Victor Zaslavsky era uno scrittore e un uomo di spirito e non se ne meravigliava. Era per molti aspetti lui stesso Petrov, il personaggio del suo racconto più noto, che vive in punta di piedi, per non scomodare, e muore con leggerezza, senza sofferenze da compartire. Per consolarsi proponendosi candidamente la considerazione che “anche la peggior salute regge fino alla morte”. Ma come storico non poteva non porsi la domanda, era parte essa stessa della sua ricerca: com’è possibile che il maggior storico italiano, contemporaneista, di questo millennio, sia un russo?
Victor era anzitutto una bella persona. Era bright, d’intelligenza luminosa: rapido, attento, generoso. Irrequieto in una sua maniera equilibrata, costruttiva. Di un’identità sempre forte, nelle tante avversità. Nei rapporti personali come in quelli familiari e in quelli politici. Per la forza del radicamento originario che ha sempre sentito, come quella della famiglia. Canadese di passaporto, italiano d’elezione, emigrato politico dall'Urss nel 1974, il professor Zaslavsky si voleva ed era russo. Dei nipoti ha seguito fino a un istante prima l’educazione, che visitava regolarmente in America e ai quali imponeva, si può dire, la lingua e la cultura russa nelle vacanze italiane che per loro organizzava ogni anno con cura, per far loro conoscere l’Europa, e la Russia: emigrati già di terza generazione in poco più di trent’anni, di cui rinsaldava le radici. Quelle che lui aveva dovuto abbandonare nel 1974, a 38 anni, perché boicottato e anche minacciato per la sua modesta critica del socialismo reale. Sembra un altro mondo ma era solo ieri che i cittadini russi venivano cacciati per motivi politici, e ridotti in solitudine a Ostia o altri campi profughi. Alla ricerca di difficili contatti con i locali slavisti, di collaborazioni al “Mondo Operaio” allora di Federico Coen, la rivista del partito Socialista, di incarichi nelle università italiane, americane, canadesi, di un editore.
“Non ho fatto niente di particolarmente eclatante per essere espulso, non ero un dissidente ma solo un intellettuale che pensava con la propria testa. E anche questo era potenzialmente pericoloso per un regime come quello sovietico”. Con queste poche parole, semplici e senza enfasi, Victor raccontava la sua espulsione dall’Unione Sovietica nel 1974, nell’intervista pubblicata su “L’Osservatore Romano” dello scorso 7 novembre, venti giorni prima della morte. Una morte che solo “L’Osservatore Romano” rileverà, e in breve il “Corriere della sera” - e questo è l’altra parte del discorso: del conformismo della storiografia e dell’opinione pubblica in Italia, che non cessava di meravigliare la persona, prima ancora che lo studioso. Victor era un professore ma per nulla socratico: curioso, controversista, perditempo. Anche se per nulla accomodante, anzi di etica ferrea, quello per cui una cosa è una cosa e non un’altra. Rideva perciò delle politiche dell’Italia, che in qualche modo l’ha ospitato – con lui si rideva, la conversazione era un divertimento, senza punte, senza stridori, le cose essendo note, sapute, sottintese.
La buona letteratura era per lui miglior faro. Victor era scrittore satirico in proprio. Una raccolta di racconti, “Il dottor Petrov parapsicologo”, che ancora si legge con piacere, è stata tradotta in italiano per Sellerio nel 1984 da Antonella D’Amelia e Maria Fabris. Per lo stesso editore ha curato anche in quegli anni una serie non fortunata di scrittori russi all’epoca sovietica, Tynianov, Hazanov, Evghenij Zamjatin, Fazil’ Iskander, Ljudmila Shtern, forse troppo delicati per il gusto forte del mercato – o forse il rifiuto andava allo scarso sovietismo, più che al calligrafismo dei Tynianov: Zamjatin è l'autore di "Noi", che nel 1919 anticipò e satireggiò il totalitarismo (influenzerà Orwell in "1984"), fu il primo autore censurato dal nuovo regime sovietico nel 1921, ed è tuttora ignorato in Italia (come del resto "1984"). E per primo ha proposto Šalamov, i terribili “Racconti di Kolima”, seppure in una scelta ridotta. Ma più lo illuminava la saggezza.
Victor non si poneva la domanda sul conformismo della storie italiche. Ne avrebbe avuto ben motivo: gli archivi a cui aveva accesso a Mosca erano solo una parte, la meno sordida, della storia del Pci, altri canali di finanziamento, ben più solidi, erano le finanziarie “svizzere” dove confluivano le tangenti sugli affari con l’Urss dell’Eni, la Fiat, la Finsider, la Finmeccanica e le tantissime aziende minori che volevano lavorare con l’Urss (dalla loro liquidazione, con la liquidazione del Pci, sono derivati i capitali di avviamento delle miriadi di case editrici d’area sorte negli anni Novanta). Ma Victor non aveva vis polemica. A lungo era stato in Italia la fonte degli studi più spassionati, benché avvertiti, sull’Unione Sovietica. E la stessa attitudine, di ponderato giudizio, mantenne dopo, quando pure lo scandalismo sarebbe stato facile.
La tentazione per uno come lui sembrava anche forte. Per il risentimento del fuoriuscito. E per la sua stessa concezione del lavoro di storico, che ha sintetizzato nella rivista “Ventunesimo secolo”, che animava, come l’obbligo di capire il presente – “la storia è sempre contemporanea”. La sua idea della storia è che essa va fatta (detta, raccolta, individuata, inquadrata) mentre avviene. Di cui certo non gli mancavano esempi, specie nella tradizione quattro e cinquecentesca italiana, ma allora vincolati alla passione. Da cui invece personalmente sapeva distanziarsi. Victor ha costituito per un trentennio la migliore fonte “italiana”, se non l’unica spassionata, sulla Unione Sovietica, l’organizzazione politica reale, le nazionalità, le tendenze. E poi, ad archivi aperti dopo il crollo del sovietismo, sui rapporti tra il Pci e Stalin, durante e dopo la guerra, anche per l’impulso di Elena Aga-Rossi, che degli assetti post bellici, dall’8 settembre alla guerra fredda è un’autorità. Dal primissimo “Il consenso organizzato”, pubblicato dal Mulino sette anni dopo l’arrivo di Victor in Italia, all'eccidio rimosso di Katyn, alla pubblicazione infine anche in Italia, dopo venti anni, di Margarete Buber Neumann, della consegna che Stalin fece a Hitler dei comunisti tedeschi rifugiati a Mosca, al recente “Togliatti e Stalin”. Un tempo insidioso, e ancora non digerito in Italia malgrado il crollo del Muro, ma su cui egli si muoveva senza pregiudizio. Seppure da sociologo politico, con giudizio cioè calibrato sui principi, piuttosto che da storico, come ambiva.
Si deve a lui l’individuazione tempestiva di quella che a tutt’oggi sembra la chiave del crollo subitaneo del sovietismo, la categoria della contro-modernizzazione. La vivacissima, ramificatissima, struttura politica dell’Unione Sovietica, decimata da Stalin, si è anchilosata con la guerra fredda nel complesso militare-industriale, con la netta prevalenza del Kgb, i servizi d’informazione, sul Pcus, il partito comunista. Il sistema sovietico viveva per alimentare la potenza mondiale, inducendo un arretramento netto della mobilità politica, dello sviluppo delle condizioni materiali di vita, e delle aspettative delle nazionalità, dentro l’Urss e fuori, nel dominio di potenza riservato, presso le quali Mosca prosperò finché fu una promessa ma non riuscì a imporsi come sistema di potere.
A fronte di questa semplice, gigantesca, categoria interpretativa della storia di metà Europa, e del suo destino, l’accertamento dei fatti che, con Elena Aga-Rossi, Victor ha condotto a proposito dei rapporti del Pci col Pcus e di Togliatti con Stalin, in “Lo stalinismo e la sinistra italiana”, e “Togliatti e Stalin” sembra poca cosa. Il lavoro dello storico è sempre “poca cosa”, nel senso che è modesto, si attiene ai fatti, e preciso. E tuttavia è la chiave della storia d’Italia nella Repubblica, fino alle convulsioni, tanto fittizie quanto violente, di ogni giorno: è la storia di una verità che sempre si rifiuta, si omette, si tace, ostracizzandola nell’insulto o, nella migliore delle ipotesi, nell’isolamento.
Victor non era isolato. Poiché era pubblicato ed era letto. Ma non come sarebbe piaciuto a lui. Senza faziosità. Introducendo i “Racconti di Kolima”, Victor fa di Šalamov, rinchiuso per venti anni (sarà liberato solo nel 1956, e in che condizioni: obbligato al silenzio in patria e alla povertà fino alla morte, cioè fino al 1982…) nel campo di lavoro più duro nel circolo polare, uno sfidante di Stalin: un intellettuale, solo, prigioniero in condizioni inumane, sfida il dittatore dell’Unione Sovietica, lo sterminatore dei comunisti, il vincitore di Hitler. Si può, non da incoscienti. Nel nome della verità.
Victor era a mezzo tra le due figure di ex comunisti di Hannah Arendt, chi è cresciuto nel Partito, poi abbandonandolo, e chi – specie gli artisti, gli intellettuali – col Partito ha fatto pezzi di strada assieme. O meglio “tra ex comunisti e coloro che hanno un passato comunista”, i primi portando nelle nuove esperienze i difetti della vecchia, la faziosità, la durezza. Non c’è una classificazione degli emigranti russi degli anni Settanta, quasi tutti obbligati, anche se rientravano negli accordi di Mosca con Kissinger. Ma è evidente che la categoria arendtiana dell’ex comunista anticomunista va loro stretta. Intanto perché implica un antirussismo (antipatriottismo) che in molti di loro non c’è, e non ci può essere: per loro si trattava di emigrare da un sistema politico a un altro, e non di andare in cerca di fortuna, come per gli ex comunisti occidentali, o di lasciare un giornale per un altro, una rivista per un’altra, o un gruppo di frequentazione o di riferimento. E perché negli anni 1970 emigrarono russi nati ed educati nel socialismo, seppure con gli anticorpi sovietici. Solženicyn e Zinov’ev da una parte, un Brodskij o Victor, appunto, dall’altra.
Detto questo, è anche chiaro che Victor è stato vittima del conformismo del Pci, anche dopo il 1989. A suo modo, divertito e non arcigno, il paradigma arendtiano finiva per assorbirlo. Anche se per un aspetto che la filosofa, operando sulla realtà americana, non considera: si può finire astretti all’anticomunismo in una realtà culturale (istituzionale, accademica, giornalistica) di stretta osservanza, anche se non si sa di che (e perfino al berlusconismo, in tanti casi ormai celebri: Vertone, Colletti, Ferrara, Bondi, etc.). Victor, seppure al suo modo, lieve, sarà stato vittima per molti aspetti dell’utopia, del socialismo che si vuole non autoritario, censorio, totalitario, imperialista, distruttore di risorse - ciò che infine s’intende per sovietismo. Che anche per questo trova all’Ovest una collocazione ardua, oltre che per essere un espatriato e un estraneo. E sempre è e vuol essere russo, anche quando le condizioni della vita gli impongono l’esilio.
giovedì 10 dicembre 2009
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