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sabato 10 gennaio 2009

Problemi di base - 8

Perché la Repubblica non pianta alberi, e anzi li abbatte?

Perché c’è sempre qualcosa, se non c’è niente?

E come si fa a annegarsi nel niente, pensandolo?

Perché l’uomo è colpevole? Sì, il peccato originale, ma prima? Dov’era prima la colpa la Bibbia non lo sa.

Perché le donne non amano gli uomini? Gli uomini amano le donne, le donne non amano gli uomini.

Cos’è un compromesso? Come si esercita?

Com’è che c’era la luce al primo giorno, mentre il sole e le altre stelle vennero al quarto?

Quali sono i fini e quali gli effetti delle dita nel naso?

Quando esattamente si dannò il diavolo? È importante.

Letture - 4

letterautore

Arbasino - È il letterato più impegnato, per tutti i cinquant’anni di attività. Più di Pasolini, per dire. Nei viaggi e le scoperte. Nei racconti, nei romanzi, con i “Fratelli d’Italia” rifatto tre volte.
Spartisce il destino d’insoddisfazione dei profeti, anche se l’accostamento lo sorprenderà spiacevolmente: la passione soverchia in lui l’ironia, di molto, e la compassione. Ma è un turbamento condividibile, per quanto egli si voglia snob e solo. E la vertigine è in realtà comune, anche se non altrettanto acuta: quella di vivere tempi mediocri (mediocri? ma si vede, nella politica, ormai da troppo tempo, nella vita urbana, in società). Arbasino ha la hântise di Bouvard e Pécuchet, e tuttavia quella sindrome è comune agli intellettuali migliori, cioè sufficientemente colti e onesti – come Emma Bovary, anche le due messe maniche sono Flaubert.
È contenutista. Bizzarramente, fortemente ancorato alle cose, anche letterarie, e agli elenchi delle cose, cioè ai loro titoli, e quindi agli aspetti meno connotativi. Un instancabile repertoriatore. Per l’ansia di quale mancanza? È uno scrittore espressivo dello sguardo, il solo italiano che non nasconde di vedere tutto, anche l’ordinario e il basso, e i loro insapori linguaggi, per qua nto lutulenti. Ne propone gargantuesche degustazioni, della civiltà materiale e degli insapori linguaggi, mutuandone (mimandone) la mutevolezza, la ripetitività. Potrebbe essere Rabelais, ma c’è passione in lui, risentimento, sdegno, la pirotecnica è pensosa, lo sberleffo non lo appaga, e gioca contro. Né si è ancora capito cosa indigna Arbasino, e di più gli amici, o frequentatori, del medesimo, a volte sembrano i sassi che gli stessi sollevano.
Tutto pure vi è curato, preciso, completo. Ma è la memoria che alimenta i suoi elenchi, le stesse descrizioni, per la prepotenza della cultura. È memorialista: i racconti, “Fratelli d’Italia”, i libri politici, “Paesaggi italiani”. Ne ha la solitudine – nella socievolezza estrema, ostentata, e il disamore. Ma non la cattiveria. Arbasino è allora il memorialista che si rifiuta? Che vorrebbe ancora ballare ma non può, va a memoria. Oppure non quadra per non essere reazionario – il Grande Memorialista è per definizione misologo. Si sente anzi, in quella sua concitazione, caring. Da qui l’irresolutezza, lo spillare e germogliare continuo, talvolta perfino fastidiosamente interrogativo: per soffocamento da indignazione, o da incredulità (l'Incantato del presepio). Anche dove vorrebbe colpire, l’irenismo (la pavidità?) riemerge. E la frivolezza che mette avanti fiisce per ricoprirlo – Mario Luzi in Cina non ne ebbe buona impressione, al punto da scriverci un libretto contro.

Esclusi e marginali - Stare nel partito Comunista “rappresentava una garanzia di potere, sopratutto intellettuale”. Non è stato ipocrita Cesare Cases, interrogato per i suoi ottantanni da Antonio Gnoli su “Repubblica” (30 gennaio 2000). Studiava in Germania orientale nel 1956, “e assistetti a tutto”, dice: “L'ultima cosa che vidi come testimone fu la seduta del partito (Comunista) in cui si scomunicò Ernst Bloch”. Si poteva scomunicare un Ernst Bloch.
Cases rimase iscritto al partito Comunista fino al 1959, “poi ne uscii”. Ma non se ne allontanò. Non si può farne una colpa allo spiritoso Cases. Ma la fedeltà si nutriva di ostracismi. Alcuni:
Carlo Coccioli
Curzio Malaparte
Dino Buzzati
Mario Soldati
Salvatore Satta
Guido Morselli
Aldo Palazzeschi
Primo Levi, uno dei capisaldi del secondo Novecento
Giovanni Arpino
Carlo Cassola, che ne soffrì molto
Vitaliano Brancati
Paolo Monelli
Guido Piovene
Ercole Patti
perfino Landolfi
e lo stesso Arbasino.
Espunti dagli studi e le critiche, e dalle biblioteche, specie dalle comunali, dove si fanno il vero prestito e la lettura. Espunti o in castigo nei cataloghi e nellelibrerie. Grazie alle case editrici di Partito, di proprietà o in graziosa gestione, Milano sempre fiuta il vento, i critici di Partito, gli intellettuali. Perfino i classici e gli autori di lontano si valutavano, e si valutano, sulla base del centralismo democratico, le direttive del Capo: tutti insieme a esecrare Céline, oppure ad annetterselo, idem per Pound o Carl Schmitt, o Tasso, o Petrarca.
Poche le persone libere e non censurate, Debenedetti (che però non poté avere la cattedra, e fu precario per una vita), Contini (che però ha fatto tanti danni, dal Dante pietroso a Pasolini sopravvalutato).

Plurilinguismo – È sempre insidioso: gli accenti, le torniture, le cadenze, l’appropriatezza, il contesto. Anche quando l’uso si certifica filologicamente, come Pasolini usava – alla sua maniera, di maestro elementare con consulente di borgata. Eccetto che a fini sperimentali o parodistici, abbiamo una sola lingua. Che è quella della “Commedia” più che del “Canzoniere”: la lingua si vuole ardita e mobile.
La lingua va nel contesto del testo, essendo la cifra della esposizione. La lingua va nel contesto della lingua. Gadda, per esempio, quando fa parlare i milanesi. L’equivoco nasce con Manzoni, che i lombardi fa parlare toscano. Ma quella è un’operazione politica. Di alta, forse, politica. Con l’applicazione di uomo del dovere, se non di studioso.
La Svizzera mistilingue, a lungo obbligata a parlare le lingue degli altri, ne è subito uscita appena ha potuto adottare l’inglese come lingua comune. Il negoziante tedesco a Zurigo o a Davos non si obbliga a imparare l’italiano e il francese ma opta per l’inglese: la lingua è una cosa, la comunicazione un’altra.

Sciascia - È ottimo scrittore, persuasivo. Ma usa in maniera errata la chiave del “diverso”, del “noi e loro”, e più per la sua sensibilità politica e l’abilità retorica. Questo nei tre quarti della sua opera, quella dichiaratamente politica. Tutto è negativo nella visione che egli ha della sicilianità, e questo non è possibile. Fa eccezione per la vecchia mafia, il vecchio fascismo, e magari le vecchie zolfare, e questo è ancora peggio.
L’eccessiva dilatazione del conclamato pessimismo è confermata e conformata dalla chiave positiva che egli sempre usa per le realtà a confronto, Milano o Parigi o la Spagna. Contraddicendo la presunta caratterialità del pessimismo, e tanto più per il razionalismo residuale, al modo del Pascal della scommessa. È un colonizzato o un assimilato. Ottimo scrittore, ma uno che introietta gioiosamente la propria “dipendenza”, la rinuncia cioè al diverso, a una parte cospicua di se stesso.

Contestando Manlio Sgalambro, che aveva dato l’“addio” a Sciascia (“Corriere della sera” dell’11 febbraio 2005), Manuel Vàsquez Montalbàn dà la vera ragione del “difetto” di Sciascia, alla passione civile di aver dato un ruolo monopolistico, riducendola peraltro alla mafia (“la Sicilia come metafora”). “In un mondo in cui tutto cospira per farci accettare una verità unica”, scrive Vàsquez Montalbàn, “un mercato unico e un esercito unico, la copertura ideologica che si sta costruendo al servizio di questa congiura è fatta su misura per la capacità di analisi e di smascheramento di Leonardo Sciascia”. È invece il contrario: è parte di essa. Se non della congiura, del servizio della congiura.
La capacità di rifiuto si esclude nel momento in cui si combatte sul terreno dell’avversario, anche se non si aderisce alla sua ideologia, e per quanto vivacemente la si contrasti. Si dice no al pensiero unico, al mercato, all’economicismo, pensando, vivendo e proponendo una realtà altra. Altrimenti se ne è complici, per quanto critici, poiché si opera, o si pensa, all’interno del suo linguaggio, e quindi del suo sistema di giudizio. La mafia che diventa la Sicilia, e la Sicilia che diventa l’Italia e il mondo, sono parte integrante della cospirazione: hanno la funzione di demoralizzare chi (i più, la quasi totalità) ne è fuori e vive o vorrebbe vivere un’altra vita. Il monopolismo dell’antimafia fa parte della mafia, si reggono a vicenda.

Luigi Malerba insiste, sul “Corriere della sera” del 31 maggio 2005, che Sciascia ha fatto solo un piacere ai mafiosi, che lo leggeranno, dice, con diletto. Malerba sbaglia, i mafiosi non leggono, ma è Sciascia che gli ha dato questa idea – Malerba, parmigiano di Orvieto, può non sapere che la mafia è ignorante e anzi analfabeta. Ma è Sciascia l’Autore della Mafia, il suo creatore: questo vedere mafia dappertutto da una parte, e dall’altra la sua ipostatizzazione-intronizzazione, nei saggi più che nei racconti (dove invece la Sicilia è diversa, come è).

Sciascia ha una componente forte – nei saggi e anche nei romanzi – di teismo, o spiritualismo, esoterico. Non alla maniera dei fratelli Piccolo, che si può ridurre a mania senile o esoterica, di cui sorridere con divertimento, come faceva il loro cugino Giuseppe Tomasi, ma nel senso proprio, massonico. Si vede nella propensione a rivoltare la storia, al misterico, al complottistico, e finisce nella magnificazione della mafia – viene sovrapposta alla Sicilia come un macigno una manica di brutti ceffi - e in alcuni riferimenti simbolici. È un laicismo sterile, col culto ridicolo del “com’eravamo”, che è un passato più spesso abominevole.
Sterile è il laicismo nell’isola perché massonico: la chiave è sempre quel riempirsi la bocca della Riforma, che l’Italia non avrebbe fatto. È uno spiritualismo sterile ai fini pedagogici e democratici: inevitabile sconfina nella misantropia, che oggi denomina società civile, il disprezzo del volgo, e si chiude nel vecchio notabilato, che in regime democratico non è più produttivo. Ci sono in letteratura più Sicilie, quella della prima lirica italiana, quella del popolo di Guastella e Buttitta, quella di Tomasi di Lampedusa, Vittorini, Brancati, Verga e il primo Pirandello, e c’è quest’altra, che per essere “francese” e “rivoluzionaria” è – si potrebbe dire alla Sciascia - ineffettuale.

Casini sfida il Pd alle Europee

È sembrato un fuoco di paglia, un’apertura subito richiusa, quella di Casini ai popolari scontenti del Pd, o viceversa. E invece no, è stato, è, un tattico assaggio delle posizioni relative. Il leader dell’Udc, rinfrancato dai molti messagi che gli sono giunti ultimamente dall’interno del Pd, ha solo finto l’apertura delle sue liste agli ex popolari, e lo schieramento dell’Udc nella sinistra, seppure moderata. No, Casini ha solo sfruttato il momento per allargare lo sconcerto tra i popolari. Da giovane-vecchio democristiano sa che solo i rapporti di forza contano, quanti voti uno ha. E in questa prospettiva ha preso l’iniziativa.
Alle europee ci sarà una conta “definitiva”. Da cui Casini si attende che i suoi tengano o incrementino i suffragi, mentre i popolari resteranno con ogni probabilità in sofferenza, come Pd, e all’interno del Pd nella candidature.
Casini non ha fatto nulla di più perché sa che collocare l’Udc a sinistra lo ridurrebbe al ruolo di Mastella. I suoi elettori sono moderati, e se non amano i “massoni” di Berlusconi, si trovano benissimo con il “piccolo Andreotti” Fini. L’avvicinamento tra i popolari e i casiniani, che questo sito da tempo ha segnalato, non è un abbracciamoci, ma un bracico di ferro. Anche questo Casini sa, che non ha nessuna voglia d’imbarcare altri primattori nel suo partito, da Rutelli al giovane Letta.

Che ne sarà di Calciopoli a Napoli? Niente

Non partirà il 20 il più volte rinviato processo di Napoli alla Juventus e al calcio, escluse le milanesi (a Meani, consigliere del Milan, non si contesta il decennio di pranzi con Collina). Gli accusatori non hanno carte nuove in mano, dopo le intercettazioni. Né “La Gazzetta dello sport”, né “L’Espresso” e il “Mattino” hanno da tempo più carte. E precedenti ormai famosi indeboliscono le intercettazioni, da Necci a Saccà, una volta smaltito lo sghignazzo. Su quelle di Moggi si sa già che sono selettive, mancano molte telefonate degli uni con gli altri, e anche parti delle stesse telefonate. Ma, soprattutto, ci sono dubbi sulla condanna che si dava per scontata da parte dei giudici di Napoli: la riforma della Costituzione è ormai certa, che separerà le procure dai tribunali, e i giudici si riposizionano. Nessuno si vuole sacrificare per la Procura. Tanto più che il corpo dei procuratori della Repubblica non gode più a Napoli buona salute, rispetto allo strapotere di qualche anno fa, quando liquidò Cordova, il Procuratore capo che voleva farli lavorare.
Aria nuova in Procura
Il rinvio del 20 sarà addebitato alla difficoltà di formare il collegio giudicante. Che non è una scusa, è anzi, per il momento, l’unica verità del processo. In particolare a Napoli, che da vent’anni a questa parte è la capitale della giustizia italiana, a Napoli e a Milano, Torino, Roma, Potenza, Catanzaro, il cambiamento d’aria politica è sensibile. In città dopo trent’anni, e anche a Roma, aspettando la riforma. Calciopoli è un processo indigesto: non ci sono prove, non c'è corruzione, l'associazione a delinquere è vaga, la decisione rimane tutta sul roppone dei giudici. Il rito abbreviato richiesto da alcuni accusati impone peraltro una sentenza in poche settimane. E nessun giudice vuole esporsi, né con una condanna né con una assoluzione. La riforma aprirà, cosa che i giornali trascurano ma non i magistrati, molte nuove carriere per la magistratura giudicante, nella stessa città di Napoli, e a Roma, al Csm e in Cassazione.
C'è del resto aria nuova a Napoli pure in Procura. Compresa la Procura antimafia, che, operando come si sa in territorio neutro, una specie di Svizzera dell’Italia, le sue energie maggiori ha dedicato al calcio degli altri – non c’è niente del Napoli, squadra anch’essa pulitissima, come l’ambiente, nelle insistite indagini napoletane. La Procura sta recuperando a destra con la decimazione della giunta Jervolino. Ma non ha fugato le ombre accumulate con l’inerzia negli anni della spazzatura, quando solo colpì la Protezione Civile. Il Procuratore Beatrice, stratega mediatico delle intercettazioni dei carabinieri, si sta peraltro godendo “Gomorra”, di cui è il vero autore, in un certo senso appagato, in una col capo Narducci. Mentre tra i carabinieri gli autori dell’inchiesta e gli sceneggiatori degli interrogatori nel proscenio di via In Selci a Roma non hanno avuto le promozioni che da due anni si attendono - non quelle folgoranti di merito, solo qualche avanzamento di anzianità.
I due “Libro nero del calcio”, oltre duemila cartelle sul “coinvolgimento nel sistema Moggi di governo, carabinieri, polizia e guardia di finanza”, che hanno arricchito “L’Espresso” a maggio del 2006, non sono piaciuti all’Arma. Soprattutto per l’ironica avvertenza che le annunciava: “È necessario ribadire con chiarezza che le conclusioni formulate dai carabinieri sulla rilevanza penale dei comportamenti segnalati in questi documenti dovrà essere sottoposta (? dovranno essere sottoposte?) a un doppio vaglio”, della Procura antimafia e dei giudici. L’italiano è quello approssimato di “Gomorra”, quindi di ottima fonte, ma l’Arma evidentemente non si fida.
Surplace a Milano
Non è tutto. Presto potrebbe lasciare Gussoni, e forse anche Collina, i designatori degli arbitri. Non perché sono troppo interisti, ma perché non c’è più armonia nella Lega Calcio post-Calciopoli, dichiaratemente Milan-Interista. Guido Rossi ha irritato Berlusconi, in politica e inpiù di un affare, i giornali milanesi lo sanno e sono divisi, e tutto quello che l’avvocato ha fatto potrebbe venire in questione – che è molto: Guido Rossi non è un Carlo Colombo qualsiasi, è un nome vero, esiste, era consigliere dell’Inter, s’è impadronito della Federcalcio e ha rovinato la Juventus e la Fiorentina. Napoli, dove tutto in teoria si è fatto, ha naso sensibilissimo su chi comanda.
Ieri, in altra epoca, i giudici avrebbero pure marciato, ma oggi suonano strampalate come prove in tribunale le formazioni e le cronache giornalistiche delle partite, di cui i carabineri hanno farcito i Libri Neri. Una sola cronaca a partita scelta tra le tante, quella che criticava la Juventus. O il juventinismo dell’arbitro De Santis, quello col quale la Juventus non ha mai vinto, che le intercettazioni mostrano all’orecchio del Milan. O il rapporto di Moggi con Lapo Elkann. O le denunce, non controllate, di dirigenti sportivi e procuratori inaffidabili, pentiti ex post. Accuse problematiche anche per dei giudici napoletani, della scuola cioè che fa il diritto. Gli umori divisi a Milano e la riforma della giustizia mettono in surplace il processo di Calciopoli.

Fini s'assottiglia

Il presidente della Camera Fini scrive al “Corriere della sera” un concentrato di nulla, sebbene lungo mezza pagina. Non è una novità, ma la missiva è esemplare del linguaggio politico, un documento storico. Vediamola. Scritta “senza alcuna pretesa di organicità”, chiede subito “un ampio confronto parlamentare tra le forze politiche”, e mette agli atti: “una realtà non più tollerabile”, “un crescente sentimento di sfiducia nei confronti della giustizia”, “le fondamenta della nostra democrazia” minate, “la stella polare della riforma”, e “risorse finanziarie adeguate”. Non: ci sono giudici cialtroni e altri che si fanno il mazzo, ma quelli sono protetti dal Csm, sentina di tutti i vizi, un vero organo, seppure costituzionale. No, un politico deve dire quello che ci si aspetta che lui dica. Per il “ci” intendendosi il nulla.
Nella sua nuova veste di statista, da ex missino Fini pare che voglia imitare Andreotti, ma Andreotti non era banale, ed era anzi un uomo politico senza mezze misure, uno con la ghigliottina. Il programma di Fini è invece quello del conte zio manzoniano, che tutto vuole troncare e sopire. Un programma, incidentalmente, su cui Veltroni si è dichiarato subito d'accordo, prima ancora di averne finito la lettura, e anche questo è importante, è un documento per la storia. Anche perché con esso Fini si pone al centro, pure lui, e la cosa non è da disprezzare, per uno che viene dal neo fascismo. Si assottiglia, come direbbe il toscano, come la sogliola, per confondersi, o come la biscia, per passare meglio. Sarebbe maturo per l'Udc, se non fosse che il posto è saldamente presidiato. E allora perché non il Pd, le parole vuote gli assicurerebbero primarie trionfali... Ma proseguiamo.
Fini è, ci mancherebbe, per “il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale”, che c’è da diecimila anni o più, da quand’è che l’uomo è sapiente. E per “l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge”, nientedimeno. Nonché contro “le nefaste logiche correntizie”. Mentre le intercettazioni “sono e devono restare uno strumento indispensabile di ricerca della prova dei reati”, e chi dice di no? Ma non ci vuole, lo giurereste, “la gogna mediatica”.
Il presidente della Camera dissente dalla riforma che il governo sta preparando, ma il suo dissenso mette tra parentesi “(ipotesi cui non credo)”. Lui vuole una riforma “per un periodo limitato”. Una riforma, dunque, per un periodo limitato, detto da un presidente della Camera. Uno che vuol’essere prudente, non si sa mai, i giudici bisogna temerli. O vuole piacere a tutti, giusto la lezione del primo Veltroni, il buono. Dovrebbe dire: io esisto perché esistono i giudici cialtroni, prima di loro ero un semplice capo dell’ex Msi. Ma questo non si può pretenderlo. Si potrebbe in subordine pretendere che parli in modo diretto, chiaro cioè e franco. Ma forse non avrebbe molto da dire. Si dice di Fini che studia da Andreotti, ma Andreotti, seppure cauto, era un fuoco d’artificio, un politico perfino violento di fronte a tanta voglia di appiattimento. Se mai Fini, il giovanotto famoso per essere stato sdoganato da Berlusconi all’inaugurazione di un ipermercato, ha mai avuto spessore.

martedì 6 gennaio 2009

Il lungo tubo di Mosca

Quando il gas c'era solo da prenderlo
Solo per gli dei il caso non esiste, il loro è un Dio di verità. Per questo è terribile, non c’è verità che non sia distruttiva. Ma già Gesù aveva dei dubbi. L’ambasciatore conversa liberale con tutti, Nikita Rijov, per ognuno ha succose ribattute. Arcangelo concede:
- Con gli anabattisti è fallita la sola vera rivoluzione comunista, di popolo, non classista. Questo avvenne quando a Jan Matthijs, morto in battaglia, alla testa dei fratelli Moravi succedette il sarto Jan Beuckelsz di Leida, che estese il comunismo all’uso delle donne. C’è sempre negli ordinamenti umani un vizio, una frattura.
- Il peccato è grave non tanto per la concupiscenza in sé, quanto perché essa è fomes peccati, induce al peccato - Rijov sa anche di latino.
- Ma ogni speranza, eccellenza, non è perduta. La Scolastica usava il termine opus operatum, l’opera compiuta, per salvare l’effetto della grazia immanente a un sacramento dall’eventuale stato di colpa dell’amministrante: per quanto il prete sia un mascalzone, la messa resta valida. -E intende: così sarà del comunismo. - Dio resta eterno amante delle anime. Accanto alla chiesa visibile prospera l’invisibile.
Si celia, Arcangelo e l’ambasciatore indossano ideali parrucche incipriate, tra gli stucchi, le specchiere e i marmi fulgidi del pavimento:
- Il lusso è utile – Metello non si scandalizza, e del resto il lusso a villa Abamelek è vero, sobrio: - È l’anima dell’economia, da Mandeville a Sombart, Bernard de Mandeville, Marx compreso. - E fino a Rathenau: in un paese nel quale non ci sono più ricchi ci sarà solo gente pove-ra, molto povera, diceva Rathenau, che era banchiere e liberale. – Cancella il senso del limite, è la base dell’accumulazione. La regina Elisabetta ha un guardaroba di tremila abiti. In Germania si faceva ottima musica nelle corti, benché piccole. - C’è gente solida, molti del Partito: l’editore di Severo, Giancarlo Pajetta, Longo, Cossutta, che tiene la cassa, e Zagladin, che parla un amabile italiano. Sanno tutti del gas, è entrato nella grande politica. È la festa della rivoluzione d’Ottobre. Benché presidiata da addetti militari che le uniformi onuste di medaglie appesantiscono, le corazze fanno male al cuore: imitano il principe Menšikov, il cui busto Rastrelli gonfiò di decorazioni, ma hanno i volti cadaverici delle spie di fantascienza. L’ambasciatore, che non indossa medaglie, è se possibile più massiccio, ma si sa che i russi celano lo spirito in un corpo grande.
- I russi sono pazzi - è altra verità di Metello – potenzialmente. Domani l’ambasciatore potrebbe essere dichiarato pazzo, e sarebbe felice al manicomio invece che ai lavori forzati. – Forse per questo sono rigidi: non girano la testa ma il tronco, che non piegano. Il portamento è sempre grave, il gesto fisso, ci saranno scuole di posa. La rigidità si dice ieratica e invece è metafisica, è inalterata anche se ridono, fumano, bevono. - Se non fossero grossi e sovietici sarebbero snob disseccati, imitatori di nessun vezzo. I russi sono geniali perché vivono da sopravvissuti.
C’è il ministro del Commercio estero, onorevole Tolloy, che secondo Metello ha boicottato l’accordo per il gas in obbedienza alla Cia, e invece è presenza naturale, volendosi uomo di Mosca, vecchio carrista, socialista dell’Urss. Alla fine dei conti li ha costretti a ridurre il prezzo. Ogni anno con la festa i sovietici firmano l’accordo per importare i tubi dall’Italia, tubi d’acciaio non saldati per scavare i pozzi di petrolio, migliori di quelli tedeschi. Da quest’anno li pagheranno col gas, l’accordo è concluso. All’assemblea Montedison un socio ha potuto definire l’Ente “il lungo tubo di Mosca”, s’è tolta la soddisfazione. C’è il commendator Gentili, gli occhi chiari pieni d’allegria tra le rughe. Condivide il vizio di tenere le braccia conserte dietro la schiena alla maniera dei ragazzi, che ingobbiscono la figura invece di tenerla eretta. È interessato all’Africa. Lo diverte l’occupazione della Triennale a Milano, che ha presieduto:
- Si divertono, ma la creatività non si vede. Mentre i pochi finanziamenti, raccolti a fatica, si dileguano. Beh sì, sarà una provocazione.
Dino Gentili, fine figura di socialista, è mercante di stampo antico. Ha aperto il mercato cinese nel 1953, prima che il Pci ne pretendesse l’esclusiva. Viene da Cuba, ospite onorato della Tricontinental, per avere dal 1965 riaddolcito l’Italia con la canna di Fidel, invece della barbabie-tola autarchica. Ha portato a Nenni il premio Stalin, e l’ha riportato indietro dopo le rivelazioni di Krusciov, in dollari, forniti da Rizzoli. “Profitti di Mao, contanti per Nenni”, titolò Time del commendatore. È stato oppositore perfino frenetico di Mussolini, ma con diritto al passaporto in qualità di direttore della fabbrica di bottoni di Gurlago, a Bergamo, che sfruttava il brevetto tedesco della corozite, surrogato del corozo, la materia prima vegetale con la quale allora i bottoni si fabbricavano. E uomo di fiducia degli inglesi, per conto dei quali consegnava le medaglie alla me-moria e un piccolo contributo alle famiglie dei caduti per la Resistenza.
C’è l’onorevole Andreotti. Di tutti i crocchi è un gentiluomo piemontese che commercia il ferro, e oscuro spiega che si sarebbe potuto avere il doppio del gas:
- In venti anni sarò stato a Mosca almeno mille volte - dice, una dunque ogni settimana, escluse le Pasque, i Natali e i Ferragosti. Il raddoppio del gas, è un’idea.
(Il gas russo, che ogni anno è materia di controversia internazionale, è anche materia romanzata, con qualche proprietà esilarante, di più episodi di Astolfo, La gioia del giorno, editore Lampi di stampa. pp. 624, € 24,10, di cui pubblichiamo un estratto).

lunedì 5 gennaio 2009

Da Trento a Napoli sciogliete le file

L’esempio è quello di Trento, un candidato ex popolare che in piena autonomia negozia e obbliga il voto democratico e casiniano. D’Alfonso prima, e ora Russo Iervolino, marciano spediti verso una resa dei conti all’interno del Pd. Il sindaco di Napoli, azzerando la giunta in polemica con Veltroni, l’ha anche detto: “Dietro al pretesto del rinnovamento qui si sta consumando in realtà un regolamento di conti interno al partito (Democratico)”. Il rifiuto di Veltroni e la rivolta sono anche dietro il silenzio dell’ex sindaco di Pescara e i mugugni di Marini.
I leader della frazione popolare del partito Democratico devono peraltro tenere conto della critica aperta di molti dirigenti e amministratori locali. Tra i quali cresce, seppure per spirito polemico, la proposta di un’alleanza alternativa con l’Udc di Casini. Per molti aspetti questa è ancora la fase costituente – la vera fase costituente – del partito Democratico, in vista del suo rinnovamento nella lunga marcia attraverso l’opposizione. Quindi una serie di prese di posizione interne in vista del rinnovo del vertici. Ma le tensioni dissolutrici sono anch’esse forti.
Il riferimento a Casini è una sorta di “indice della disperazione”. Non una scelta, poiché il leader dell’Udc e il mondo dei popolari sono molto lontani. Ma un modo come un altro per “fare qualcosa”. Per riacquistare autonomia, e anche per difendersi. Per molti popolari la questione morale di Veltroni è solo espediente a indebolire ulteriormente le componenti dello schieramento non diessine.

L'harem gay della Procura napoletana

L’harem di Romeo non è male. Fra tutti gli intrepidi cronisti giudiziari, ammanicati con questo e con quello, Fiorenza Sarzanini ha un moto d’indipendenza, e ha scritto sul “Corriere della sera” quello che gli stessi giudici scrivono. Solo un assaggio, per non abbattere troppo la categoria, ma memorabile. Il Comune di Napoli, secondo i procuratori partenopei, «si è trasformato in un "regno" in cui un onnivoro e famelico re muove le sue pedine incurante della presenza di una ufficiale regina la quale, non senza una profonda ingratitudine, viene costantemente apostrofata con volgari epiteti finanche dai propri figli putativi, letteralmente obnubilati dalla smania di emergere e di soddisfare a tutto tondo i desideri del sovrano». Il vespone Romeo e l’ape Iervolino sarebbero già abbastanza, ma non è tutto. L'avvocato Romeo, imprenditore dei servizi pubblici, è a capo di «un'organizzazione ben radicata e strutturata, rispetto alla quale il perseguimento degli interessi pubblici è un inutile orpello... e dove i funzionari delle istituzioni sono come in un harem e fanno di tutto per assecondare e compiacere il sultano in modo da diventare suo favorito». Per prenderlo cioè "a tutto tondo"?
Si dice dell’incosciente: balla sul vulcano. Un imprenditore-di-servizi-pubblici è certo figura impagabile. Ma l’harem di soli uomini, e non di femminella ma di robusti manovratori, benché irresistibile, anche per l’impunibilità, per una volta, di un linguaggio osceno in una aula di giustizia, dà voglia d’invocare il vulcano.

La leggerezza del tradimento

A rileggerlo sapendo che Kundera ha fatto la spia, “L’insostenibile leggerezza dell’essere” è un’esibizione senza pudore non ironica né divertente, di carnaccia spenta. L’eterno ritorno vi è dell’eterno rimosso. Per l’insopprimibile bisogno di tradimento, delle amanti e degli amici. Giustificandosi col detto “einmal ist keinmal”, una volta non fa testo. Sembra tutto scritto. L’impudicizia fa dell’“intero universo… un enorme campo di concentramento di corpi identici fra loro e con l’anima invisibile”.
La verve c’è ancora. L’invasione russa fronteggiata e sconfitta con lo scherno. La decostruzione e l’imborghesimento di “Anna Karenina”, con cui un altro romanzo lirico si compone. La bellezza per errore. Il caso sostanza della realtà: “soltanto il caso ci parla”. La teodicea della merda. In un plot che è l’ultimo sogno di onnipotenza del maschio (occidentale). Ma si partecipa molto meno. E all’elogio del tradimento, al capitolo III, “Le parole fraintese”, non si ride più. Fatto dal personaggio più forte del romanzo, la pittrice Sabina, donna libera. Col codicillo: “Il primo tradimento è irreparabile. Esso provoca una reazione a catena di nuovi tradimenti”.
C’è anche l’interrogatorio suadente che finisce in delazione, al cap. V, sulla pesantezza. Amare è atto di cinismo: amiamo qualcuno perché ne abbiamo bisogno. “Vivere nella verità”, come Kafka vorrebbe, o nella “casa di vetro” di Breton, è solo possibile ai bugiardi e ai misantropi. Pesa pure l'ovvio: "Non si dice forse che l'autore non può parlare che di se stesso?... Tradire, e non potersi fermare sulla bella strada del tradimento?... Tutte queste situazioni le ho conosciute e vissute io stesso", l'autore.
D’improvviso appaiono singolarmente riservate le due citazioni promozionali, di Calvino e di Citati, in copertina del tascabile Adelphi.
Resta l’infamia dell’impero sovietico, dentro l’Europa. Più tristi di tutto le intercettazioni, di oppositori e esuli, quando sparlano tra di loro. E questo non per colpa di Kundera.
Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, 1984