Harold Bloom, eccellente critico comparatista, specialista della Bibbia, appassionato di Vico e di Shakespeare, ha costruito quindici anni fa una storia della letteratura occidentale tipo Attilio Momigliano, il Cappuccio, il Sansone, il Sapegno, il Russo, il Petronio, con le graduatorie e i titoli di merito. Vi si è anche disperso. Ma questa riproposta, per quanto singolarmente scorretta, gli rende più giustizia che la prima edizione, per i guasti ormai manifesti del multiculturalismo che egli denuncia, una barzelletta (ma il multiculturalismo era una barzelletta, anzi una violenta satira, già nel suo primo capolavoro, il “Mumbo-jumbo” di Ishmael Reed), e della democrazia dell’espressione. Che tutti abbiamo diritto di parola è diventato che la parola di tutti è uguale, e non è possibile che la stupidità sia al governo, per quanto buona.
Il “Canone” è dunque una buona vecchia storia della letteratura comparata. Entusiasta, da grande lettore, corroborante. Non registrata, e spesso prolissa. Ma brillante, spiritosa. Per il divertimento nella lettura, che ancora non era amorale, la critica asfittica non aveva dilagato. Divertente la ricostruzione di “Shakespeare è un altro”, è Marlowe, è una donna, è il conte de Vere eccetera (più divertente per il lettore di Bloom, che sa di un suo “Gesù e Yahvé”, unico testo non citato nell’inappuntabile saggio introduttivo di Andrea Cortellessa, in cui egli stesso invece argomenta del primo che è “un personaggio più o meno storico”, e forse non ha fatto quello che ha fatto). Piena di witz, come si deve. Esempi:
L’ansia da influenza, che paralizza i talenti più deboli ma stimola il genio canonico (p.17)
La critica letteraria fu inventata da Aristofane (anche se il copyright, dice Bloom, è di Bruno Snell) (22)
L’immortalità della letteratura è di Petrarca( 25)
Il “Paradiso perduto” come fantasy (32)
L’analogia tra la nascita di un bambino e la creazione di una poesia (38)
Il Canone è il ministro della morte ((ib.)
L’agonismo delle scrittrici, molto più determinate degli uomini (41)
Il “Faust” di Goethe è più un’opera lirica che un dramma teatrale (223)
Il Gesù della tradizione americana non è l’uomo crocefisso né il Dio dell’Ascensione, bensì l’uomo risorto che trascorre quaranta giorni con i suoi discepoli, quaranta giorni a proposito dei quali il Nuovo Testamento non ci dice quasi nulla (290)
Emily Dickinson, una setta composta da una sola persona (318)
Browning e Dickinson, i due grandi maestri inglesi del grottesco (344)
La critica letteraria freudiana è come il Sacro Romano Impero, non sacro, non romano, non imperiale (399)
La posizione del narratore ne “La prigioniera” e “La fuggitiva” è quella di una lesbica di sesso maschile (429)
“Orlando” di V.Woolf è l’inno erotico della letteratura indifferenziata (476)
La pazienza di Kafka (481)
Kafka è uno scrittore di romanzi e non un autore religioso (ib.)
Kafla è semplicemente la scrittura ebraica, persino più di Freud (484)
Se non fosse per il suo assunto principale, che c’è una letteratura occidentale - ebraica, greca, europea, americana - e che essa è il meglio che c’è al mondo. Ma si può essere critici non prevenuti, senza cioè approdare come Bloom usa dire alla Scuola del risentimento, che il Canone limita ai “maschi, europei, bianchi, defunti”. Senza essere cioè populisti (multiculturalisti, relativisti, tutti i nomi che la mediocrità prende, facendosi scudo della democrazia). Perché non c’è Omero in Papuasia? E che ne sappiamo noi?
Harold Bloom, Il Canone occidentale, Bur, pp.588, €14,50
giovedì 19 febbraio 2009
Il pil e lo sterminio degli irlandesi
Nel 1640 “il governo di Oliver Cromwell sfollò i cattolici insurrezionisti verso il nord e misurò la ricchezza terriera per ridistribuirla alle truppe inglesi. Il Pil nasce così per tassare e redistriduire”.
Il “Corriere della sera” ha fatto eccezione ieri al progressimo d’ordinanza per raccontare così l’origine del pil – o non ha fatto eccezione: nel progressismo d’ordinanza ciò che si fa a Nord va sempre bene, il protestantesimo è meglio del cattolicesimo, eccetera. Ma lo sanno tutti che l’Irlanda combatteva da secoli contro il colonialismo inglese, altro che cattolici insurrezionisti. Che combatteva da molto prima che il re d’Inghilterra scoprisse col ripudio le maschie virtù del protestantesimo. E che non il governo di Cromwell, ma Cromwell in persona, un golpista e un dittatore, non “sfollò” ma uccise gli irlandesi, il primo Olocausto della storia. Il Lord Protettore fece in Irlanda 616 mila morti, su una popolazione di un milione 466 mila persone. Li uccise personalmente, di lui non si può dire, come si tenta di Hitler, che manca l’ordine scritto, che non sapeva nulla dello sterminio. I morti calcolò all’unità William Petty, medico al seguito del Lord Protettore, che divenne per questo computo baronetto e, secondo Marx, il padre dell’economia politica.
Il pil semmai, volendo riconoscere il primato del Nord, del protestantesimo, eccetera, c’era prima, con lo scacchiere, e il cancelliere dello scacchiere. Lo scacchiere è una prima matrice del reddito prodotto, sia pure ai fini della tassazione.
Il “Corriere della sera” ha fatto eccezione ieri al progressimo d’ordinanza per raccontare così l’origine del pil – o non ha fatto eccezione: nel progressismo d’ordinanza ciò che si fa a Nord va sempre bene, il protestantesimo è meglio del cattolicesimo, eccetera. Ma lo sanno tutti che l’Irlanda combatteva da secoli contro il colonialismo inglese, altro che cattolici insurrezionisti. Che combatteva da molto prima che il re d’Inghilterra scoprisse col ripudio le maschie virtù del protestantesimo. E che non il governo di Cromwell, ma Cromwell in persona, un golpista e un dittatore, non “sfollò” ma uccise gli irlandesi, il primo Olocausto della storia. Il Lord Protettore fece in Irlanda 616 mila morti, su una popolazione di un milione 466 mila persone. Li uccise personalmente, di lui non si può dire, come si tenta di Hitler, che manca l’ordine scritto, che non sapeva nulla dello sterminio. I morti calcolò all’unità William Petty, medico al seguito del Lord Protettore, che divenne per questo computo baronetto e, secondo Marx, il padre dell’economia politica.
Il pil semmai, volendo riconoscere il primato del Nord, del protestantesimo, eccetera, c’era prima, con lo scacchiere, e il cancelliere dello scacchiere. Lo scacchiere è una prima matrice del reddito prodotto, sia pure ai fini della tassazione.
mercoledì 18 febbraio 2009
La vecchia Dc batte il vecchio cominformista
Quando Prodi ha lodato il governo, domenica, Veltroni aveva già deciso. La sconfitta elettorale in Sardegna è solo stata un pretesto. Se questa informazione è giusta, allora le sue dimissioni sono un riflesso condizionato da centralismo democratico, che non prepara un consolidamento ma aggrava la frantumazione del Pd. Riflesso condizionato all’unanimismo e al comando unico che è stato peraltro costante nell’anno e mezzo del buon Veltroni, i cui geni sono, checché egli ne dica, saldamente cominformisti, di scuola togliattiana. Il caso di Firenze, alla vigilia della Sardegna, ha mostrato nudo il suo teatrino: non stimolare, non aprire opportunità, non creare entusiasmi, nella città e nel partito, ma sanzionare questo e quello, per farsi mandare a quel paese dal giovanissimo candidato sindaco. Il Pd ha (ancora) i federali del Capo. E Veltroni è uno che manda i commissari….
Detto questo, è vero che Veltroni è vittima del suo democristianesimo. con cui pensava di fare le scarpe ai democristiani. Col mai stato comunista - come se i Dc, seppure ex, fossero rincoglioniti. Con il pellegrinaggio ai santi dc vecchi e nuovi. Con la sua collaborazione fidata, nel nome del vecchio Pci, con Romano Prodi. Quando ha pensato che la gallina era cotta, e che poteva mangiarsela, i vecchi Dc si sono alzati dal piatto, e lo hanno buttato fuori di casa - non sarà facile per Veltroni rientrare in corsa, dopo questa colossale falsa partenza. I Dc veri, non quelli che sifingono. A Roma e in gni città d’italia.
Che partito
Un partito moderno è, dovrebbe essere, come l’Ulivo, molto federativo. Capace di esprimere di volta in volta un leader elettorale, comunale, provinciale, regionale, nazionale, ma senza un partito centralista, con una burocrazia. È un fatto, ed è ineludibile: dai referendum del maggioritario il sistema elettorale è stato riformato in senso decisionista, con l’elezione diretta di un uomo. Il sistema non è completato nel punto più delicato, il governo nazionale, ma questo per colpa degli ex comunisti, non abbastanza ex, i quali temono appunto un capo del governo autonomo dal partito, anzi dal Partito. Prodi, che c’è riuscito, è stato abbastanza agevolmente silurato dal partitismo. Berlusconi in parte pure, da Follini e Casini, con Fini, nel passato governo, che però poi ha disinnescato. Ma non c’è più un partito che manda i dirigenti, i candidati, e i commissari, se non appunto il Pd di Veltroni. Ha pure un comitato per le epurazioni.
Detto questo, è vero che Veltroni è vittima del suo democristianesimo. con cui pensava di fare le scarpe ai democristiani. Col mai stato comunista - come se i Dc, seppure ex, fossero rincoglioniti. Con il pellegrinaggio ai santi dc vecchi e nuovi. Con la sua collaborazione fidata, nel nome del vecchio Pci, con Romano Prodi. Quando ha pensato che la gallina era cotta, e che poteva mangiarsela, i vecchi Dc si sono alzati dal piatto, e lo hanno buttato fuori di casa - non sarà facile per Veltroni rientrare in corsa, dopo questa colossale falsa partenza. I Dc veri, non quelli che sifingono. A Roma e in gni città d’italia.
Che partito
Un partito moderno è, dovrebbe essere, come l’Ulivo, molto federativo. Capace di esprimere di volta in volta un leader elettorale, comunale, provinciale, regionale, nazionale, ma senza un partito centralista, con una burocrazia. È un fatto, ed è ineludibile: dai referendum del maggioritario il sistema elettorale è stato riformato in senso decisionista, con l’elezione diretta di un uomo. Il sistema non è completato nel punto più delicato, il governo nazionale, ma questo per colpa degli ex comunisti, non abbastanza ex, i quali temono appunto un capo del governo autonomo dal partito, anzi dal Partito. Prodi, che c’è riuscito, è stato abbastanza agevolmente silurato dal partitismo. Berlusconi in parte pure, da Follini e Casini, con Fini, nel passato governo, che però poi ha disinnescato. Ma non c’è più un partito che manda i dirigenti, i candidati, e i commissari, se non appunto il Pd di Veltroni. Ha pure un comitato per le epurazioni.
Soru, è il sistema plebiscitario!
La Sardegna dopo Roma: si vice e si perde alle elezioni sempre entro il margine del voto d’opinione, il 3-4 per cento del totale. Ma se il voto è sempre radicato, i partiti non più. Inoltre, sono i sistemi elettorali e non correntizi che decidono, amplificando i vantaggi e svantaggi elettorali. È l’esito del nuovo sistema elettorale plebiscitario, adottato ormai con costanza dai referendum maggioritari di quasi vent’anni fa. Non perfezionato alle elezioni politiche nazionali, ma da tempo ormai operativo nelle istituzioni locali, il Comune, la Provincia, la Regione: si vota per un candidato e per il “suo” partito. Un candidato che è sempre un autocandidato, non nominato dal partito, e spesso un outsider, uno esterno agli apparati di partito.
Le istituzioni si sono adeguate a metà, permanendo lo stallo sulla votazione e i poteri del nuovo esecutivo nazionale. Al centro la politica va al plebiscito per avvicinamenti concentrici, il collegio uninominale un tempo, ora la semplicazione (accorpamento) dei partiti. Ma con riserve e deviazioni rispetto a una qualche forma d’investitura diretta dell’esecutivo. Per la diffidenza del vecchio Pci. E per la diarchia con la presidenza della Repubblica, che ha uno status d’incredibile privilegio (durata, irresponsabilità, discrezionalità) e vuole mantenerlo. Agitando, con il supporto degli ambienti economici che non vogliono un governo che governi, lo spettro dell’“uomo forte". Comunque, anche se in parte, il sistema operativo delle istituzioni vi si è adeguato. A riprova, della tendenza e delle resistenze, è il ricorso ai decreti legge: i governi, chiamati a decidere, non sanno che farvi ricorso, mentre Napolitano si affanna a bloccarli, quelli di Berlusconi come quelli di Prodi - sul dettato costituzionale di sessanta e più anni fa. Solo la pubblica opinione stenta a riconoscerlo, e questa è forse la conseguenza peggiore della nefasta influenza dell’ex Pci nelle redazioni politiche.
La deriva plebiscitaria è un fatto. Non ci può essere più il titolo dell’“Unità” che a ogni elezione comunque vinceva. Ora si vince e si perde con nettezza. E poi si rivota. L’abnorme sconfitta di Soru, che per molti aspetti è il prototipo dell’autocandidato, indica insieme la debolezza e la forza di questa figura politica principale del nuovo sistema elettorale plebiscitario. Uno che ha vinto contro le burocrazie di partito, le correnti, le cordate, i gruppi, benché senza fascino personale e noto speculatore, essendosi arricchito a danno di centinaia di migliaia di risparmiatori, anzi le spazza via, e vince. E poi per le stesse qualità, di strafottenza, solitudine, perde, beffato dall’assentesimo, e perfino dal voto disgiunto.
Le istituzioni si sono adeguate a metà, permanendo lo stallo sulla votazione e i poteri del nuovo esecutivo nazionale. Al centro la politica va al plebiscito per avvicinamenti concentrici, il collegio uninominale un tempo, ora la semplicazione (accorpamento) dei partiti. Ma con riserve e deviazioni rispetto a una qualche forma d’investitura diretta dell’esecutivo. Per la diffidenza del vecchio Pci. E per la diarchia con la presidenza della Repubblica, che ha uno status d’incredibile privilegio (durata, irresponsabilità, discrezionalità) e vuole mantenerlo. Agitando, con il supporto degli ambienti economici che non vogliono un governo che governi, lo spettro dell’“uomo forte". Comunque, anche se in parte, il sistema operativo delle istituzioni vi si è adeguato. A riprova, della tendenza e delle resistenze, è il ricorso ai decreti legge: i governi, chiamati a decidere, non sanno che farvi ricorso, mentre Napolitano si affanna a bloccarli, quelli di Berlusconi come quelli di Prodi - sul dettato costituzionale di sessanta e più anni fa. Solo la pubblica opinione stenta a riconoscerlo, e questa è forse la conseguenza peggiore della nefasta influenza dell’ex Pci nelle redazioni politiche.
La deriva plebiscitaria è un fatto. Non ci può essere più il titolo dell’“Unità” che a ogni elezione comunque vinceva. Ora si vince e si perde con nettezza. E poi si rivota. L’abnorme sconfitta di Soru, che per molti aspetti è il prototipo dell’autocandidato, indica insieme la debolezza e la forza di questa figura politica principale del nuovo sistema elettorale plebiscitario. Uno che ha vinto contro le burocrazie di partito, le correnti, le cordate, i gruppi, benché senza fascino personale e noto speculatore, essendosi arricchito a danno di centinaia di migliaia di risparmiatori, anzi le spazza via, e vince. E poi per le stesse qualità, di strafottenza, solitudine, perde, beffato dall’assentesimo, e perfino dal voto disgiunto.
martedì 17 febbraio 2009
Problemi di base - 10
spock
Perché i giudici credono agli assassini, ai ladri, ai falliti, ai corrotti, ai bancarottieri? Contro coloro che operano bene. Ai Gaucci e ai Gazzoni Frascara, per limitarsi al calcio. Che però, certo, è poco serio.
Chi ha denunciato la tangente Enimont? Il pentito non è agli atti.
Perché il barocco, che tanto ha durato e prodotto, deve giustificarsi?
Perché è della Riforma cattolica, dei gesuiti, del Sud (spagnolismo, manuelismo).
Chi ha consigliato a Riina di uccidere Dalla Chiesa, Lima, Falcone e Borsellino?
Chi gli ha consigliato di dinamitare i monumenti di mezza Italia, che Riina non conosce?
E chi è Riina?
Chi voleva uccidere Falcone all’Addaura, con sommozzatori e tutto?
Perché i siciliani, Sciascia in testa, sostengono l’assoluta autonomia della mafia, ininfiltrabile, incondizionabile, totalitaria nel suo territorio? Che invece è sempre saprofita?
Perché delle intercettazioni politiche non si dice che sono fasciste, come lo sono?
spock@antiit.eu
Perché i giudici credono agli assassini, ai ladri, ai falliti, ai corrotti, ai bancarottieri? Contro coloro che operano bene. Ai Gaucci e ai Gazzoni Frascara, per limitarsi al calcio. Che però, certo, è poco serio.
Chi ha denunciato la tangente Enimont? Il pentito non è agli atti.
Perché il barocco, che tanto ha durato e prodotto, deve giustificarsi?
Perché è della Riforma cattolica, dei gesuiti, del Sud (spagnolismo, manuelismo).
Chi ha consigliato a Riina di uccidere Dalla Chiesa, Lima, Falcone e Borsellino?
Chi gli ha consigliato di dinamitare i monumenti di mezza Italia, che Riina non conosce?
E chi è Riina?
Chi voleva uccidere Falcone all’Addaura, con sommozzatori e tutto?
Perché i siciliani, Sciascia in testa, sostengono l’assoluta autonomia della mafia, ininfiltrabile, incondizionabile, totalitaria nel suo territorio? Che invece è sempre saprofita?
Perché delle intercettazioni politiche non si dice che sono fasciste, come lo sono?
spock@antiit.eu
A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (30)
Giuseppe Leuzzi
Si rievoca periodicamente la Repubblica romana, ma sottacendo l’essenziale: che era la Rivoluzione Italiana quale avrebbe dovuto essere, repubblicana, democratica e ben governata, in parallelo con i moti di indipendenza del Nord. Col suffragio universale e una costituzione. Solo fu possibile invece il Risorgimento sabaudo, col sostegno decisivo della stessa Francia di Napoleone III che aveva represso la Repubblica.
L’ultima rievocazione, la “Storia avventurosa della rivoluzione romana” di Stefano Tomassini, benché ingombra dei noti paradossi (Roma senza papa, Mazzini al governo, etc.), e ancora di più di aneddoti e curiosità, fa intravedere la verità: Roma conobbe “un periodo di disciplinato fermento tra i rocamboleschi anni precedenti e la confusione che contribuì alla sua caduta”.
AspromonteIl personaggio alvariano Argirò giura-bestemmia “per la Montagna!”. E così è: l’Aspromonte giace sotto “Gente in Aspromonte”. Sotto questo titolo fortunato, come una disgrazia. Tanto più per avere il racconto influenzato molti narratori successivi, fino al “Prete bello”, Elsa Morante, Pasolini, Pavese, e il troppo neo realismo. È il caso della realtà che copia l’autore – l’unico così potente nella letteratura italiana dopo la Milano di Manzoni.
Innumerevoli sono i rimandi di Alvaro al suo mondo originario, nei racconti, nei romanzi, nei diari, tra la Montagna e il mare Jonio. Della Calabria scrisse anche un sussidiario, non cupo, riportato alla luce da Antonio Delfino. Ma la sua Montagna resta quella di “Gente in Aspromonte”, che appare perfetta e invece è falsa – manca il silenzio, la religiosità, la tradizione, la resistenza, non disperata. Una realtà dolente. Di un’umanità che, per essere povera, è anche miserabile. Anche quando fa festa: si sa che “c’è la festa”, ma nessuno festeggia. Anche nell’infanzia, che invece è sempre spensierata. E la natura si confà, è triste come l’umanità. Mentre invece di suo la Montagna è cristallina e sorniona.
Alvaro muore nel 1956. È celebre, importante e agiato, con casa a Roma in piazza di Spagna e buen retiro in campagna a Vallerano, dove vuole essere sepolto. Il padre, che lo ha voluto ragazzo educato nel collegio esclusivo dei gesuiti a Mondragone, muore a gennaio del 1941. Una morte che (“Memoria e vita”) impone “tregua alle invidie del paese”, tra gente “fuori dal mondo”, in una casa rattoppata, col prete ubriaco: “La notte dormimmo tutti con la madre e le sorelle nella stanza dove figli siamo nati. I vetri erano rotti, i muri lesionati ancora dal terremoto (del 1908? n.d.r.), le finestre cadenti. Entrava il freddo nevoso dell’Aspromonte ed io lo riconoscevo nel sonno come un paesaggio mio”. Una presenza riconosciuta e rifiutata.
Il ritorno a casa può essere ambivalente, secondo la psicanalisi. Felice e angosciante lo dice Lou Andreas Salomé in “Aprile. Memorie su Rilke”. Una plaquette pubblicata nel 2004 che capita di leggere in coincidenza con la plaquette alvariana di Ocra Gialla, “Testi inediti e rari del Novecento”, in cui Aldo Maria Morace presenta due racconti di Alvaro “novecentista”, sotto il titolo “Viaggi attraverso le cose”, spiegando che non c’è vita senza “passato e memoria”.
Morace trova tema alvariano, “estetizzante”, il “trapianto impossibile in un’altra società”. Lou Salomé ricorda a Rilke come egli, tedesco, si sia “trovato” nella sua Russia, di lei. Ma anche lei concorda, non artificiosamente: “Sul suolo nativo, con le sue rocce, i suoi alberi, i suoi animali, rimane qualcosa di sacrosanto all’interno dell’umanità di ognuno”.
Questo essere nelle radici e altrove di Lou Salomé è tanto più rilevante in quanto Rilke aveva “una forte antipatia nei confronti delle proprie origini austriache”. Mentre Lou, russa, si ricorda al poeta più spesso come “noi tedeschi”.
Il racconto bello della plaquette di Morace, “Avventure”, che dava il titolo alla raccolta originaria, non più ristampata, del 1930, “Misteri e avventure”, era stato da Alvaro ripreso dal volume “L’amata alla finestra” dell’anno precedente, dove figurava nel racconto eponimo, col sottotitolo “Il ponte”. È da rivedere se questa realtà-irrealtà non sia il proprio di Alvaro. Anche e specialmente in “Gente in Aspromonte”, che è tutto meno che realista – né neo realista in anticipo, non essendo un testo politico.
Da più parti è stato detto, Pedullà, che l’ha frequentato, lo definisce “il desiderio di scappare”. Da una terra peraltro “dove non si può rimanere e da dove è impossibile fuggire” (Walter Pedullà, “Per esempio il Novecento”, p. 417). Da qui, forse, un “complesso di colpa, ma anche l’urto rinnovato, il disprezzo se non l’odio”. La fuga è una condanna, risentita. Che perpetuamente si rinnova.
“Il narratore ha visto la Calabria quasi solo da bambino”, dice Pedullà (id., p.426). No, Alvaro è cresciuto a San Luca fino ai dieci anni, gli anni “miei più vasti e lunghi e popolati”. Tornò in Calabria a quindici anni, per fare la quinta ginnasio e poi il liceo a Catanzaro. Dove pubblicò le sue prime cose, “Polsi” con poesiole e articoli per due riviste cittadine, “Il nuovo birichino calabrese” e “Rivista d’oggi”. Senza peraltro riuscire a prendere la licenza liceale. Tornerà a San Luca per l’ultima volta ai primi del 1941, per la morte del padre (lui ricorda nel 1940 in “Un treno nel Sud”, p.123: “L’ultima volta che avevo veduto la Calabria era stato alla vigilia della seconda guerra mondiale”). Ma sarà spesso a Caraffa del Bianco, dalla madre, che sta col fratello sacerdote Massimo. No, è lui stesso la Melusina del suo famoso racconto, come ha scoperto Walter Pedullà: “Si sente anche lui in carcere quando sta in Calabria”.
Dei Casamonica e dei Tredicine, clan del sottobosco affaristico di Roma, si dice in questura e nei giornali che sono abruzzesi. Il politicamente corretto non consente di dire che sono (ex) nomadi. Ma possono essere indifferentemente abruzzesi. Il politicamente corretto è scorretto.
Battisti, un killer freddo, è patrocinato dalla sorelle Bruni, le esiliate d’Italia, protetto da Lula, il presidente compagno del Brasile, sostenuto dai giornali impegnati, si sente tra le righe. È il genere Tarantino, o camorra napoletana, del killer che sghignazza mentre spara. deprecato ma evidentemente condiviso.
Dove sono i confini della barbarie, sia pure tra “noi e loro”, bene e male, legge e crimine? Grosse falle si dovrebbero aprire nel discorso delle mafie.
Nel centenario, non celebrato, del terremoto del 1908, si riscoprono soprattutto i soccorsi specifici, di questa o quella città o provincia, o organizzazione del resto d’Italia, la Croce Rossa fiorentina, i Lombardi, eccetera. Di cui alcuni hanno voluto conservare il ricordo ribattezzando i toponimi; ponte Toscano, Martirano Lombardo, eccetera. Non c’era ancora la divisione tra Nord e Sud, o perlomeno non la squalifica del Sud. L’intervento era delle persone, non dello Stato.
È un altro Sud, diretto e felice, quello che esce dall’album di ricordi e fotografie di Alan Lomax, l’etnomusicologo texano che negli anni 1950 registrò i canti popolari in Italia. “L’anno più felice della mia vita”(Saggiatore, pp.40, € 29) è un libro che è la felicità dell’essere, dell’autore. Ma anche di un Sud visto da occhi vergini, vissuto e non “scoperto”, dai prefetti e i carabinieri sabaudi, e dalla sociologia di caserma. Che ne sarebbe stato della “questione meridionale” se gli interlocutori fossero stati tanti Lomax, non necessariamente texani come lui?
leuzzi@antiit.eu
Si rievoca periodicamente la Repubblica romana, ma sottacendo l’essenziale: che era la Rivoluzione Italiana quale avrebbe dovuto essere, repubblicana, democratica e ben governata, in parallelo con i moti di indipendenza del Nord. Col suffragio universale e una costituzione. Solo fu possibile invece il Risorgimento sabaudo, col sostegno decisivo della stessa Francia di Napoleone III che aveva represso la Repubblica.
L’ultima rievocazione, la “Storia avventurosa della rivoluzione romana” di Stefano Tomassini, benché ingombra dei noti paradossi (Roma senza papa, Mazzini al governo, etc.), e ancora di più di aneddoti e curiosità, fa intravedere la verità: Roma conobbe “un periodo di disciplinato fermento tra i rocamboleschi anni precedenti e la confusione che contribuì alla sua caduta”.
AspromonteIl personaggio alvariano Argirò giura-bestemmia “per la Montagna!”. E così è: l’Aspromonte giace sotto “Gente in Aspromonte”. Sotto questo titolo fortunato, come una disgrazia. Tanto più per avere il racconto influenzato molti narratori successivi, fino al “Prete bello”, Elsa Morante, Pasolini, Pavese, e il troppo neo realismo. È il caso della realtà che copia l’autore – l’unico così potente nella letteratura italiana dopo la Milano di Manzoni.
Innumerevoli sono i rimandi di Alvaro al suo mondo originario, nei racconti, nei romanzi, nei diari, tra la Montagna e il mare Jonio. Della Calabria scrisse anche un sussidiario, non cupo, riportato alla luce da Antonio Delfino. Ma la sua Montagna resta quella di “Gente in Aspromonte”, che appare perfetta e invece è falsa – manca il silenzio, la religiosità, la tradizione, la resistenza, non disperata. Una realtà dolente. Di un’umanità che, per essere povera, è anche miserabile. Anche quando fa festa: si sa che “c’è la festa”, ma nessuno festeggia. Anche nell’infanzia, che invece è sempre spensierata. E la natura si confà, è triste come l’umanità. Mentre invece di suo la Montagna è cristallina e sorniona.
Alvaro muore nel 1956. È celebre, importante e agiato, con casa a Roma in piazza di Spagna e buen retiro in campagna a Vallerano, dove vuole essere sepolto. Il padre, che lo ha voluto ragazzo educato nel collegio esclusivo dei gesuiti a Mondragone, muore a gennaio del 1941. Una morte che (“Memoria e vita”) impone “tregua alle invidie del paese”, tra gente “fuori dal mondo”, in una casa rattoppata, col prete ubriaco: “La notte dormimmo tutti con la madre e le sorelle nella stanza dove figli siamo nati. I vetri erano rotti, i muri lesionati ancora dal terremoto (del 1908? n.d.r.), le finestre cadenti. Entrava il freddo nevoso dell’Aspromonte ed io lo riconoscevo nel sonno come un paesaggio mio”. Una presenza riconosciuta e rifiutata.
Il ritorno a casa può essere ambivalente, secondo la psicanalisi. Felice e angosciante lo dice Lou Andreas Salomé in “Aprile. Memorie su Rilke”. Una plaquette pubblicata nel 2004 che capita di leggere in coincidenza con la plaquette alvariana di Ocra Gialla, “Testi inediti e rari del Novecento”, in cui Aldo Maria Morace presenta due racconti di Alvaro “novecentista”, sotto il titolo “Viaggi attraverso le cose”, spiegando che non c’è vita senza “passato e memoria”.
Morace trova tema alvariano, “estetizzante”, il “trapianto impossibile in un’altra società”. Lou Salomé ricorda a Rilke come egli, tedesco, si sia “trovato” nella sua Russia, di lei. Ma anche lei concorda, non artificiosamente: “Sul suolo nativo, con le sue rocce, i suoi alberi, i suoi animali, rimane qualcosa di sacrosanto all’interno dell’umanità di ognuno”.
Questo essere nelle radici e altrove di Lou Salomé è tanto più rilevante in quanto Rilke aveva “una forte antipatia nei confronti delle proprie origini austriache”. Mentre Lou, russa, si ricorda al poeta più spesso come “noi tedeschi”.
Il racconto bello della plaquette di Morace, “Avventure”, che dava il titolo alla raccolta originaria, non più ristampata, del 1930, “Misteri e avventure”, era stato da Alvaro ripreso dal volume “L’amata alla finestra” dell’anno precedente, dove figurava nel racconto eponimo, col sottotitolo “Il ponte”. È da rivedere se questa realtà-irrealtà non sia il proprio di Alvaro. Anche e specialmente in “Gente in Aspromonte”, che è tutto meno che realista – né neo realista in anticipo, non essendo un testo politico.
Da più parti è stato detto, Pedullà, che l’ha frequentato, lo definisce “il desiderio di scappare”. Da una terra peraltro “dove non si può rimanere e da dove è impossibile fuggire” (Walter Pedullà, “Per esempio il Novecento”, p. 417). Da qui, forse, un “complesso di colpa, ma anche l’urto rinnovato, il disprezzo se non l’odio”. La fuga è una condanna, risentita. Che perpetuamente si rinnova.
“Il narratore ha visto la Calabria quasi solo da bambino”, dice Pedullà (id., p.426). No, Alvaro è cresciuto a San Luca fino ai dieci anni, gli anni “miei più vasti e lunghi e popolati”. Tornò in Calabria a quindici anni, per fare la quinta ginnasio e poi il liceo a Catanzaro. Dove pubblicò le sue prime cose, “Polsi” con poesiole e articoli per due riviste cittadine, “Il nuovo birichino calabrese” e “Rivista d’oggi”. Senza peraltro riuscire a prendere la licenza liceale. Tornerà a San Luca per l’ultima volta ai primi del 1941, per la morte del padre (lui ricorda nel 1940 in “Un treno nel Sud”, p.123: “L’ultima volta che avevo veduto la Calabria era stato alla vigilia della seconda guerra mondiale”). Ma sarà spesso a Caraffa del Bianco, dalla madre, che sta col fratello sacerdote Massimo. No, è lui stesso la Melusina del suo famoso racconto, come ha scoperto Walter Pedullà: “Si sente anche lui in carcere quando sta in Calabria”.
Dei Casamonica e dei Tredicine, clan del sottobosco affaristico di Roma, si dice in questura e nei giornali che sono abruzzesi. Il politicamente corretto non consente di dire che sono (ex) nomadi. Ma possono essere indifferentemente abruzzesi. Il politicamente corretto è scorretto.
Battisti, un killer freddo, è patrocinato dalla sorelle Bruni, le esiliate d’Italia, protetto da Lula, il presidente compagno del Brasile, sostenuto dai giornali impegnati, si sente tra le righe. È il genere Tarantino, o camorra napoletana, del killer che sghignazza mentre spara. deprecato ma evidentemente condiviso.
Dove sono i confini della barbarie, sia pure tra “noi e loro”, bene e male, legge e crimine? Grosse falle si dovrebbero aprire nel discorso delle mafie.
Nel centenario, non celebrato, del terremoto del 1908, si riscoprono soprattutto i soccorsi specifici, di questa o quella città o provincia, o organizzazione del resto d’Italia, la Croce Rossa fiorentina, i Lombardi, eccetera. Di cui alcuni hanno voluto conservare il ricordo ribattezzando i toponimi; ponte Toscano, Martirano Lombardo, eccetera. Non c’era ancora la divisione tra Nord e Sud, o perlomeno non la squalifica del Sud. L’intervento era delle persone, non dello Stato.
È un altro Sud, diretto e felice, quello che esce dall’album di ricordi e fotografie di Alan Lomax, l’etnomusicologo texano che negli anni 1950 registrò i canti popolari in Italia. “L’anno più felice della mia vita”(Saggiatore, pp.40, € 29) è un libro che è la felicità dell’essere, dell’autore. Ma anche di un Sud visto da occhi vergini, vissuto e non “scoperto”, dai prefetti e i carabinieri sabaudi, e dalla sociologia di caserma. Che ne sarebbe stato della “questione meridionale” se gli interlocutori fossero stati tanti Lomax, non necessariamente texani come lui?
leuzzi@antiit.eu
Stati Generali - con ghigliottina?
Sembra un vaudeville, ma sono la politica e il business del millennio: incassato l’assegno di Berlusconi, la Fiat torna subito ad attaccarlo. Assegno staccato a malincuore, si sa, ma che ha riempito a fine settimana di nuovo gli autosaloni. Non solo, Berlsuconi si è anche piegato a usare le Lancia e le Alfe per girare per Roma, invece delle Audi che esibiva, ma la durezza dei torinesi non si è scalfita. Lunedì il presidente della Fiat Montezemolo, col sostegno del fidato, in questo caso, “Corriere della sera”, ha chiesto, niente di meno, di riportare Epifani e Veltroni alla guida dell’Italia, con la scusa della crisi che è tutti noi. Lo ha chiesto mentre si consumava il disastro in Sardegna, ma non importa, l’odio della Fiat contro Berlusconi è inestinguibile.
Quella di Montezemolo non è immoralità: il presidente della Fiat è uno simpatico, essendo sempre stato presidente di qualcosa senza mai lavorare un giorno in vita sua. È anche l’erede che la Famiglia ha trovato al defunto Avvocato Agnelli, e questo sarà di grande aiuto agli storici. Montezemolo stesso è “tutti noi”, non è qui per faticare: la sua è commedia dell’arte, in cui ognuno recita invariabilmente il suo ruolo, e la Fiat invariabilmente quello della resistenza a Berlusconi. Anche perché non ci perde: gli assegni di Berlusconi sono obbligatori, mentre Epifani può assicurare, chissà, la santità.
Questo fa capire che il suo potrebbe anche non essere cinismo: di un’entratura in paradiso ci sarà bisogno se siamo, come il lieve presidente della Fiat dice, agli Stati Generali. Che è roba, come si sa, della Rivoluzione francese. La quale evoca lo zácchete della ghigliottina. E uno non sa, ecco il problema, se non conviene augurarsela - anche così Montezemolo è tutti noi.
Quella di Montezemolo non è immoralità: il presidente della Fiat è uno simpatico, essendo sempre stato presidente di qualcosa senza mai lavorare un giorno in vita sua. È anche l’erede che la Famiglia ha trovato al defunto Avvocato Agnelli, e questo sarà di grande aiuto agli storici. Montezemolo stesso è “tutti noi”, non è qui per faticare: la sua è commedia dell’arte, in cui ognuno recita invariabilmente il suo ruolo, e la Fiat invariabilmente quello della resistenza a Berlusconi. Anche perché non ci perde: gli assegni di Berlusconi sono obbligatori, mentre Epifani può assicurare, chissà, la santità.
Questo fa capire che il suo potrebbe anche non essere cinismo: di un’entratura in paradiso ci sarà bisogno se siamo, come il lieve presidente della Fiat dice, agli Stati Generali. Che è roba, come si sa, della Rivoluzione francese. La quale evoca lo zácchete della ghigliottina. E uno non sa, ecco il problema, se non conviene augurarsela - anche così Montezemolo è tutti noi.
lunedì 16 febbraio 2009
L'opinione pubblica in epoca plebiscitaria (3)
(Il testo che segue, sull’irrilevanza dell’opinione pubblica con le nuove tecniche dell’informazione in epoca plebiscitaria, è il § 74 di “Der Arbeiter” di Ernst Jünger, pubblicato nel 1932 e riproposto, su iniziativa di Heidegger, nel 1963(l'ultima edizione italiana è di Guanda, 2004))
Bisogna ancora aggiungere due parole sul fatto che la ricettività intellettuale della categoria passiva che costituisce il vero pubblico dei lettori tende con una grande rapidità verso una forma che esclude senza speranza ogni influenza dell’intelligenza liberale. Tutte le questioni culturali, psicologiche e sociali annoiano incredibilmente questa categoria, che è altrettanto incapace di percepire il raffinamento dei mezzi d’espressione. L’intelligenza di questa categoria, uscita in bella unità da tutti i ceti della vecchia società e che prolifera ogni giorno di più, ha un bell’impadronirsi dei più sottili dettagli tecnici con molta penetrazione e sicurezza, non resta meno indifferente e ogni genere di conversazione che renda la vita preziosa all’individuo. È una modifica dell’intelligenza che corrisponde a un paesaggio differente, in seno al quale l’ideale di cultura borghese non sa ormai che accrescere la sofferenza in proporzioni inaudite. Ci sarebbe quasi da provare talvolta pietà per queste intelligenze che hanno sempre più difficoltà a produrre esperienze uniche, se si pensa che, nel migliore dei casi, una tale performance sarebbe percepita come una specie di assolo di sassofono sentimentale.
Tutti gli elementi di questa situazione emergono ancora più chiaramente nei mezzi d’informazione tipici che bisognerà considerare i mezzi del XXmo secolo, la radio e il cinema. Non c’è niente di più divertente dei tentativi di certi burattini di sottomettere ai criteri di un concetto liberale della cultura dei mezzi così univoci, concreti, e destinati a compiti radicalmente diversi – questi personaggi che si prendono per critici della cultura e non sono che i garzoni parrucchieri della civiltà. Un colpo d’occhio superficiale su questi mezzi basta già a mostrare che non può trattarsi di organi della libertà d’opinione in senso tradizionale. Tutto ciò che è semplice opinione si rivela qui al contrario inessenziale al massimo. Questi mezzi dunque sono così inadatti a giocare un ruolo come strumenti di un partito come lo sono a conferire risonanza all’individuo. L’ambiente in cui l’individuo può agire è distrutto dalla semplice esistenza della voce artificiale e del fermo immagine prodotto attraverso la luce. Qui solo il tipo(1) può agire, perché esso solo è in rapporto con la metafisica di questi mezzi. Se si portano sempre più i giudizi sulla qualità tecnica è che al fondo si tratta di apprezzare in che misura si è già giunti alla padronanza di una lingua di un’altra natura. Il giudizio che decide che un film è “buono” o “cattivo” è fondato su presupposti che non sono né morali, né legati a concezioni del mondo o a mentalità. Che si tratti di una storia d’amore, di un film poliziesco, o di una propaganda bolscevica, si apprezza soltanto il grado di riuscita nella padronanza dei mezzi tecnici. Ora, questa padronanza è una legittimazione rivoluzionaria - una rappresentazione cioè della figura del Lavoratore con l’aiuto di mezzi grazie ai quali questa figura mobilita il mondo.
Si tratta qui degli organi che una volontà di un’altra natura comincia a crearsi. In questo spazio, gli atomi non riposano in quell’anarchia latente che è la condizione della libertà d’opinione e che ha finito per provocare situazioni in cui l’azione di questa opinione si annulla da sé, perché la diffidenza generica prevale sulla ricettività. Ci si è abituati ad accogliere ogni notizia prevedendo già la smentita che seguirà. Siamo giunti a una tale inflazione della libertà d’opinione che l’opinione è svalutata prima ancora che ci sia il tempo di pubblicarla. La disposizione degli atomi ha perduto il carattere univoco che regna in un campo di forza elettromagnetico. Lo spazio presenta una unità chiusa, e si è sviluppato un istinto sempre più selettivo per le cose che si vogliono sapere e per quelle che non si vogliono sapere.
Sarebbe d’altronde sbagliato pensare che si tratta qui unicamente di una rafforzamento della centralizzazione, nel senso, per esempio, in cui la persona assoluta sapeva porsi al centro delle cose. Nello spazio totale non c’è, in questo senso, centro né residenza, che sia la residenza del principe o dell’opinione pubblica, così come ha perduto ogni importanza la differenza tra la città e la campagna. Meglio, ogni punto possiede potenzialmente il significo di un centro. Questo è qualcosa di angosciante, che richiama il lampeggiare muto delle luci d’allarme quando un settore qualsiasi di questo spazio – che sia un’area minacciata, un grande processo, un evento sportivo, una catastrofe naturale o la cabina di un aereo – diventa d’improvviso il centro della percezione e, insieme, dell’azione, e quando si forma attorno ad esso un cerchio denso di occhi e orecchie artificiali. Il fenomeno possiede qualcosa di molto obiettivo, di molto necessario, e i suoi movimenti somigliano a quelli che un ricercatore constata con il suo telescopio o microscopio. Giustamente, lo sgomento s’impadronì del mondo quando si seppe nel 1932 che la radio aveva organizzato in Manciuria un sevizio d’informazione diretto sul campo di battaglia. Quando si guardano le attualità politiche che fanno parte dei compiti d’informazione del cinema, è chiaro che comincia svilupparvisi un altro genere di comprensione, un altro genere di lettura. Il varo di una nave, un dramma in miniera,una corsa automobilistica, una festa di bambini, l’impatto delle granate che partono e cadono su qualche punto della terra devastandolo, l’alternanza di voci entusiaste, gioiose, eccitate, disperate, tutto questo è captato e restituito da un mezzo di precisione impalcabile, e presenta un condensato che dà a vedere l’insieme dei rapporti umani sotto una luce diversa.
Va da sé che l’opinione pubblica deve apparire qui come una realtà intieramente diversa. L’opinione pubblica rende giustamente tabù i campi decisivi, in modo che la libera opinione non possa prenderli nel suo campo visivo. Le modiche che si producono nel paesaggio inducono in errore, fanno dimenticare che non disponiamo per osservare che di una sola finestra, di un unico dettaglio.
Bisogna inoltre dire che da una parte l’individuo tenta ancora oggi di servirsi dei media in un senso inadatto alla loro natura, e che d’altra parte la loro perfezione crescente svela sempre più chiaramente questa natura. Non si tratta qui di mezzi distrazione – e anche quando ne hanno l’apparenza, bisogna considerare che le distrazioni, l’organizzazione di grandi giochi, si presentano sempre più nettamente come un compito di ordine pubblico, e dunque come una funzione del catetere totale del lavoro.
Il senso decisivo del fenomeno deve apparire come una trasformazione degli strumenti sociali in strumenti pubblici, che gli agenti utilizzano in quanto organi pubblici. In uno spazio molto chiuso, molto prevedibile, in cui la simultaneità, l’univocità e l’obiettività dell’esperienza vissuta si accrescono, l’opinione pubblica appare una grandezza modificata; allo stesso modo la categoria umana decisionale ha perduto ogni rapporto con la libera opinione per il fatto di segnalarsi su presupposti razziali. S’intuisce già oggi che si compie qui un tipo di conio che la libera opinione non è mai stata capace d’instaurare, un conio che comanda fino all’espressione del viso e al suono della voce.
(1)Sul tipo v. nota alla puntata precedente.
(Fine. Le precedenti puntate sono uscite il 28 e il31 gennaio)
Bisogna ancora aggiungere due parole sul fatto che la ricettività intellettuale della categoria passiva che costituisce il vero pubblico dei lettori tende con una grande rapidità verso una forma che esclude senza speranza ogni influenza dell’intelligenza liberale. Tutte le questioni culturali, psicologiche e sociali annoiano incredibilmente questa categoria, che è altrettanto incapace di percepire il raffinamento dei mezzi d’espressione. L’intelligenza di questa categoria, uscita in bella unità da tutti i ceti della vecchia società e che prolifera ogni giorno di più, ha un bell’impadronirsi dei più sottili dettagli tecnici con molta penetrazione e sicurezza, non resta meno indifferente e ogni genere di conversazione che renda la vita preziosa all’individuo. È una modifica dell’intelligenza che corrisponde a un paesaggio differente, in seno al quale l’ideale di cultura borghese non sa ormai che accrescere la sofferenza in proporzioni inaudite. Ci sarebbe quasi da provare talvolta pietà per queste intelligenze che hanno sempre più difficoltà a produrre esperienze uniche, se si pensa che, nel migliore dei casi, una tale performance sarebbe percepita come una specie di assolo di sassofono sentimentale.
Tutti gli elementi di questa situazione emergono ancora più chiaramente nei mezzi d’informazione tipici che bisognerà considerare i mezzi del XXmo secolo, la radio e il cinema. Non c’è niente di più divertente dei tentativi di certi burattini di sottomettere ai criteri di un concetto liberale della cultura dei mezzi così univoci, concreti, e destinati a compiti radicalmente diversi – questi personaggi che si prendono per critici della cultura e non sono che i garzoni parrucchieri della civiltà. Un colpo d’occhio superficiale su questi mezzi basta già a mostrare che non può trattarsi di organi della libertà d’opinione in senso tradizionale. Tutto ciò che è semplice opinione si rivela qui al contrario inessenziale al massimo. Questi mezzi dunque sono così inadatti a giocare un ruolo come strumenti di un partito come lo sono a conferire risonanza all’individuo. L’ambiente in cui l’individuo può agire è distrutto dalla semplice esistenza della voce artificiale e del fermo immagine prodotto attraverso la luce. Qui solo il tipo(1) può agire, perché esso solo è in rapporto con la metafisica di questi mezzi. Se si portano sempre più i giudizi sulla qualità tecnica è che al fondo si tratta di apprezzare in che misura si è già giunti alla padronanza di una lingua di un’altra natura. Il giudizio che decide che un film è “buono” o “cattivo” è fondato su presupposti che non sono né morali, né legati a concezioni del mondo o a mentalità. Che si tratti di una storia d’amore, di un film poliziesco, o di una propaganda bolscevica, si apprezza soltanto il grado di riuscita nella padronanza dei mezzi tecnici. Ora, questa padronanza è una legittimazione rivoluzionaria - una rappresentazione cioè della figura del Lavoratore con l’aiuto di mezzi grazie ai quali questa figura mobilita il mondo.
Si tratta qui degli organi che una volontà di un’altra natura comincia a crearsi. In questo spazio, gli atomi non riposano in quell’anarchia latente che è la condizione della libertà d’opinione e che ha finito per provocare situazioni in cui l’azione di questa opinione si annulla da sé, perché la diffidenza generica prevale sulla ricettività. Ci si è abituati ad accogliere ogni notizia prevedendo già la smentita che seguirà. Siamo giunti a una tale inflazione della libertà d’opinione che l’opinione è svalutata prima ancora che ci sia il tempo di pubblicarla. La disposizione degli atomi ha perduto il carattere univoco che regna in un campo di forza elettromagnetico. Lo spazio presenta una unità chiusa, e si è sviluppato un istinto sempre più selettivo per le cose che si vogliono sapere e per quelle che non si vogliono sapere.
Sarebbe d’altronde sbagliato pensare che si tratta qui unicamente di una rafforzamento della centralizzazione, nel senso, per esempio, in cui la persona assoluta sapeva porsi al centro delle cose. Nello spazio totale non c’è, in questo senso, centro né residenza, che sia la residenza del principe o dell’opinione pubblica, così come ha perduto ogni importanza la differenza tra la città e la campagna. Meglio, ogni punto possiede potenzialmente il significo di un centro. Questo è qualcosa di angosciante, che richiama il lampeggiare muto delle luci d’allarme quando un settore qualsiasi di questo spazio – che sia un’area minacciata, un grande processo, un evento sportivo, una catastrofe naturale o la cabina di un aereo – diventa d’improvviso il centro della percezione e, insieme, dell’azione, e quando si forma attorno ad esso un cerchio denso di occhi e orecchie artificiali. Il fenomeno possiede qualcosa di molto obiettivo, di molto necessario, e i suoi movimenti somigliano a quelli che un ricercatore constata con il suo telescopio o microscopio. Giustamente, lo sgomento s’impadronì del mondo quando si seppe nel 1932 che la radio aveva organizzato in Manciuria un sevizio d’informazione diretto sul campo di battaglia. Quando si guardano le attualità politiche che fanno parte dei compiti d’informazione del cinema, è chiaro che comincia svilupparvisi un altro genere di comprensione, un altro genere di lettura. Il varo di una nave, un dramma in miniera,una corsa automobilistica, una festa di bambini, l’impatto delle granate che partono e cadono su qualche punto della terra devastandolo, l’alternanza di voci entusiaste, gioiose, eccitate, disperate, tutto questo è captato e restituito da un mezzo di precisione impalcabile, e presenta un condensato che dà a vedere l’insieme dei rapporti umani sotto una luce diversa.
Va da sé che l’opinione pubblica deve apparire qui come una realtà intieramente diversa. L’opinione pubblica rende giustamente tabù i campi decisivi, in modo che la libera opinione non possa prenderli nel suo campo visivo. Le modiche che si producono nel paesaggio inducono in errore, fanno dimenticare che non disponiamo per osservare che di una sola finestra, di un unico dettaglio.
Bisogna inoltre dire che da una parte l’individuo tenta ancora oggi di servirsi dei media in un senso inadatto alla loro natura, e che d’altra parte la loro perfezione crescente svela sempre più chiaramente questa natura. Non si tratta qui di mezzi distrazione – e anche quando ne hanno l’apparenza, bisogna considerare che le distrazioni, l’organizzazione di grandi giochi, si presentano sempre più nettamente come un compito di ordine pubblico, e dunque come una funzione del catetere totale del lavoro.
Il senso decisivo del fenomeno deve apparire come una trasformazione degli strumenti sociali in strumenti pubblici, che gli agenti utilizzano in quanto organi pubblici. In uno spazio molto chiuso, molto prevedibile, in cui la simultaneità, l’univocità e l’obiettività dell’esperienza vissuta si accrescono, l’opinione pubblica appare una grandezza modificata; allo stesso modo la categoria umana decisionale ha perduto ogni rapporto con la libera opinione per il fatto di segnalarsi su presupposti razziali. S’intuisce già oggi che si compie qui un tipo di conio che la libera opinione non è mai stata capace d’instaurare, un conio che comanda fino all’espressione del viso e al suono della voce.
(1)Sul tipo v. nota alla puntata precedente.
(Fine. Le precedenti puntate sono uscite il 28 e il31 gennaio)
Il Risorgimento da dieci lire
Estremamente nuovo, oltre che al solito brillante, quest’ultimo libro di Alvaro (edito postumo da Bompiani nel 1958, a cura di Frateili), l’unico che non si ripubblica, e non molte biblioteche hanno.
Senza saperlo Alvaro s’interroga sull’unità, da cui origina il “Sud”: “Tutti i paesi hanno un Sud”, comincia il libro sorprendente, su cui scaricano i problemi sociali. E sradica, senza volerlo, il Risorgimento sabaudo, con la storia delle “dieci lire”: alle stazioni nel 1940 Alvaro trova madri che salutano i figli con “addio” e “via la guerra”, questo in Calabria, che abita “il popolo forse più patriarcale d’Italia, i cui legami familiari sono tenerissimi”. Assurdo? Per il militare in guerra il governo pagava un soldo di dieci lire al giorno, in aggiunta alla sua alimentazione, che veniva garantito anche, sotto forma di pensione, in caso di morte.
Corrado Alvaro, Un treno nel Sud
Senza saperlo Alvaro s’interroga sull’unità, da cui origina il “Sud”: “Tutti i paesi hanno un Sud”, comincia il libro sorprendente, su cui scaricano i problemi sociali. E sradica, senza volerlo, il Risorgimento sabaudo, con la storia delle “dieci lire”: alle stazioni nel 1940 Alvaro trova madri che salutano i figli con “addio” e “via la guerra”, questo in Calabria, che abita “il popolo forse più patriarcale d’Italia, i cui legami familiari sono tenerissimi”. Assurdo? Per il militare in guerra il governo pagava un soldo di dieci lire al giorno, in aggiunta alla sua alimentazione, che veniva garantito anche, sotto forma di pensione, in caso di morte.
Corrado Alvaro, Un treno nel Sud
Ombre - 14
“La velocità di peggioramento della crisi economica mondiale va diminuendo”, ha detto Draghi al G7 a Roma. Chissà come lo avrà detto in inglese – Draghi rispondeva in inglese ai giornalisti stranieri?
Il questore di Napoli spiega compito al telegiornale, in perfetto napoletano, che gli immigrati violenti non si possono tenere dentro perché danno generalità false. Ma dare generalità false non è un (altro) reato?
Questa Napoli fa sognare, non s'immaginerebbero mai questi livelli di logica burocratica, è irresistibile, Totò e Eduardo insieme. Ma dovrebbe, ogni tanto, avere pietà del resto del paese, troppo spasso, troppe minacce alla coronarie, si incrementa il deficit della sanità, eccetera.
Per bocca del portavoce del commissario Ue alla Giustizia la cacciata alla frontiera britannica del deputato olandese Wilders non è in contrasto con le regole sulla libera circolazione dei cittadini. Secondo lo stesso portavoce spetta a ciascun Stato membro decidere se esistano o meno ragioni di sicurezza per negare un ingresso a cittadini europei sul proprio territorio, «sulla base di tre ragioni: ordine pubblico, pubblica sicurezza e salute pubblica». Lo stesso Barrot con lo stesso portavoce hanno tuonato a ottobre, novembre e dicembre con i tentativi italiani di arrestare la fiumana di delinquenti che da Est si è trasferita in Italia. Negando con asprezza che ci sia un delitto di clandestinità, se qualcuno dà generalità false, o non ottempera a una sentenza di espulsione.
Wilders è un deputato xenofobo e quindi la sua espulsione da Londra può anche fare piacere. Ma chi è Barrot? Un qualche politicante trombato che ha avuto il posto a Bruxelles. Barrot è in realtà il suo portavoce, Michele Cercone, che brama di fare carriera politica nel Pd, il partito di Veltroni. Sparando cazzate. Per i giornali italiani, di bocca così buona.
Lo stupro particolarmente feroce, ripetuto, di un branco su una ragazzina di quattordici anni è punito a Brescia con una ramanzina. Nemmeno l’obbligo di consultare uno psichiatra, uno psicologo. Con la possibilità per gli stupratori di tornare subito a scuola, la stessa della ragazza. A opera di due giudici, a termini di ordinamento il Procuratore della Repubblica è egli stesso un giudice. Facendo giustizia anche delle aggravanti, la minore età della vittima, lo sballo degli stupratori, la associazione a delinquere.
C’è costanza nella ferocia dei giudici italiani, nel loro beffardo e impunito sadismo. Proteggendosi con gli “obblighi di legge”: le procedure, le tipologie di reato, l’età dei trasgressori. Cioè si divertono, per idiozia o malvagità, e pretendono pure di nascondere l’insensatezza. Non sarà diverso il ghigno del diavolo. Per un disegno eversivo che è ormai il loro dna. Senza progetto - chi potrebbe mai progettare alcunché con tale materiale umano? - ma radicato con la imperseguibilità nella onnipotenza. La questione morale è la stessa questione morale.
Un furto da trenta euro, sempre a Brescia, è punito da altro giudice con sei anni di carcere.
D’incanto la corruzione è tutta a sinistra. Nella sanità, l’immobiliare, le opere pubbliche, gli appalti, e anche nelle intercettazioni, a Roma, Napoli, Firenze, Pescara, Ancona, Casal di Principe, Castellammare di Stabia. Poiché è statisticamente impossibile che non ci sia più corruzione a destra, cos’è successo? È successo che questo governo di destra dura cinque anni, e riformerò gli assetti (le carriere) dei magistrati. La vera questione morale è la questione morale.
Dal 2000 sono stati 350 miliardi di dollari gli introiti legali, per consulenze e premi, degli speculatori a Wall Street. La metà di quanto costa ora il salvataggio dell’economia Usa. Quelli non legali - d’affari, di mercato, d’abilità – saranno dieci volte tanto?
È la crisi della corruzione, senza dubbio, della frode. Ma i ladri si difendono con i principi, e nessuno li condanna. Proprio nessuno, a parte i sermoni, compreso il potentissimo, carismatico, democratico, presidente americano Obama.
“ Le sentenze non si commentano, si impugnano”. Nell’ingiunzione del presidente della Corte d’Appello di Milano all’inaugurazione del suo anno giudiziario c’è tutto il fascismo della magistratura italiana, l’unico ordine istituzionale non defascistizzato, con gli ermellini, le eccellenze, gli attendenti. Il dottor Grechi sarà sicuramente un democratico, magari del Pd, oppure di Rifondazione, e avrà pure “fatto la Resistenza” (il genere è però in via di sparizione anagrafica), ma la sostanza è quella: non rompete i coglioni. Le sentenze infatti s’impugnano davanti a un altro magistrato, uguale e non contrario.
La corte d’Appello del dottor Grechi tra l’altro ha decretato la morte per Eluana Englaro, ma senza dire né come, né quando, né il boia, cose tutte necessarie poiché lo Stato italiano non ha più la pena di morte né gli apparati a essa connessi. È una sentenza anche tecnicamente fatta male. Anche perché non è una vera sentenza, ma una sorta di arbitrato, un parere su richiesta di parte. Ma guai a dirlo, i magistrati s’incazzano, e magari, con alcune migliaia d’intercettazioni…
“Io non sapevo chi veniva coinvolto. Erano scelte di Genchi”, si difende De Magistris al Copasir, il comitato parlamentare per i sevizi segreti. Il magistrato dice che le sue inchieste le faceva l’ex poliziotto Genchi. Da tempo girano dossier di inquirenti, in cerca di magistrati che li facciano propri, ora ce n’è la conferma ufficiale, in atti. Ma nessuno è condannato, nemmeno rimproverato. Il Copasir è anzi contento che De Magistris, il magistrato “figlio di magistrato, nipote di magistrato”, se ne tiri fuori.
Forse ha ragione De Magistris quando accusa, negandolo, Rutelli, il presidente del Copasir.
Il questore di Napoli spiega compito al telegiornale, in perfetto napoletano, che gli immigrati violenti non si possono tenere dentro perché danno generalità false. Ma dare generalità false non è un (altro) reato?
Questa Napoli fa sognare, non s'immaginerebbero mai questi livelli di logica burocratica, è irresistibile, Totò e Eduardo insieme. Ma dovrebbe, ogni tanto, avere pietà del resto del paese, troppo spasso, troppe minacce alla coronarie, si incrementa il deficit della sanità, eccetera.
Per bocca del portavoce del commissario Ue alla Giustizia la cacciata alla frontiera britannica del deputato olandese Wilders non è in contrasto con le regole sulla libera circolazione dei cittadini. Secondo lo stesso portavoce spetta a ciascun Stato membro decidere se esistano o meno ragioni di sicurezza per negare un ingresso a cittadini europei sul proprio territorio, «sulla base di tre ragioni: ordine pubblico, pubblica sicurezza e salute pubblica». Lo stesso Barrot con lo stesso portavoce hanno tuonato a ottobre, novembre e dicembre con i tentativi italiani di arrestare la fiumana di delinquenti che da Est si è trasferita in Italia. Negando con asprezza che ci sia un delitto di clandestinità, se qualcuno dà generalità false, o non ottempera a una sentenza di espulsione.
Wilders è un deputato xenofobo e quindi la sua espulsione da Londra può anche fare piacere. Ma chi è Barrot? Un qualche politicante trombato che ha avuto il posto a Bruxelles. Barrot è in realtà il suo portavoce, Michele Cercone, che brama di fare carriera politica nel Pd, il partito di Veltroni. Sparando cazzate. Per i giornali italiani, di bocca così buona.
Lo stupro particolarmente feroce, ripetuto, di un branco su una ragazzina di quattordici anni è punito a Brescia con una ramanzina. Nemmeno l’obbligo di consultare uno psichiatra, uno psicologo. Con la possibilità per gli stupratori di tornare subito a scuola, la stessa della ragazza. A opera di due giudici, a termini di ordinamento il Procuratore della Repubblica è egli stesso un giudice. Facendo giustizia anche delle aggravanti, la minore età della vittima, lo sballo degli stupratori, la associazione a delinquere.
C’è costanza nella ferocia dei giudici italiani, nel loro beffardo e impunito sadismo. Proteggendosi con gli “obblighi di legge”: le procedure, le tipologie di reato, l’età dei trasgressori. Cioè si divertono, per idiozia o malvagità, e pretendono pure di nascondere l’insensatezza. Non sarà diverso il ghigno del diavolo. Per un disegno eversivo che è ormai il loro dna. Senza progetto - chi potrebbe mai progettare alcunché con tale materiale umano? - ma radicato con la imperseguibilità nella onnipotenza. La questione morale è la stessa questione morale.
Un furto da trenta euro, sempre a Brescia, è punito da altro giudice con sei anni di carcere.
D’incanto la corruzione è tutta a sinistra. Nella sanità, l’immobiliare, le opere pubbliche, gli appalti, e anche nelle intercettazioni, a Roma, Napoli, Firenze, Pescara, Ancona, Casal di Principe, Castellammare di Stabia. Poiché è statisticamente impossibile che non ci sia più corruzione a destra, cos’è successo? È successo che questo governo di destra dura cinque anni, e riformerò gli assetti (le carriere) dei magistrati. La vera questione morale è la questione morale.
Dal 2000 sono stati 350 miliardi di dollari gli introiti legali, per consulenze e premi, degli speculatori a Wall Street. La metà di quanto costa ora il salvataggio dell’economia Usa. Quelli non legali - d’affari, di mercato, d’abilità – saranno dieci volte tanto?
È la crisi della corruzione, senza dubbio, della frode. Ma i ladri si difendono con i principi, e nessuno li condanna. Proprio nessuno, a parte i sermoni, compreso il potentissimo, carismatico, democratico, presidente americano Obama.
“ Le sentenze non si commentano, si impugnano”. Nell’ingiunzione del presidente della Corte d’Appello di Milano all’inaugurazione del suo anno giudiziario c’è tutto il fascismo della magistratura italiana, l’unico ordine istituzionale non defascistizzato, con gli ermellini, le eccellenze, gli attendenti. Il dottor Grechi sarà sicuramente un democratico, magari del Pd, oppure di Rifondazione, e avrà pure “fatto la Resistenza” (il genere è però in via di sparizione anagrafica), ma la sostanza è quella: non rompete i coglioni. Le sentenze infatti s’impugnano davanti a un altro magistrato, uguale e non contrario.
La corte d’Appello del dottor Grechi tra l’altro ha decretato la morte per Eluana Englaro, ma senza dire né come, né quando, né il boia, cose tutte necessarie poiché lo Stato italiano non ha più la pena di morte né gli apparati a essa connessi. È una sentenza anche tecnicamente fatta male. Anche perché non è una vera sentenza, ma una sorta di arbitrato, un parere su richiesta di parte. Ma guai a dirlo, i magistrati s’incazzano, e magari, con alcune migliaia d’intercettazioni…
“Io non sapevo chi veniva coinvolto. Erano scelte di Genchi”, si difende De Magistris al Copasir, il comitato parlamentare per i sevizi segreti. Il magistrato dice che le sue inchieste le faceva l’ex poliziotto Genchi. Da tempo girano dossier di inquirenti, in cerca di magistrati che li facciano propri, ora ce n’è la conferma ufficiale, in atti. Ma nessuno è condannato, nemmeno rimproverato. Il Copasir è anzi contento che De Magistris, il magistrato “figlio di magistrato, nipote di magistrato”, se ne tiri fuori.
Forse ha ragione De Magistris quando accusa, negandolo, Rutelli, il presidente del Copasir.