letterautore
Joyce – Che pensava, che diceva? Strana afasia per un personaggio che ha vissuto in molti luoghi e frequentato molte persone, molte di eccellente qualità, e di suo impositivo, perfino tirannico. Su fondo di misantropia? Le cattiverie di Finnegan’s Wake possono essere miserabili. Bruciato dall’ironia? Sì, dal suo essere irlandese, una sottocultura al suo tempo – si vede dall’ordinata pacatezza degli articoli triestini sulla causa nazionale irlandese. È amato dai lettori intellettuali. Anche non lettori: perché possono riempirlo a piacimento?
Novecento – Avrà prodotto personaggi stinti, dai duchi di Proust a Bloom e consorte, agli innumerevoli borghesi manniani, senza volto, né bello né brutto. Compresi naturalmente i personaggi per questo costruiti, da Pirandello, Céline, Gadda, Calvino, per filosofia di vita. Ma non è stato un secolo filosofico: è sulla difensiva (la filosofia della crisi fatica a emergere come filosofia, essendo un derivato della disperazione, o dell’isolamento – da laissés pour compte), e cerca vie d’uscita (assoluzioni, consolazioni, speranze, indulgenze). Perché è stato governato dalla forza, malgrado i tanti ineluttabili fallimenti: tedeschismo, nazismo, comunismo, imperialismo, per finire – ricominciare – con la pulizia etnica, e c’è al varco la povertà di ritorno. Avrebbe dovuto essere il secolo della pace e delle miti pretese (la civiltà dei consumi può prosperare solo se le pretese si danno dei limiti), le premesse c’erano, e il trionfo dell’Europa. Ne ha sancito la fine?
Padre - È in imprevedibile, sostanzioso, ritorno. In “Italiana”, l’Antologia dei giovani narratori di Tondelli (Allamprese, Bacci, Cappelli, Capriolo, Mani…), nel “Requiem” di Patrizia Valduga, in Ginsberg (“poeta del proprio padre”), in Alda Merini spesso, in Tabucchi, nel “Piccolo Budda” di B.Bartolucci e tanti film americani, nella “Storia infinita” di Michael Ende.
Pasolini – È un uomo ordinato. Paradossalmente, con tutte le sue voglie di provocazione e le bestemmie degli ultimi tempi, la sfida alla disperazione. È un intellettuale. Molto colto (tradizione, classicità, linguistica, figurazione), attento, misurato. È poeta solo per una vena di bontà – soffocata dai tempi. I suoi testi (poetici, narrativi) come i film sono soprattutto dei saggi, dotte letture, dell’attualità come dei tempi remoti. Si veda la differenza fra il romanesco suo, di uno che lo “viveva”, anche se non lo parlava, e quello di Gadda, che semplicemente lo studiava: tanto posticcio il primo, artificioso, quanto fantasioso e creativo il secondo.
È uno dei problemi di Pasolini: di un uomo portato alla vita ordinaria, ben costruita, impegnata, professorale e\o manageriale, anche nella sua adesione costante al partito Comunista, che si cuce addosso, e ne viene cucito, il personaggio di maledetto. Senza rapporto con la condizione esistenziale - l’omosessualità si viveva tranquillamente, a Roma e anche in campagna. Per una scelta, anche questa d’ordine borghese, in linea con la società spettacolo: emergere attraverso lo scandalo. Significativa la distorsione da lui spesso ripetuta dell’evangelico “oportet ut scandala eveniant”, che invece, se completato, suona così: “È inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per colpa del quale avvengono” – la versione è identica in Matteo, 18,16, e in Luca, 17,1.
Poeta lucido - più che nei saggi, pure chiarissimi, didascalici, in quello che dice, e per come lo dice. Ma uomo confuso, nella vita e nei romanzi. Il problema è, come lui sostiene ossessivamente, l’omosessualità non accettata? O non l’insincerità politica? Nella tragedia del fratello Guido, nell’espulsione per immoralità dal Partito, nella condanna di Praga, nell’irrisione dei giovani contestatori.
L’omofilia in realtà sarebbe stata accettatissima – Pasolini è un costante, incontenibile, cacciatore. Potrebbe essersi tradotta in nevrosi da accumulazione, la moltiplicazione dei corpi del collezionista avido? Sade non è un’eccezione.
Ma è pure vero, a giudicare dalle abitudini del signor Proust, che del sesso voleva immagine repellente e, pure così sollecito e perfettino, faceva “sputare” ai suoi maschioni sulle foto delle amiche duchesse e della madre, che l’inversione non è nell’omofilia, ma nel rigetto della sessualità, dopotutto - la semiologia del resto scopre nei segni la manifestazione della mancanza del referente. Si cancella l’erotismo con l’appagamento sessuale, mentre la coazione a ripetere diventa odiosa in sé e rende odioso l’oggetto del desiderio – che è Sade in senso proprio.
Vive – è vissuto, sta nella storia – nella colpa.
Furio Jesi parla per Pavese di “devozione alla morte”, come depositaria del mito, padrona, elargitrice. Dopo “Petrolio” questa devozione è conclamata anche in Pasolini, letteratissimo mitologo. La sua vera colpa dev’essere questa, poiché lo spiega tutto: dalla voglia di scandalo (isolarsi costante) all’apoditticità (sacertà), al tratto fanatico, al culto della tradizione. La sua poesia (la sua unica) è quella dei luoghi, delle scansioni naturali (colori, forme), delle pulsioni incontrollate. Sebbene con una rilevante dose d’artificio, perfino di teatralità.
L’artificio è però prevalente: la “devozione alla morte” è in Pasolini derivata, una passione acquisita, immune da pulsioni suicide, e in contrasto con la felicità dell’adolescenza e della giovinezza. Mette radici negli anni in cui suo fratello è assassinato dai comunisti, e i comunisti lo mettono al bando per l’omosessualità. Può esserne la conseguenza? Un senso di colpa per la mancanza di coraggio, se non per l’opportunismo. Da qui il forte senso di falso della sua genialità. E anche delle sue mitologie: dei della campagna, angeli della periferia, olimpi coniugali, la stessa Passione evangelica.
Se era ingenuo, ha fatto di tutto per mostrarsi opportunista. Non c’è occasione della sua vita di celebrità in cui non si esibisce, anche con crudeltà: i fidanzamenti con la Betti e la Callas, le contestazioni, l’inaffettività, madre esclusa – esclusa?
Era come uno dei suoi personaggi: “Me ne sono fatti trenta questa settimana, anzi questo week-end”.
Platone – Potrebbe essere un grandioso, dissimulato, naturalmente, barzellettiere – la parlata ionica vi si presta, essendo tutta understatement: il filosofo del dire non dicendo, della bontà del tacere, o della stupidità di dire quello che veramente si pensa, della storia che fa male alla memoria… Tutti concetti eversivi, alla maniera appunto dell’umorista – sospesa, problematica – e non assertiva, del furioso e costruttivo nichilista, il rivoluzionario.
Proust – Ha fatto la théologie de la noblesse, dice Cristina Campo. Senza ironia?.
Senza anima, e senza corpo. Senza nemmeno gioco o altro diletto, e senza informazione o giudizio critico. Nulla che innamori di nessuno dei suoi personaggi di Proust, né femmine né maschi – lui, li amava?
Si ammira per la conversazione dei suoi innumerevoli ospiti, idolatrata a petite musique. Che è, sì, costruita: è un’aria di bravura, su note banali e anche volgari - avrà fatto la letteratura dello small talk, la conversazione per non dire nulla, se ce ne sarà una.
I romanzi della "Ricerca" sono storie fin-de-siècle come se ne scrivevano ordinariamente a Parigi, di mantenute e apaches, anche maschi, la gelosia inclusa – di un mondo inaffettivo0 che la escludeva naturalmente.
Molto è in Swinburne: sensiblerie, sado-maso, desiderio inesausto, incesto, irresolutezza dei caratteri, che si lasciano fare. In “Lesbia Brandon” c’è anche uno Charlus (Linley), la politica-come-il-cavolo-a-merenda (l’unità italiana e Mazzini invece dell’affare Dreyfus), e un ricevimento lungo cinquanta pagine invece di duecento.
Ha lasciato i suoi personaggi al negativo, comprese le nonne e le zie. Al negativo fotografico: senza dare loro contorni precisi (vizi, virtù), senza luce, senza colori.
Effetto dell’ironia?
La sua ironia è boulevardière, da pigiata del potin mondano.
Quasimodo – Si spiega con la Sicilia, ha ragione Aragon. L’elegia di una nostalgia, di una mancanza, ma senza il ritorno – non si ritorna all’isola? Forse, il ricordo consola.
È un siciliano però diverso: per il senso forte della natura che lo culla: erba, acqua, fiumi, tramonti, pietre, vento, neve, nebbie, alberi.
Razzismo - È nordico. I mediterranei basavano la loro superiorità sulla cultura.
Non è solo del Nord dell’Europa, ma anche della Cina e dell’India.
È un fatto: la politica zoologica è dei popoli freddi. Ma senza una ragione apparente.
Se ne può azzardare una: il razzismo oppone la fisicità alla cultura. Dunque la cultura viene dal Sud?
Romanzo - È il gnere letterario (la rivoluzione) del Terzo stato, dice Debenedetti, “Saggi critici”, Svevo. Grigio cioè, com’è grigia la vita del borghese.
Ma perchè la vita del borghese è grigia? Non sarà una proiezione degli intellettuali, che sono borghesi, un’autoflagellazione? E il romanzo del popolo allora, che in realtà lo coltiva? E quello dei letterati? O degli stessi dottori del profondo, poeti, filosofi?
Il romanzo è semmai l’unica forma di arte popolare di una certa dignità. E il cinema il romanzo in immagini, lo sarebbe ancora di più se non costasse tanto farlo: è incredibile la capacità di affabulazione delle immagini, che portano i milioni di spettatori a consumare senza alcuna difficoltà gli artifici retorici apparentemente più disumani.
Scalfari – Nessun problema è il suo problema.
Il suo moralismo in politica è altro: una scelta tattica. Un posizionamento: dal picco si tira meglio su chi sta in pianura. Non per altro, per un irrefrenabile sarcasmo, verso tutto ciò che è in vista, pubblico, apparentemente potente – molto etnico, calabrese.
È scisso: non manca di sensibilità ma la reprime. E non per tatticismo, per istinto incomprimibile. Usa solo l’intelligenza, a fini eversivi..
Stendhal - È Dumas, con qualche coloritura romantica. Tenue, per fortuna.
Traduzione – Si vuole impossibile, da Dante a Croce. Ma ogni opera d’arte lo è: è lettura, visione, interpretazione. La musica, il teatro, la declamazione, e anche le lettura muta, la visione di quadri, statie, palazzi, giardini, ambienti, l’ascolto di un’esecuzione è perfino traduzione doppia.
letteautore@antiit.eu
venerdì 10 aprile 2009
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (33)
Giuseppe Leuzzi
Non c’è avvenire senza storia. Non sono dunque felici i popoli senza storia. E d‘altra parte, la distruzione è della storia - ma allora bisogna avere avuto qualcosa che vada distrutto. “La prima radice”, forse il saggio più ricco di verità di Simone Weil, anche se il meno letto, è un inno alla tradizione: “Di tutti i bisogni dell’anima umana, non ce n’è uno più vitale del passato”:. Non c‘è avvenire senza storia: “L’avvenire non ci apporta niente, non ci dà niente; siamo noi che per costruirlo dobbiamo tutto dargli, dargli la nostra vita stessa. Ma per dare bisogna possedere, e noi non possediamo altra vita, altra linfa, che i tesori ereditati dal passato e digeriti, assimilati, ricreati da noi”. Se non che “il passato distrutto non ritorna mai più. la distruzione del passato è forse il crimine più grande”, Sì, il Sud è mafioso, è corrotto, si malgoverna, ma di tutto questo non ha l’esclusiva. Di suo non ha storia,
Ancora Simone Weil, ancora “La prima radice”: “L’eccesso di stabilità produce nelle campagne un effetto di sradicamento”. Bisognerebbe organizzare per le campagne una sorta di Tour de France. Con tappe di lungo periodo, non in città ma in altre campagne – l’acculturazione attraverso il servizio militare è per questo dannoso, contribuisce allo sradicamento: il giovane contadino esce umiliato dal confronto con l’urbanizzato, il settentrionale, l’alfabetizzato.
Alvaro o l’odio di sé meridionale
Il Sud è il 2 per cento, in termini di spazio o di attenzione, nella “produzione” di Alvaro, romanzi, racconti, viaggi, corrispondenza, saggi, il 3. Non si ricorda del resto una sua presenza al Sud, se non, raramente, a casa a San Luca, per visitare, poche ore, la madre. “Il narratore ha visto la Calabria quasi solo da bambino” (Pedullà, “Per esempio il Novecento“, p.426). E tuttavia sono innumerevoli i suoi rimandi al mondo originario, nei racconti, nei romanzi, nei diari, tra la Montagna e il mare Jonio. Della Calabria scrisse anche un sussidiario, non cupo, riportato alla luce da Antonio Delfino. Ma la sua Montagna resta quella di “Gente in Aspromonte”, che appare perfetta e invece è falsa – manca il silenzio, la religiosità, la tradizione, la resistenza, non disperata. È un ottimo esempio di letteratura che crea il fatto, ma traditrice: la povertà è anche indigenza, si sa che c’è la festa ma non si sente, tutto è sempre cupo, “è un fatto che qui manca la nozione geometrica della ruota”, e non c’è compassione, solo gioia maligna, per le disgrazie del protagonista Argirò, e la natura si confà, aspra e cattiva. L’Aspromonte giace sotto “Gente in Aspromonte”.
Alvaro muore nel 1956. È celebre, importante e agiato, con casa a Roma in piazza di Spagna e
buen retiro in campagna a Vallerano, dove vuole essere sepolto. Il padre, che lo ha voluto ragazzo educato nel collegio esclusivo dei gesuiti a Mondragone, e lo ha mantenuto a lungo in giro per i suoi difficili studi e la sua carriera in Italia, muore a gennaio del 1941. Una morte che (“Memoria e vita“) impone “tregua alle invidie del paese”, tra gente “fuori dal mondo”, in una casa rattoppata, col prete ubriaco: “La notte dormimmo tutti con la madre e le sorelle nella stanza dove figli siamo nati. I vetri erano rotti, i muri lesionati ancora dal terremoto (del 1908? N.d.r.), le finestre cadenti. Entrava il freddo nevoso dell’Aspromonte ed io lo riconoscevo nel sonno come un paesaggio mio”. Una presenza riconosciuta e rifiutata.
Soldati, “Fuga in Italia“, pp. 81-3: non il latifondo al Sud ma piccoli proprietari, ricchi e avari, che vivono nel lerciume, risparmiando sul cibo.
Un mondo verghiano, non vittima del latifondo. Vittima lo è, ma dei compagni. Dell’ignavia, i compagni sono i gentiluomini di Salvemini, dell’ignoranza, degli spropositi in materia di feudalesimo. Quando si vede a occhio che non hanno nemmeno il vincolo della mezzadria, solo quello dell’avidità. Tutti piccoli proprietari, ma tutti lerci nelle abitazioni e in famiglia, non si curano e nemmeno si cibano bene, per l’avarizia, per accumulare. Non sanno nemmeno loro che cosa. Un mondo, anche, pirandelliano, della roba sordida, era tutto scritto. Compreso il vero socialismo, la vera anti-borghesia.
Il problema del Sud è, oggi come ieri, l’incapacità, la debolezza, l’ignavia della borghesia, degli imprenditori come dei proprietari., he quando sono qualcosa so0no asserviti. Al Nord, allo Stato, al malaffare, e al popolo, all’avidità. Come se ne esce? Facendo borghesia il popolo, dell’avidità una virtù (thrift, risparmio, rigidità morale), senza rinunciare naturalmente alla borghesia, che è accumulazione: una risorsa: di capitali, conoscenze e anche senso etico. Non si crea niente senza accumulare. Combattendo il Nord, lo Stato, le mafie, ma avendo un blocco su cui contare, non le petizioni di buona volontà, il perbenismo, le esecrazioni -.si sa che tutti gli altroi sono cattivi.
L’inconsistenza è il limite del democraticismo: le viscere putride della società vomitano senza fine masse voraci e violente, sono il “fuori dentro” che tormenta Canetti, per violenza diretta contro altre persone, oppure indiretta, sporcizia, disordine, prepotenza. Il che non essendo fisicamente possibile, avviene per un meccanismo autoriproduttivo: i brutti, sporchi e cattivi sono anch’essi in numero limitato, ma la barbarie produce barbarie.
Tutti sanno da molto tempo ormai leggere e scrivere, fanno la doccia, mangiano a volontà, si curano. Perché dunque nessuno canta? Il problema delle società governate dalla mafia, non si può dire, ma è il problema delle società rivoluzionarie. La mafia non diventa classe dirigente perché sa solo generare mafia, come la revoluciòn ha bisogno di più poveri e più disordine.
Siculiana
- I siciliani fanno i cattivi della storia. Ce n’è bisogno e loro si prestano.
- Ce ne vuole almeno uno in ogni storia, anche siciliana. Ma non si può fare una bella siciliana: il siciliano brutto e cattivo s’incontra con la sicliana pelosa e coperta di nero.
- I miri sbattono tra di loro. Ma il siciliano è anche macho, per essere cattivo, e quindi si deve rifare. Con le puttane, con le straniere. Si spiega così la letteratura siciliana della donna puttana. E la fortuna turistica della Sicilia: per consentire ai milanesi, e ai nordici in generale, di perpetuare le loro storie nel solco già tracciato..
I siciliani, il popolo pi antico dell’Europa, sono caratteristi. Recitano sempre lo stesso ruolo.
Non c’è avvenire senza storia. Non sono dunque felici i popoli senza storia. E d‘altra parte, la distruzione è della storia - ma allora bisogna avere avuto qualcosa che vada distrutto. “La prima radice”, forse il saggio più ricco di verità di Simone Weil, anche se il meno letto, è un inno alla tradizione: “Di tutti i bisogni dell’anima umana, non ce n’è uno più vitale del passato”:. Non c‘è avvenire senza storia: “L’avvenire non ci apporta niente, non ci dà niente; siamo noi che per costruirlo dobbiamo tutto dargli, dargli la nostra vita stessa. Ma per dare bisogna possedere, e noi non possediamo altra vita, altra linfa, che i tesori ereditati dal passato e digeriti, assimilati, ricreati da noi”. Se non che “il passato distrutto non ritorna mai più. la distruzione del passato è forse il crimine più grande”, Sì, il Sud è mafioso, è corrotto, si malgoverna, ma di tutto questo non ha l’esclusiva. Di suo non ha storia,
Ancora Simone Weil, ancora “La prima radice”: “L’eccesso di stabilità produce nelle campagne un effetto di sradicamento”. Bisognerebbe organizzare per le campagne una sorta di Tour de France. Con tappe di lungo periodo, non in città ma in altre campagne – l’acculturazione attraverso il servizio militare è per questo dannoso, contribuisce allo sradicamento: il giovane contadino esce umiliato dal confronto con l’urbanizzato, il settentrionale, l’alfabetizzato.
Alvaro o l’odio di sé meridionale
Il Sud è il 2 per cento, in termini di spazio o di attenzione, nella “produzione” di Alvaro, romanzi, racconti, viaggi, corrispondenza, saggi, il 3. Non si ricorda del resto una sua presenza al Sud, se non, raramente, a casa a San Luca, per visitare, poche ore, la madre. “Il narratore ha visto la Calabria quasi solo da bambino” (Pedullà, “Per esempio il Novecento“, p.426). E tuttavia sono innumerevoli i suoi rimandi al mondo originario, nei racconti, nei romanzi, nei diari, tra la Montagna e il mare Jonio. Della Calabria scrisse anche un sussidiario, non cupo, riportato alla luce da Antonio Delfino. Ma la sua Montagna resta quella di “Gente in Aspromonte”, che appare perfetta e invece è falsa – manca il silenzio, la religiosità, la tradizione, la resistenza, non disperata. È un ottimo esempio di letteratura che crea il fatto, ma traditrice: la povertà è anche indigenza, si sa che c’è la festa ma non si sente, tutto è sempre cupo, “è un fatto che qui manca la nozione geometrica della ruota”, e non c’è compassione, solo gioia maligna, per le disgrazie del protagonista Argirò, e la natura si confà, aspra e cattiva. L’Aspromonte giace sotto “Gente in Aspromonte”.
Alvaro muore nel 1956. È celebre, importante e agiato, con casa a Roma in piazza di Spagna e
buen retiro in campagna a Vallerano, dove vuole essere sepolto. Il padre, che lo ha voluto ragazzo educato nel collegio esclusivo dei gesuiti a Mondragone, e lo ha mantenuto a lungo in giro per i suoi difficili studi e la sua carriera in Italia, muore a gennaio del 1941. Una morte che (“Memoria e vita“) impone “tregua alle invidie del paese”, tra gente “fuori dal mondo”, in una casa rattoppata, col prete ubriaco: “La notte dormimmo tutti con la madre e le sorelle nella stanza dove figli siamo nati. I vetri erano rotti, i muri lesionati ancora dal terremoto (del 1908? N.d.r.), le finestre cadenti. Entrava il freddo nevoso dell’Aspromonte ed io lo riconoscevo nel sonno come un paesaggio mio”. Una presenza riconosciuta e rifiutata.
Soldati, “Fuga in Italia“, pp. 81-3: non il latifondo al Sud ma piccoli proprietari, ricchi e avari, che vivono nel lerciume, risparmiando sul cibo.
Un mondo verghiano, non vittima del latifondo. Vittima lo è, ma dei compagni. Dell’ignavia, i compagni sono i gentiluomini di Salvemini, dell’ignoranza, degli spropositi in materia di feudalesimo. Quando si vede a occhio che non hanno nemmeno il vincolo della mezzadria, solo quello dell’avidità. Tutti piccoli proprietari, ma tutti lerci nelle abitazioni e in famiglia, non si curano e nemmeno si cibano bene, per l’avarizia, per accumulare. Non sanno nemmeno loro che cosa. Un mondo, anche, pirandelliano, della roba sordida, era tutto scritto. Compreso il vero socialismo, la vera anti-borghesia.
Il problema del Sud è, oggi come ieri, l’incapacità, la debolezza, l’ignavia della borghesia, degli imprenditori come dei proprietari., he quando sono qualcosa so0no asserviti. Al Nord, allo Stato, al malaffare, e al popolo, all’avidità. Come se ne esce? Facendo borghesia il popolo, dell’avidità una virtù (thrift, risparmio, rigidità morale), senza rinunciare naturalmente alla borghesia, che è accumulazione: una risorsa: di capitali, conoscenze e anche senso etico. Non si crea niente senza accumulare. Combattendo il Nord, lo Stato, le mafie, ma avendo un blocco su cui contare, non le petizioni di buona volontà, il perbenismo, le esecrazioni -.si sa che tutti gli altroi sono cattivi.
L’inconsistenza è il limite del democraticismo: le viscere putride della società vomitano senza fine masse voraci e violente, sono il “fuori dentro” che tormenta Canetti, per violenza diretta contro altre persone, oppure indiretta, sporcizia, disordine, prepotenza. Il che non essendo fisicamente possibile, avviene per un meccanismo autoriproduttivo: i brutti, sporchi e cattivi sono anch’essi in numero limitato, ma la barbarie produce barbarie.
Tutti sanno da molto tempo ormai leggere e scrivere, fanno la doccia, mangiano a volontà, si curano. Perché dunque nessuno canta? Il problema delle società governate dalla mafia, non si può dire, ma è il problema delle società rivoluzionarie. La mafia non diventa classe dirigente perché sa solo generare mafia, come la revoluciòn ha bisogno di più poveri e più disordine.
Siculiana
- I siciliani fanno i cattivi della storia. Ce n’è bisogno e loro si prestano.
- Ce ne vuole almeno uno in ogni storia, anche siciliana. Ma non si può fare una bella siciliana: il siciliano brutto e cattivo s’incontra con la sicliana pelosa e coperta di nero.
- I miri sbattono tra di loro. Ma il siciliano è anche macho, per essere cattivo, e quindi si deve rifare. Con le puttane, con le straniere. Si spiega così la letteratura siciliana della donna puttana. E la fortuna turistica della Sicilia: per consentire ai milanesi, e ai nordici in generale, di perpetuare le loro storie nel solco già tracciato..
I siciliani, il popolo pi antico dell’Europa, sono caratteristi. Recitano sempre lo stesso ruolo.
giovedì 9 aprile 2009
Il terremoto alla Rai, e in Europa
Lo stesso giorno del terremoto la Rai fa una baraonda sulla mancata prevenzione – prevenire i terremoti, le alluvioni, i fulmini, come no. Senza dimenticare di far parlare su questo e su tutti gli altri argomenti della lunghissima giornata tutti i suoi padroni in fila, giù fino a Casini, Di Pietro, o Di Pietro prima e Casini dopo, la Rai ha un ordine, Schifani e Fini. In omaggio alla par condicio, il conformismo dell'abiezione. In attesa di prevedere e organizzare un terremoto di destra e uno di sinistra.
Un piccolo Grande Fratello – un tempo si sarebbe detto sono gag di Totò – tra i morti e le rovine. Bruno Vespa che insolentisce i vulcanologi Broschi e Barberi, davanti alle rovine, per non aver voluto prevedere un terremoto che invece un tecnico di laboratorio insiste di avere previsto, anche se in un'altra città. E che un professore di Pisa dice si potrebbe prevedere, forse, un giorno, perché no, la scienza va sempre avanti, se la ricerca per la quale si appresta a presentare un progetto andrà a buon fine.
Una farsa: gli sciacalli, che si pensano senza faccia nell'ombra, in primo piano su Rai Uno. Non fosse Vespa la Rai, e tanto più per essere abruzzese: la quintessenza di un certo mondo. Che è la coscienza dell'Italia. La lingua dell'Italia. Il potere più potere della Repubblica, inscalfibile, intramontabile.
La Rai è potente, molto. Ma non è innocua. È l'Italia. Che è, non c'è più da dubitare, quella dei geometri, dei ragionieri, dei tecnici di laboratorio che prevedono i terremoti, dei guaritori di tumori, nel nome della mediocrità, e quindi dell'uguaglianza. Dei forcaioli ladri, professi. Dei forcaioli ladri professi in Parlamento. E in questa veste avere diritto a parlare alla Rai senza contraddittorio di tutto. A turno ben inteso, per la par condicio.
La Rai non è da sottovalutare anche perché ha infettato l'Europa. Che a una sola cosa è interessata mentre le case crollano all'Aquila: se e dove nella sua lunga giornata Berlusconi dirà una sciocchezza. Non l'ha detta, questa volta, e allora gliela fanno dire, nemmeno per cattiveria, per fare la giornata, la giornata del giornalista europeo è fatta così. Del giornalista dei grandi giornali, il “Times”, il “Guardian”, “Le Monde”, “El Paìs”. La mattina presto, quando sono ancora sobri. Dei grandi giornali che fanno l'Europa. Si capisce che il continente non sappia che altro dire.
Un piccolo Grande Fratello – un tempo si sarebbe detto sono gag di Totò – tra i morti e le rovine. Bruno Vespa che insolentisce i vulcanologi Broschi e Barberi, davanti alle rovine, per non aver voluto prevedere un terremoto che invece un tecnico di laboratorio insiste di avere previsto, anche se in un'altra città. E che un professore di Pisa dice si potrebbe prevedere, forse, un giorno, perché no, la scienza va sempre avanti, se la ricerca per la quale si appresta a presentare un progetto andrà a buon fine.
Una farsa: gli sciacalli, che si pensano senza faccia nell'ombra, in primo piano su Rai Uno. Non fosse Vespa la Rai, e tanto più per essere abruzzese: la quintessenza di un certo mondo. Che è la coscienza dell'Italia. La lingua dell'Italia. Il potere più potere della Repubblica, inscalfibile, intramontabile.
La Rai è potente, molto. Ma non è innocua. È l'Italia. Che è, non c'è più da dubitare, quella dei geometri, dei ragionieri, dei tecnici di laboratorio che prevedono i terremoti, dei guaritori di tumori, nel nome della mediocrità, e quindi dell'uguaglianza. Dei forcaioli ladri, professi. Dei forcaioli ladri professi in Parlamento. E in questa veste avere diritto a parlare alla Rai senza contraddittorio di tutto. A turno ben inteso, per la par condicio.
La Rai non è da sottovalutare anche perché ha infettato l'Europa. Che a una sola cosa è interessata mentre le case crollano all'Aquila: se e dove nella sua lunga giornata Berlusconi dirà una sciocchezza. Non l'ha detta, questa volta, e allora gliela fanno dire, nemmeno per cattiveria, per fare la giornata, la giornata del giornalista europeo è fatta così. Del giornalista dei grandi giornali, il “Times”, il “Guardian”, “Le Monde”, “El Paìs”. La mattina presto, quando sono ancora sobri. Dei grandi giornali che fanno l'Europa. Si capisce che il continente non sappia che altro dire.
lunedì 6 aprile 2009
Ma Bush ha vinto la guerra
La guerra al terrorismo islamico è sempre aperta, e sempre è insidiosa, come ogni guerra al terrorismo. Ma Bush l’ha vinta, poiché ormai da tre e quattro anni si combatte fra islamici in terra islamica. Indiscriminata, feroce, sempre determinata, ma si combatte in Iraq, Afghanistan, Pakistan, Egitto, Arabia Saudita, da parte di arabi e islamici contro arabi e islamici. Bush ha vinto senza per questo perdere o indebolire le alleanze tradizionali con i paesi islamici, Turchia, Egitto, Pakistan, Arabia Saudita.
L’America ci ha rimesso tremila vite umane proprie, quante ne aveva perse nell’attacco dell’11 settembre. Ma i morti in guerra fanno parte del concetto imperiale della nazione americana. E anche le spese, che peraltro sono gonfiate per lasciare il segno più incisivo nella storia – il Vietnam più della guerra a Hitler, l’Iraq più del Vietnam…
Riguardando la vicenda a ritroso, d’altra parte, si scopre che l’America non aveva alternativa alla guerra. Una guerra qualsiasi, in territorio islamico. Non c’era trattativa possibile, né clemenza. Una mancata reazione avrebbe provocato più terrorismo, più esteso, più brutale. Come è avvenuto a Londra, e a Madrid.
Il terrorismo islamico può anche essere diffuso e volontaristico, la dottrina dei santuari può anche essere falsa e opportunista, ma sempre in guerra la forza è necessaria. E d’altra parte, se c’è qualcosa di falso nella guerra moderna e nell’attitudine imperiale americana, è proprio la pretesa alla guerra chirurgica, che pretende di incidere solo sul nemico dichiarato – un’estensione della guerra umanitaria, altra bugia.
L’America ci ha rimesso tremila vite umane proprie, quante ne aveva perse nell’attacco dell’11 settembre. Ma i morti in guerra fanno parte del concetto imperiale della nazione americana. E anche le spese, che peraltro sono gonfiate per lasciare il segno più incisivo nella storia – il Vietnam più della guerra a Hitler, l’Iraq più del Vietnam…
Riguardando la vicenda a ritroso, d’altra parte, si scopre che l’America non aveva alternativa alla guerra. Una guerra qualsiasi, in territorio islamico. Non c’era trattativa possibile, né clemenza. Una mancata reazione avrebbe provocato più terrorismo, più esteso, più brutale. Come è avvenuto a Londra, e a Madrid.
Il terrorismo islamico può anche essere diffuso e volontaristico, la dottrina dei santuari può anche essere falsa e opportunista, ma sempre in guerra la forza è necessaria. E d’altra parte, se c’è qualcosa di falso nella guerra moderna e nell’attitudine imperiale americana, è proprio la pretesa alla guerra chirurgica, che pretende di incidere solo sul nemico dichiarato – un’estensione della guerra umanitaria, altra bugia.
Obama, il replicante
Parla Obama atono a raffica, senza passione, senza apparente intelligenza, senza nemmeno senso, parole su parole, poi fa passerella con la moglie en beauté, come a un reality, e su queste parole al vento si tessono strategie e speranze, multilateralismo e kennedysmo. Obama è contro le armi nucleari, per l’aria pulita, e per l’acqua abbondante. Bene. Cioè, ci mancherebbe, sono gli Usa quali li abbiamo sempre sentiti, belli, bravi e buoni. Ma l’Afghanistan? L’Iran? Israele? Ogni giorno Obama parla della crisi, ma siamo sempre a Clinton, al modello Wall Street o dell’“arricchitevi”.
Oppure, che è più vero, anche se per ora non si dice, è un mondo diverso. In cui c’è l’Asia e non c’è più l’Europa, per semplificare. E gli Stati Uniti sono Star Trek-Guerra stellari, dalla caduta del Muro sempre in una qualche guerra, anche due e tre insieme, remoti gestori di un impero che non considerano e non conoscono - Obama ha perfino la sagoma del perfetto androide, che parla come l’aquila dello stemma, guardando da destra e da sinistra (in realtà legge i messaggi prefabbricati dalla Forza Oscura....), figlio di un africano uscito dal bush e ivi scomparso, di una madre fattrice bianca di cui altro non si sa, educato nelle remote Hawai da vecchi saggi, in figura di nonni.
Ma ci sono costanti nella politica Usa, anche ora dopo la mutazione genetica, e quali che siano i discorsi dei presidenti. In politica interna è, sempre dopo Kennedy, il giovanilismo. In politica estera la costante è l’unilateralità, perfino violenta, e la succedaneità di ogni alleato o federato – con l’eccezione, oggi, della sola Cina.
Il multilateralismo era stato già impostato da Kissinger con Nixon, e poi elevato a dottrina nel 1976 con la crisi istituzionale americana. Ma solo nel senso di dettagliare accademicamente in quattro grandi aree, più gli Usa, le problematiche mondiali. Nei fatti si tradusse nella definitiva emarginazione dell’Europa dagli affari mondiali, il petrolio e il dollaro, e nell’apicalizzazione dei rapporti mondiali sugli Usa, dell’Urss, della Cina, e del Terzo mondo (non allineamento, cooperazione per lo sviluppo, Opec), che prima si potevano interconnettere fuori del controllo degli Usa.
È un multipolarismo particolare, questo del paese che ignora la geografia. Anche se il multipolarismo di Kissinger, e ora di Obama, è quello di Carl Schmitt, delle proiezioni regionali di un centro unico. L’impero Usa è tutto in Schmitt, su cui Kissinger teneva seminari nei primi anni Cinquanta, uscito appena il filosofo ex captivitate - il mondo multipolare è una novità di “1984”, il fantaromanzo di George Orwell, che lo divideva in tre, Oceania, Eurasia, East Asia, per Oceania intendendosi l’atlantismo. L’America è continentale e insulare. È questo semplice fatto che la pone, soa, al centro del mondo.
Per kennedysmo s’intende probabilmente il discorso di Berlino, oltre che la solita immagine del presidente giovane, longilineo, bello. Ma i Kennedy hanno creato il castrismo, cioè la rottura con l’America Latina, che tante guerre poi ha portato, golpe, stragi, e ancora oggi perdura. E il Vietnam, che il mondo inchiodò alla guerra fredda, dopo il promettente disgelo degli anni di Eisenhower, per un trentennio probabilmente in eccesso sul necessario.
Oppure, che è più vero, anche se per ora non si dice, è un mondo diverso. In cui c’è l’Asia e non c’è più l’Europa, per semplificare. E gli Stati Uniti sono Star Trek-Guerra stellari, dalla caduta del Muro sempre in una qualche guerra, anche due e tre insieme, remoti gestori di un impero che non considerano e non conoscono - Obama ha perfino la sagoma del perfetto androide, che parla come l’aquila dello stemma, guardando da destra e da sinistra (in realtà legge i messaggi prefabbricati dalla Forza Oscura....), figlio di un africano uscito dal bush e ivi scomparso, di una madre fattrice bianca di cui altro non si sa, educato nelle remote Hawai da vecchi saggi, in figura di nonni.
Ma ci sono costanti nella politica Usa, anche ora dopo la mutazione genetica, e quali che siano i discorsi dei presidenti. In politica interna è, sempre dopo Kennedy, il giovanilismo. In politica estera la costante è l’unilateralità, perfino violenta, e la succedaneità di ogni alleato o federato – con l’eccezione, oggi, della sola Cina.
Il multilateralismo era stato già impostato da Kissinger con Nixon, e poi elevato a dottrina nel 1976 con la crisi istituzionale americana. Ma solo nel senso di dettagliare accademicamente in quattro grandi aree, più gli Usa, le problematiche mondiali. Nei fatti si tradusse nella definitiva emarginazione dell’Europa dagli affari mondiali, il petrolio e il dollaro, e nell’apicalizzazione dei rapporti mondiali sugli Usa, dell’Urss, della Cina, e del Terzo mondo (non allineamento, cooperazione per lo sviluppo, Opec), che prima si potevano interconnettere fuori del controllo degli Usa.
È un multipolarismo particolare, questo del paese che ignora la geografia. Anche se il multipolarismo di Kissinger, e ora di Obama, è quello di Carl Schmitt, delle proiezioni regionali di un centro unico. L’impero Usa è tutto in Schmitt, su cui Kissinger teneva seminari nei primi anni Cinquanta, uscito appena il filosofo ex captivitate - il mondo multipolare è una novità di “1984”, il fantaromanzo di George Orwell, che lo divideva in tre, Oceania, Eurasia, East Asia, per Oceania intendendosi l’atlantismo. L’America è continentale e insulare. È questo semplice fatto che la pone, soa, al centro del mondo.
Per kennedysmo s’intende probabilmente il discorso di Berlino, oltre che la solita immagine del presidente giovane, longilineo, bello. Ma i Kennedy hanno creato il castrismo, cioè la rottura con l’America Latina, che tante guerre poi ha portato, golpe, stragi, e ancora oggi perdura. E il Vietnam, che il mondo inchiodò alla guerra fredda, dopo il promettente disgelo degli anni di Eisenhower, per un trentennio probabilmente in eccesso sul necessario.
Teheran si disinnesca a Mosca, col gas
Il distinto tocco da Terzo mondo che Obama ha portato alla Casa Bianca, seppure in stile afroamericano, inciamperà presto nell’Iran. Che non è Terzo mondo, come Obama sembra pensare, una pacca sulle spalle, un conto in Svizzera e via, anche se qualcuno gli ha detto che è un paese antico. Non è peraltro colpa sua, l’America non ha un’idea dell’Iran: non l’ha avuta al tempo dello scià, quando poteva diventare il suo fortissimo baluardo al centro dell’Arco della Crisi, una Turchia dieci volte più unita e determinata, né al tempo di Khomeini evidentemente, che pure ha portato in trono, e neppure dopo, al tempo di Reagan e dell’Iran-Contra, delle armi iraniane per gli insorti nicaraguegni filoamericani – l’America è sempre la stessa, con Obama e senza. Malgrado i buoni propositi, e Obama non ne tralascia uno, non c’è incontro in vista tra Washington e Teheran.
Il fatto è naturalmente augurabile, e comunque bisogna non precipitare la situazione già difficile, e alcuni punti fermi si stanno mettendo a punto a Roma. Non per l’America, che sa tutto quello che vuole sapere e non chiederebbe mai una mano, non l’ha mai chiesta, ma per l’Europa. Che non aggravi la situazione, già molto a rischio con l’atomica. Il punto fondamentale è che l’Iran deve avere una contropartita. Ciò è vero di qualunque trattativa, ma l’America ha il vizio di dimenticarselo. L’unica contropartita che possa interessare a Teheran è il riconoscimento del ruolo di potenza regionale, a scapito del Pakistan e dell’Arabia Saudita, ma anche questo è da non mettere in conto, gli Usa hanno “creato” le potenze Pakistan e Arabia Saudita, e le tengono in piedi, benché ondeggianti. E per una volta che hanno tentato di dare a Teheran un ruolo hanno sbagliato il terreno, scegliendo la religione: gli iraniani, e gli ayatollah con loro, non sono una chiesa, non sono interessati a compartecipare la religione con il confinante Iraq, pensano e operano ancora in termini di confronto con gli arabi, siano essi pure della comune confessione sciita.
Su due punti specifici però l’Europa può agire per disinnescare Teheran: uno è Mosca, l’altro è il gas. Una politica di apertura verso la Russia, invece dei dispetti alla Sarkozy, è possibile all’Europa su molti fronti: l’entrata nella Wto, la ristrutturazione dell’industria dell’energia, le infrastrutture. La Russia, che non ha anch’essa un vero interesse ad armare l’Iran con la Bomba, potrebbe arrestare la cooperazione nucleare all’industria civile. L’Iran, che non ha più molto petrolio, ha invece tantissimo gas. Il Golfo Persico, che Teheran stava per mettere in produzione dieci anni fa prima della scelta nucleare, ha le maggiori riserve al mondo. Svilupparle, per il consumo interno dell’Iran e con contratti di esportazione, renderebbe ingiustificata la scelta nucleare. Che, non si dimentichi, sta svenando l’Iran.
Il fatto è naturalmente augurabile, e comunque bisogna non precipitare la situazione già difficile, e alcuni punti fermi si stanno mettendo a punto a Roma. Non per l’America, che sa tutto quello che vuole sapere e non chiederebbe mai una mano, non l’ha mai chiesta, ma per l’Europa. Che non aggravi la situazione, già molto a rischio con l’atomica. Il punto fondamentale è che l’Iran deve avere una contropartita. Ciò è vero di qualunque trattativa, ma l’America ha il vizio di dimenticarselo. L’unica contropartita che possa interessare a Teheran è il riconoscimento del ruolo di potenza regionale, a scapito del Pakistan e dell’Arabia Saudita, ma anche questo è da non mettere in conto, gli Usa hanno “creato” le potenze Pakistan e Arabia Saudita, e le tengono in piedi, benché ondeggianti. E per una volta che hanno tentato di dare a Teheran un ruolo hanno sbagliato il terreno, scegliendo la religione: gli iraniani, e gli ayatollah con loro, non sono una chiesa, non sono interessati a compartecipare la religione con il confinante Iraq, pensano e operano ancora in termini di confronto con gli arabi, siano essi pure della comune confessione sciita.
Su due punti specifici però l’Europa può agire per disinnescare Teheran: uno è Mosca, l’altro è il gas. Una politica di apertura verso la Russia, invece dei dispetti alla Sarkozy, è possibile all’Europa su molti fronti: l’entrata nella Wto, la ristrutturazione dell’industria dell’energia, le infrastrutture. La Russia, che non ha anch’essa un vero interesse ad armare l’Iran con la Bomba, potrebbe arrestare la cooperazione nucleare all’industria civile. L’Iran, che non ha più molto petrolio, ha invece tantissimo gas. Il Golfo Persico, che Teheran stava per mettere in produzione dieci anni fa prima della scelta nucleare, ha le maggiori riserve al mondo. Svilupparle, per il consumo interno dell’Iran e con contratti di esportazione, renderebbe ingiustificata la scelta nucleare. Che, non si dimentichi, sta svenando l’Iran.
Ma Berlusconi è in Europa un gigante
Nello sketch di Berlusconi e della regina, o peggio dei signori e le signorine dei media sulla regina e Berlusconi, è tutta l’insipienza, l’inconsistenza, dell’Europa: non è nemmeno buona snob, si fa superiore di niente. L’area più ricca del mondo, l’area ricca più grande, non sa nemmeno arricciare il naso, incistata nei salamelecchi di Bruxelles e gli officianti di quarta linea, socialisti spagnoli senza posto, grassi democristiani. Senza un ruolo, che non sia in subordine a Obama, alla moglie di Obama, all’orto degli Obama, rigorosamente organico certo, e ai loro portavoce. Senza un’idea sulla crisi, a parte dirsi vittima degli Usa, povera stella, sull’Afghanistan, la Russia, la Turchia – effettivamente Berlusconi sembra un gigante in mezzo ai nani, se non altro per il buonsenso. Né sulla Cina, beninteso, o sul dollaro e la globalizzazione degli affari. Ma con la prosopopea di chi tutto sa e fa, meglio di ogni altro, la protezione dell’ambiente come la guerra all’islam.
C’è una nota fortemente ridicola in questo declino, in questo senso gli sketch di Berlusconi, e delle sue prefiche, fanno epoca e faranno storia. Specie nell’essersi appesa, e gongolante, al laccio che essa stessa ha teso, del dominio bruto, dell’imperialismo. Non fosse per la luce sinistra che essa proietta sull’intelligenza, sulla vuota razionalità – si connota così la razionalità per non dover andare a fondo sulle pretese della razionalità stessa. Su chi ha preteso e pretende d’insegnare al mondo a stare al mondo.
C’è una nota fortemente ridicola in questo declino, in questo senso gli sketch di Berlusconi, e delle sue prefiche, fanno epoca e faranno storia. Specie nell’essersi appesa, e gongolante, al laccio che essa stessa ha teso, del dominio bruto, dell’imperialismo. Non fosse per la luce sinistra che essa proietta sull’intelligenza, sulla vuota razionalità – si connota così la razionalità per non dover andare a fondo sulle pretese della razionalità stessa. Su chi ha preteso e pretende d’insegnare al mondo a stare al mondo.
Il nuovo schiavismo, solidale
Un “negro” morto per ogni quattro che arrivano a destinazione: le proporzioni non sono (ancora) le stesse, ma le cifre dei “negri” morti in questi venti anni di tratta dell’immigrazione la apparentano alla tratta dei negri di quattro secoli fa. La stessa avidità, gli stessi favolosi guadagni, la stessa fredda indifferenza per gli immigrati morti. L’Europa che si vuole bella-e-buona, verde, pacifica, provvidenziale, riscrive al declino la stessa orrida storia di quando conquistava il mondo, con la stessa cattiva coscienza.
I morti reali sono tredicimilacinquecento, africani, asiatici, sulle rotte dell’Europa negli ultimi venti anni, secondo il calcolo di Fortress Europe. Da quando la manodopera senza diritti è servita a tenere l’Europa a galla nel mercato globale. Sui gommoni e le carrette del mare, sui campi minati in Grecia, sparati al muro spagnolo di Ceuta e Melilla, asfissiati nei tir. Con politiche dell’accoglienza da lager: il necessario per sopravvivere, in termini di alimentazione e di condizioni igieniche. Sono i morti di una guerra, per quanto buona si voglia l'Europa, e tanto più in quanto erano evitabilissime.
Leggi restrittive, quando si vogliono misericordiose, alternative alla morte, tengono l’immigrato in minorità al solo fine di poterlo sfruttare, a costi irrisori e senza contributi. Sotto la copertura della sicurezza, e dell’argine alla illegalità. Non si può dire in questo caso l’Europa assente, debole per incapacità o inefficienza: al contrario, per sfruttare il lavoro immigrato l’Europa ritrova tutta le sue forze, ancorché ipocrite. Sulla pelle degli immigrati prosperano le mafie, spesso in forma di cooperative, i trafficanti di ogni genere, le imprese, piccole e grandi, e le diecine o centinaia di migliaia di organizzazioni di cooperazione. Se non che un altro problema, certo secondario, è di memoria corta: anche nella tratta degli schiavi il solidarismo prosperava, quanti buoni documenti non ci ha lasciato...
Il fatto è che il business è lucrativo. Con un guadagno medio unitario per i trafficanti di 4-5 mila euro, alcuni processi lo hanno accertato, con basi in Italia a Milano e nel Nord, con la vittima in ostaggio (senza soggiorno e senza documento valido, il passaporto viene requisito), finché non ha pagato, ma guadagnando il minimo, e lavorando dodici ore al giorno, il cibo e le medicine a carico dell'assistenza pubblica, spesso anche il giaciglio per dormire e i vestiti. Roba da day after, in questa Europa bella-e-buona, piena di Suv e botulino, depilata, da Regno di mezzo sotterraneo, infernale.
I morti reali sono tredicimilacinquecento, africani, asiatici, sulle rotte dell’Europa negli ultimi venti anni, secondo il calcolo di Fortress Europe. Da quando la manodopera senza diritti è servita a tenere l’Europa a galla nel mercato globale. Sui gommoni e le carrette del mare, sui campi minati in Grecia, sparati al muro spagnolo di Ceuta e Melilla, asfissiati nei tir. Con politiche dell’accoglienza da lager: il necessario per sopravvivere, in termini di alimentazione e di condizioni igieniche. Sono i morti di una guerra, per quanto buona si voglia l'Europa, e tanto più in quanto erano evitabilissime.
Leggi restrittive, quando si vogliono misericordiose, alternative alla morte, tengono l’immigrato in minorità al solo fine di poterlo sfruttare, a costi irrisori e senza contributi. Sotto la copertura della sicurezza, e dell’argine alla illegalità. Non si può dire in questo caso l’Europa assente, debole per incapacità o inefficienza: al contrario, per sfruttare il lavoro immigrato l’Europa ritrova tutta le sue forze, ancorché ipocrite. Sulla pelle degli immigrati prosperano le mafie, spesso in forma di cooperative, i trafficanti di ogni genere, le imprese, piccole e grandi, e le diecine o centinaia di migliaia di organizzazioni di cooperazione. Se non che un altro problema, certo secondario, è di memoria corta: anche nella tratta degli schiavi il solidarismo prosperava, quanti buoni documenti non ci ha lasciato...
Il fatto è che il business è lucrativo. Con un guadagno medio unitario per i trafficanti di 4-5 mila euro, alcuni processi lo hanno accertato, con basi in Italia a Milano e nel Nord, con la vittima in ostaggio (senza soggiorno e senza documento valido, il passaporto viene requisito), finché non ha pagato, ma guadagnando il minimo, e lavorando dodici ore al giorno, il cibo e le medicine a carico dell'assistenza pubblica, spesso anche il giaciglio per dormire e i vestiti. Roba da day after, in questa Europa bella-e-buona, piena di Suv e botulino, depilata, da Regno di mezzo sotterraneo, infernale.