giorni “gradevoli”, e il 26 gennaio 1968 ne scrive a Hannah Arendt da Parigi: la Sicilia “non richiama affatto l’Italia, salvo l’angolo di Taormina, che somiglia a Capri, fisicamente e moralmente. E non è nemmeno la Grecia. Forse è più vicina all’Africa del Nord, benché senza deserto immemorabile. Una linea continua di montagne sullo sfondo, e un tempo tipicamente di montagna, di tempeste alternate a un sole brillante. Molto fertile e verdeggiante, ciò che rende la miseria nera ancora più sorprendente”.
Era subito dopo il terremoto di Gibellina, ma pazienza. È del resto vero che, a dicembre, il tempo è alterno. Anche in Africa del Nord, dove Mary non è masi stata. Ed è vero pure che la miseria in Sicilia è sorprendente.
Ma le impressioni, al solito, sono miste, la bellezza non si sottrae: “Non è un paesaggio dolce, ma fratto e severo. Con un lato mitico come certe parti della Grecia… È una terra d’arcobaleni – magia dell’acqua: avevo dimenticato gli arcobaleni, che sembrano associarsi all’infanzia. Ne abbiamo visto uno straordinario, quasi incredibile”. Come al solito, i ricordi di viaggio dicono degli scrittori, ma non – se non poco – dei luoghi visitati.
A Taormina, davanti al teatro greco, Mary nota questo cartello: “Si prega di non scrivere sulle piante”.

Il feudo che non c’è
Si dice il Sud feudale, fa parte del linguaggio derisorio. Ma ne parlano anche molti storici, in chiave antiborbonica o solo grandi semplificatori. Feudo sta per cattivo, ma è anche un sistema socio-politico che purtroppo è mancato al Sud, eccetto in parte la Puglia. Altri storici ne parlano per dire invece fedecommesso, un sistema per cui si comprano e si vendono fondi, sulla carta, fra proprietari assenteisti. A metà Seicento, sui 2.700 centri rurali esistenti nel Regno di Napoli, oltre 1.200 erano infeudati a Genovesi. Prestatori di denaro, alla corte e ai nobili. Ciò avveniva ovunque nel Regno, ma soprattutto in Calabria, al punto che non c’è altro in quella regione, che non ha avuto il feudalesimo.
Il feudo è inalienabile. E impone doveri alle due parti, sudditi e signori. In Calabria e altrove invece sono documentati compravendite libere, cioè predatorie, di titoli di proprietà. A rendimenti decrescenti in assenza di qualsivoglia investimento. Dove non ci sono padroni, se non nomi distanti e assenti. Che non forniscono sementi, attrezzi, tecniche, mercati, non costruiscono strade né ponti, come un feudatario farebbe, non cercano l’acqua né la organizzano.
Latifondo sarebbe la parola giusta: conserva la carica critica ma risponde a verità, di proprietari assenti e ignoti, mutevoli. Solo in parte però. La Puglia, l’Abruzzo, la Campania, la Basilicata e buona parte della Calabria sono state a proprietà frammentata, anche eccessivamente, dalle alienazioni napoleoniche della manomorta ecclesiastica in poi, e anche prima, dalle alienazioni borboniche.
C’è indigenza e non sfruttamento. E c’è polverizzazione sociale, estrema, duratura, da cui il Sud non emerge. Che il dopoguerra ha elevato a sistema – assolto e intronato: "ci pensa mamma Dc", e questa è tutta la politica.

leuzzi@antiit.eu

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