Elogio funebre di Aldo Cazzullo su “Io Donna” per Nico Orengo: “Lui non era Proust, ma non era un cialtrone”.
La D’Addario ha cancellato Zappadu nell’immaginario democratico. E la Serracchiani?
Al quinto giorno, c’è solo una foto presentabile della quasi onorevole D’Addario con Berlusconi, a un incontro di strada.
Col fotografo, certo, appostato per ritrali nello stesso fotogramma: l’attimo fuggente va preparato.
Non trascura colpi il “Corriere della sera” al suo secondo golpe. A Berlusconi fa dire che è vittima a Bari del complotto di una potenza straniera – non a Berlusconi, ai suoi. Poi argomenta che la potenza è l’America: “Fonti istituzionali raccontano, dopo l’incontro con Barack Obama, che le apparenze ingannano. Che la sostanza della visita alla Casa Bianca non è quella della conferenza stampa di quattro giorni fa, che il Cavaliere per Washington non è più un vero amico”. Fonti istituzionali, cioè Fini? Schifani? Napolitano? Ma non ha limiti Milano, che nella turpitudine accomuna disinvolto Obama: anche il presidente americano è uno che qui lo dice e qui lo nega.
La Procura di Bologna non apre indagini sul candidato sindaco del Pd accusato dal concorrente: “Non interferiamo col voto”. La procura di Bari invece non ha ancora elementi ma fa sapere che Berlusconi è al centro di uno scandalo di squillo. Proprio per interferire col voto di domenica, non essendo riuscito l’incredibile sindaco Pd, Emiliano, un collega magistrato, a vincere al primo turno.
Toghe rosse, come direbbe Berlusconi? No, i magistrati sono in generale fascisti. Si schierano contro di lui come contro qualsiasi tentativo di democratizzazione dell’ordine giudiziario. Che finora sono sempre riusciti a evitare con una ricetta semplice: azzoppare la politica.
Zappadu non si sa chi sia. Figura fotografo free-lance. Ma opera da “quattro postazioni distinte”. Ha una fiduciaria in Colombia. Ed è nuovo leader della sinistra, più di Serracchiani.
Berlusconi lamenta con gli industriali il disfattismo dei giornali, “che tutti i giorni cantano la canzone del pessimismo, del catastrofismo”. Lo storico Adriano Prosperi argomenta su “Repubblica” che il disfattismo fu l’arma di Mussolini: “Il disfattismo fu per il fascismo un fantasma necessario, continuamente evocato, il responsabile a cui imputare le difficoltà e gli insuccessi”. Di più, era l’arma con cui Mussolini “corruppe” gli italiani. Oggi, argomenta ancora lo storico, “l’esito è identico: si chiama corruzione e affonda le radici in un vuoto di memoria e di cultura civile”.
È il vuoto della memoria del sovietismo, che ancora ci ammorba? No, del fascismo: Berlusconi è sempre più votato, argomenta Prosperi, ma “questa verità non ha operato nel senso giusto, non ha spinto le istituzioni della Repubblica e la coscienza degli italiani a fare i conti con la nostra storia con la radicalità e la durezza con cui i tedeschi anno fatto i conti col nazismo”.
Ora, questo è sbagliato: tutti sanno che è il contrario, le “istituzioni della Repubblica” e la “coscienza degli italiani” hanno fatto i conti col fascismo con ben più radicalità e passione che la Germania. È il sovietismo che la Germania ha affrontato “con durezza e radicalità”, che invece le istituzioni della Repubblica e la coscienza degli italiani rimuovono.
Gheddafi viene a Roma come alla fonte di ogni onore. Se Obama lo invitasse in America, non ne trarrebbe altrettanto gusto. Tutto ciò che riguarda Roma è per i libici oggetto di culto, dalla Banca di Roma alle rovine di Sabratha e Leptis Magna, alle cliniche romane dove passano le vacanze. La Libia è l’ultimo – l’unico - posto dove Roma è ancora oggetto di culto.
Da quaranta giorni “Repubblica” ripropone le dieci domande che il giornalista D’Avanzo pose a Berlusconi sui Letizia e la figlia Noemi. Ora perfino, tristemente, tradotte in inglese. È il procedimento che il “Manifesto” usò contro Fanfani e De Mita. Quarant’anni fa, quando tutti eravamo il “Manifesto”. E bastava una sola domanda.
Nel frattempo, tutti sappiamo che è e cosa vuole Noemi. La novità sarebbe un book di D’Avanzo, nel genere fantasy.
L’australiano Stoner, motociclista della Ducati, è servito da un’intervista sul “Corriere della sera” in cui "gli altri" sono scorretti, sleali, e bugiardi: "Io invece mi ritengo molto corretto". Gli altri, si arguisce da una tabella del giornale, sono latini: italiani e spagnoli.
Stoner sta bene solo con Hayden: "Condividiamo i dati e le esperienze, lavoriamo insieme: questione di differente cultura sportiva". E questo perché Hayden è americano - gli americani, come si sa, non barano. Stoner vince con la Ducati, ma lui non ha amici nella Ducati.
Puro Ottocento, ma il giornale non se ne accorge.
Poi si corre a Barcellona, e Rossi entra nella storia con uno dei sorpassi sleali e bugiardi di Stoner. Il quale non sa dire altro che: “Avevo il mal di pancia”. Questa è proprio lealtà.
Passate le elezioni, che Berlusconi ha vinto, Murdoch si fa fare un’intervista da una delle sue tv dove dice che lui mai ha dato al “Times” l’ordine di attaccare Berlusconi. Perché il “Times” è il “Times” eccetera. Ma non ne ha bisogno, si vede benissimo (sapendo l’inglese e avendo un abbonamento a Sky) da come l’intervista viene fatta, Emilio Fede è al confronto un campione di non servilismo.
I giornali italiani ne riferiscono invece come di un esempio di ottimo giornalismo: l’intervistatore “lo incalza”, eccetera. Incalza uno che ha distrutto il “Times”, alla lettera. Ha imposto ovunque, “Times” compreso, giornaliste di fiducia, le prime erano australiane. Ha anticipato il giornalismo dei reality. I giornali vendendo con le minorenni nude, purché procaci. E personalmente non sa nemmeno lui quante famiglie ha. Un uomo d’affari, che come tutti invidia a Berlusconi la sua fortuna in politica. Ma esce sui grandi giornali italiani come il grande difensore della verità.
Fini e il Pd vogliono il voto segreto contro la legge sulle intercettazioni, e uno pensa: ecco, Fini è il nuovo capo della sinistra, è tutto Andreotti. E così è: si vota, infatti, e buon numero degli ex Dc del partito Democratico vota a favore della legge. Con l’apprezzamento di autorevoli Democratici per il neo Fini.
sabato 20 giugno 2009
Ballard che “creò” Reagan
A quarant’anni dalla prima stesura, a venti dalla seconda, arricchita di un’appendice e di note, le atrocità di Ballard non decollano. Se non per la parte che Ballard disprezzava, la divulgazione scientifica – di paralogismi, peraltro, di psicologia, evanescenze di evanescenza. Lo scrittore, che è morto il mese passato accreditando nelle memoria una vita e un’opera legata agli eventi, l’infanzia in Cina e in campo di concentramento giapponese, la morte della moglie giovane, una vita di periferia accanto ai figli da accudire e crescere, una vita normale, forse non aveva il tragico freddo nelle corde. O questo può solo essere esercizio di testa.
Traven-Ballard si propone di rappresentarvi “una serie di psicopatologie immaginarie… come se sperasse in questo modo di riepilogare la morte della moglie”. Una forma di elaborazione del lutto, e in questo senso, come storia di amore, muove qualche corda. Per il resto si legge, con difficoltà, per l’aneddotica, e per le note e l’appendice della riedizione. Quarant’anni fa Ballard “creava” Reagan, in un testo del 1967 ripreso per il libro. Ipotizzava l’alleanza tra islam e femminismo militante, con chador disegnato da Yves Saint-Laurent (che lo disegnerà!), “la guerra a cui le case cinematografiche avevano nuovamente dato inizio in Vietnam” (lo hanno fatto). Vedeva a Miami “una buona città per essere assassinato” , un posto “dove sembra che nessuno si ricordi chi è, e la cosa non gli importa affatto”. Vent’anni fa disegnava il Mediterraneo settentrionale come una città ininterrotta lunga cinquemila chilometri, da Gibilterra a Glyfada (Atene). Le visioni dunque si realizzano, ma è vecchio realismo.
La riedizione del 1989 è arricchita delle atrocità della chirurgia estetica (“Il lifting della principessa Margaret”, “La plastica mammaria riduttiva di Mae West”). E della “Storia segreta della terza guerra mondiale”, che non c’è stata ma è come se ci fosse stata. Tutte cose realistiche. Come le lunghe note, didascaliche e quasi giornalistiche. Ma l’assunto non decolla, il “matrimonio tra Freud e Euclide”. Dopo quarant’anni resta inspiegato, il libro come molto Ballard. Come il surrealismo, di cui Ballard è qui cultore ossessivo: il suo inner space vaga come i sogni. La libera associazione è immaginazione – Ballard la dice “pornografia”, all’epoca era assatanato.
L’assunto è semplice, con semplicità lo spiega Ballard nella stessa pagina in cui spiega che Einstein, “questo grande matematico svizzero”, è un pornografo: “La scienza è l’ultimo stadio della pornografia, un’attività analitica il cui scopo principale è di isolare gli oggetti o gli eventi dal loro contesto spaziale e temporale”. Appellandosi a Lautréamont. Ma la scienza non è (ancora) immaginazione-pornografia.
In più punti nel testo e nelle note sono ricordati i “Mondo cane” di Jacopetti come affini al progetto. Negli anni Sessanta Ballard progettava un mondo de-realizzato, ridotto ai suoi moti neuronali (“icone neurotiche sulle autostrade spinali”), alle fibrillazioni, a “un momento dopo dell’homo sapiens” (dopo la terza guerra mondale) che in realtà è un momento prima. Un progetto ambizioso, per il quale approfondì quanto sapeva da quasi medico e da quasi pilota da combattimento. Con l’ambizione dichiarata però di rifare Jarry, anche più ubuesco benché freddo. Ballard adotta il nome dello scrittore anonimo Traven (anche Travis, Trabert, Talbot) per vagare sotto la percezione delle cose: l’incidente automobilistico, l’assassinio di Kennedy, Hiroshima, il Vietnam, le cronache. Il tutto per flash, echi, rinvii insoliti, specie del minuscolo: frammenti di oggetti, lacerti di corpi o di memorie, tristezze subitanee e foje. La scrittura come scomposizione di immagini, e le immagini come lettura – molto variabile, per punto di vista, illuminazione, taglio, contrasti.
Curioso oggi, ma ci fu un’epoca, cinquant’anni, quarant’anni fa, in cui il letterato era un ricercatore, senza scandalo, insaziato di esperimenti e scoperte, in Francia, in Germania, negli Usa, in Gran Bretagna, e perfino nell’Unione Sovietica e in Italia, in riviste, mostre, happening, manifestazioni pubbliche e libri, alla ricerca di nuovi moduli, linguaggi, significati - si innovava ancora di più al cinema, arte popolare per eccellenza, e alcuni film di Godard del 1966-67 trattano le stesse cose di Ballard, “La Cinese” o, gli incidenti automobilistici, “Weekend” (di cui è straordinaria la diversità da “Crash”, il film che Cronenberg realizzerà nel 1996 dall’omonimo racconto in cui Ballard ha ampliato alcuni lampi di “La mostra delle atrocità”: più che due epoche, sono due mondi diversi). “La mostra delle atrocità” ne resta probabilmente la sola traccia in commercio.
Il tentativo, Ballard spiega nelle note alla riedizione, è di “decodificare alcune delle grammatiche trasformazionali”, i nessi che si costituiscono, tra le cose, gli eventi e le possibilità, per dna, abitudine, sensibilità. Ma questo iperrealismo del “sotto” non è diverso dalle superfici o le apparenze della pop art – Warhol è per Ballard già un cimelio, un classico. E, pur avulso dalla realtà (il Vietnam vero, Khomeini, Tienanmen, la caduta del Muro), si segnala per l’insight realistico. Altro esempio e l’orrore dei testi clinici, della psicoterapia, della chirurgia estetica, che Ballard si diverte a ricostituire. I materiali accumulati gli sono venuti buoni per le note, ma non di più. La radicalità delle immagini non è creativa, e riconferma che l’arte non è fantasia pura, sregolata. Ma come documento è terribilmente vero. “Ecco perché voglio fottere Reagan”, del 1967, quando Reagan era governatore della California, l’attacco preventivo alla politica spettacolo, nel 1980 era già distribuito, senza i titoli, a sostegno di Reagan alla Convenzione repubblicana che poi lo candidò – e Reagan battè facilmente Carter, uno dei presidenti più attivi e produttivi del Novecento (è pure vero che Reagan, democratico per una vita, aveva lasciato il partito di Roosevelt nel 1962, di fronte alla insipienza dei fratelli Kenedy a Cuba, e che nella campagna repubblicana del 1964, candidato Goldwater, si era segnalato per un discorso elettorale in tv, "L'ora delle scelte", che "Time" aveva giudicato "l'unico segno di vivacità in una campagna elettorale piatta").
Notevole, rileggendo “La mostra delle atrocità”, è il rovesciamento che il probizionismo etico sta operando sui tabù. Per sbarazzarsene, Ballard proclamava quarant’anni fa pornografia anche la guerra, gli incidenti stradali, e gli assassinii politici. Ma oggi, nel neo puritanesimo del mercato, tutto questo è rappresentabile (dicibile), perfino in tv, cioè per strada, l’unico interdetto resta sul sesso – l’unica cosa che non si può far vedere è un coito. Il concetto di pornografia forse va rivisto, che non è violenza: la violenza non è tabù.
J.C.Ballard, La mostra delle atrocità
Traven-Ballard si propone di rappresentarvi “una serie di psicopatologie immaginarie… come se sperasse in questo modo di riepilogare la morte della moglie”. Una forma di elaborazione del lutto, e in questo senso, come storia di amore, muove qualche corda. Per il resto si legge, con difficoltà, per l’aneddotica, e per le note e l’appendice della riedizione. Quarant’anni fa Ballard “creava” Reagan, in un testo del 1967 ripreso per il libro. Ipotizzava l’alleanza tra islam e femminismo militante, con chador disegnato da Yves Saint-Laurent (che lo disegnerà!), “la guerra a cui le case cinematografiche avevano nuovamente dato inizio in Vietnam” (lo hanno fatto). Vedeva a Miami “una buona città per essere assassinato” , un posto “dove sembra che nessuno si ricordi chi è, e la cosa non gli importa affatto”. Vent’anni fa disegnava il Mediterraneo settentrionale come una città ininterrotta lunga cinquemila chilometri, da Gibilterra a Glyfada (Atene). Le visioni dunque si realizzano, ma è vecchio realismo.
La riedizione del 1989 è arricchita delle atrocità della chirurgia estetica (“Il lifting della principessa Margaret”, “La plastica mammaria riduttiva di Mae West”). E della “Storia segreta della terza guerra mondiale”, che non c’è stata ma è come se ci fosse stata. Tutte cose realistiche. Come le lunghe note, didascaliche e quasi giornalistiche. Ma l’assunto non decolla, il “matrimonio tra Freud e Euclide”. Dopo quarant’anni resta inspiegato, il libro come molto Ballard. Come il surrealismo, di cui Ballard è qui cultore ossessivo: il suo inner space vaga come i sogni. La libera associazione è immaginazione – Ballard la dice “pornografia”, all’epoca era assatanato.
L’assunto è semplice, con semplicità lo spiega Ballard nella stessa pagina in cui spiega che Einstein, “questo grande matematico svizzero”, è un pornografo: “La scienza è l’ultimo stadio della pornografia, un’attività analitica il cui scopo principale è di isolare gli oggetti o gli eventi dal loro contesto spaziale e temporale”. Appellandosi a Lautréamont. Ma la scienza non è (ancora) immaginazione-pornografia.
In più punti nel testo e nelle note sono ricordati i “Mondo cane” di Jacopetti come affini al progetto. Negli anni Sessanta Ballard progettava un mondo de-realizzato, ridotto ai suoi moti neuronali (“icone neurotiche sulle autostrade spinali”), alle fibrillazioni, a “un momento dopo dell’homo sapiens” (dopo la terza guerra mondale) che in realtà è un momento prima. Un progetto ambizioso, per il quale approfondì quanto sapeva da quasi medico e da quasi pilota da combattimento. Con l’ambizione dichiarata però di rifare Jarry, anche più ubuesco benché freddo. Ballard adotta il nome dello scrittore anonimo Traven (anche Travis, Trabert, Talbot) per vagare sotto la percezione delle cose: l’incidente automobilistico, l’assassinio di Kennedy, Hiroshima, il Vietnam, le cronache. Il tutto per flash, echi, rinvii insoliti, specie del minuscolo: frammenti di oggetti, lacerti di corpi o di memorie, tristezze subitanee e foje. La scrittura come scomposizione di immagini, e le immagini come lettura – molto variabile, per punto di vista, illuminazione, taglio, contrasti.
Curioso oggi, ma ci fu un’epoca, cinquant’anni, quarant’anni fa, in cui il letterato era un ricercatore, senza scandalo, insaziato di esperimenti e scoperte, in Francia, in Germania, negli Usa, in Gran Bretagna, e perfino nell’Unione Sovietica e in Italia, in riviste, mostre, happening, manifestazioni pubbliche e libri, alla ricerca di nuovi moduli, linguaggi, significati - si innovava ancora di più al cinema, arte popolare per eccellenza, e alcuni film di Godard del 1966-67 trattano le stesse cose di Ballard, “La Cinese” o, gli incidenti automobilistici, “Weekend” (di cui è straordinaria la diversità da “Crash”, il film che Cronenberg realizzerà nel 1996 dall’omonimo racconto in cui Ballard ha ampliato alcuni lampi di “La mostra delle atrocità”: più che due epoche, sono due mondi diversi). “La mostra delle atrocità” ne resta probabilmente la sola traccia in commercio.
Il tentativo, Ballard spiega nelle note alla riedizione, è di “decodificare alcune delle grammatiche trasformazionali”, i nessi che si costituiscono, tra le cose, gli eventi e le possibilità, per dna, abitudine, sensibilità. Ma questo iperrealismo del “sotto” non è diverso dalle superfici o le apparenze della pop art – Warhol è per Ballard già un cimelio, un classico. E, pur avulso dalla realtà (il Vietnam vero, Khomeini, Tienanmen, la caduta del Muro), si segnala per l’insight realistico. Altro esempio e l’orrore dei testi clinici, della psicoterapia, della chirurgia estetica, che Ballard si diverte a ricostituire. I materiali accumulati gli sono venuti buoni per le note, ma non di più. La radicalità delle immagini non è creativa, e riconferma che l’arte non è fantasia pura, sregolata. Ma come documento è terribilmente vero. “Ecco perché voglio fottere Reagan”, del 1967, quando Reagan era governatore della California, l’attacco preventivo alla politica spettacolo, nel 1980 era già distribuito, senza i titoli, a sostegno di Reagan alla Convenzione repubblicana che poi lo candidò – e Reagan battè facilmente Carter, uno dei presidenti più attivi e produttivi del Novecento (è pure vero che Reagan, democratico per una vita, aveva lasciato il partito di Roosevelt nel 1962, di fronte alla insipienza dei fratelli Kenedy a Cuba, e che nella campagna repubblicana del 1964, candidato Goldwater, si era segnalato per un discorso elettorale in tv, "L'ora delle scelte", che "Time" aveva giudicato "l'unico segno di vivacità in una campagna elettorale piatta").
Notevole, rileggendo “La mostra delle atrocità”, è il rovesciamento che il probizionismo etico sta operando sui tabù. Per sbarazzarsene, Ballard proclamava quarant’anni fa pornografia anche la guerra, gli incidenti stradali, e gli assassinii politici. Ma oggi, nel neo puritanesimo del mercato, tutto questo è rappresentabile (dicibile), perfino in tv, cioè per strada, l’unico interdetto resta sul sesso – l’unica cosa che non si può far vedere è un coito. Il concetto di pornografia forse va rivisto, che non è violenza: la violenza non è tabù.
J.C.Ballard, La mostra delle atrocità
venerdì 19 giugno 2009
La capitale dell'immoralità
Una puttana di Bari che mette nel sacco il “Corriere della sera” e Berlusconi è una bella rivincita del Sud, questo sito ha commentato a caldo. Ma poi è sempre una guerra di milanesi, che sempre rompono i coglioni. Come già nel 1994, è sempre il “Corriere della sera” contro Berlusconi, Milano contro Milano - o, con più certezza, anche se indimostrabile, contro l referendum e la possibilità per gli italiani di votare utile, di farsi governare. Allora con uno scandalo falso – un falso avviso di garanzia redatto e pubblicato per costringere Berlusconi alle dimissioni. Una cosa schifosa. Oggi la mitomane barese ha indubbiamente delle attrattive. Anche se le foto del calendario, già cinque anni fa, la mostrano smandrappata. È comunque furba, che si fa ritrarre a ogni incrocio dove passa Berlusconi, arricchendo se non altro il fotografo. Ma il disgusto che solleva questo derby è lo stesso: una prostituta non fa scandalo, né lo ha fatto per i tanti mesi in cui aveva deciso d’inguaiare la giunta pugliese di Nichi Vendola. Lo fa quando il “Corriere della sera” le offre una bella pagina. Senza dire che mestiere fa, e per che cosa è nota a Bari, con una fotina anzi angelica.
Milano non la finisce di massacrare l’Italia. Che ha bisogno di essere governata. Fosse pure da un milanese di merda. Sono venti anni ormai, dalla scoperta di Sofri assassino, che Milano impesta l’Italia. Non un solo giorno la politica respira, che è l’essenza della democrazia. Una città golpista. Che non ha mai chiesto scusa né ha dato spiegazioni del falso avviso di garanzia del 1994. Che tutti ha messo dentro, eccetto i ricchi milanesi. Anche quelli riconosciuti ladri, concussori, ricattatori, evasori miliardari, profittatori. I proprietari e gi amministratori del “Corriere della sera”, per esempio. Milano ci godrà, e ci guadagnerà, ma fino a quando? Tutto vi è lecito, anche solo per interessi di bottega (vendere una copia in più, comprare a gratis un’altra banchetta), ma questo non è più tollerabile.
Dei terroristi e dei preti
Terroristi d’ogni bordo, giudici, generali, giornalisti, affaristi, fresconi e leghisti hanno praticamente dissolto quel poco che restava d’Italia. Con le veline, le letterine, i reality, la tv d’intrattenimento, e ogni altra porcheria atta a turbare le vergini nelle famiglie. A ogni grido di dolore dell’opinione pubblica, sempre rispettosa, col voto, coi sondaggi, la Milano non tanto segreta reagisce con fendenti e veleni. Milano è potente, e bisogna piegarsi, ma si può e si deve anche mandargliele, il troppo è troppo. Quando si farà la storia di questi venti anni si troverà un gran tanfo di cadaveri che Milano ammucchia, è difficile sopravvivere.
Tanto più che questo “Corriere” è da tempo la Milano dei preti, dell’arcipotente Bazoli e del suo braccio destro il cardinale, più che del Clubino dei puri di cuore interisti, ladri di Borsa, evasori, e filantropi. Tutto questo è non solo antidemocratico, è anche poco caritatevole e poco cristiano: i cittadini non vogliono essere privati del voto, non hanno altro. E pretastico, anche se non al modo della Democrazia Cristiana, la quale non rifuggì da nessuna turpitudine, assassinio compreso, non figurato. Lo è per l’ipocrisia e il collo torto: creato lo scandalo, oggi come nel 1994, si finge solidarietà con l’accusato, “finché le accuse non saranno provate”, come no. Ed è solo ambrosiano, la chiesa a Roma da trent’anni, da quando è finito Paolo VI, il papa milanese, vuole bene agli italiani e li protegge. I preti di Milano invece ci vogliono governare loro: del referendum non si deve parlare, anche a costo di coprirlo con foto scosciate e medaglioni di puttane. E hanno abbindolato questo papa che poco ci capisce, che volando domenica da padre Pio si porterà dietro tutta la Rai.
Milanesi, chiavate!
Noi tutti siamo contro le puttane in politica. Questi eminentissimi signori, evidentemente, no. Anche questo, diranno, è nella tradizione romana, sempre a Roma le cortigiane sostituirono la politica, e con quella cosa lì. E invece no: facevano magari figli ai papi e ai cardinali, ma sempre nel truogolo. Milanesi, chiavate! Fate come i papi, e lasciateci lavorare.
Milano non la finisce di massacrare l’Italia. Che ha bisogno di essere governata. Fosse pure da un milanese di merda. Sono venti anni ormai, dalla scoperta di Sofri assassino, che Milano impesta l’Italia. Non un solo giorno la politica respira, che è l’essenza della democrazia. Una città golpista. Che non ha mai chiesto scusa né ha dato spiegazioni del falso avviso di garanzia del 1994. Che tutti ha messo dentro, eccetto i ricchi milanesi. Anche quelli riconosciuti ladri, concussori, ricattatori, evasori miliardari, profittatori. I proprietari e gi amministratori del “Corriere della sera”, per esempio. Milano ci godrà, e ci guadagnerà, ma fino a quando? Tutto vi è lecito, anche solo per interessi di bottega (vendere una copia in più, comprare a gratis un’altra banchetta), ma questo non è più tollerabile.
Dei terroristi e dei preti
Terroristi d’ogni bordo, giudici, generali, giornalisti, affaristi, fresconi e leghisti hanno praticamente dissolto quel poco che restava d’Italia. Con le veline, le letterine, i reality, la tv d’intrattenimento, e ogni altra porcheria atta a turbare le vergini nelle famiglie. A ogni grido di dolore dell’opinione pubblica, sempre rispettosa, col voto, coi sondaggi, la Milano non tanto segreta reagisce con fendenti e veleni. Milano è potente, e bisogna piegarsi, ma si può e si deve anche mandargliele, il troppo è troppo. Quando si farà la storia di questi venti anni si troverà un gran tanfo di cadaveri che Milano ammucchia, è difficile sopravvivere.
Tanto più che questo “Corriere” è da tempo la Milano dei preti, dell’arcipotente Bazoli e del suo braccio destro il cardinale, più che del Clubino dei puri di cuore interisti, ladri di Borsa, evasori, e filantropi. Tutto questo è non solo antidemocratico, è anche poco caritatevole e poco cristiano: i cittadini non vogliono essere privati del voto, non hanno altro. E pretastico, anche se non al modo della Democrazia Cristiana, la quale non rifuggì da nessuna turpitudine, assassinio compreso, non figurato. Lo è per l’ipocrisia e il collo torto: creato lo scandalo, oggi come nel 1994, si finge solidarietà con l’accusato, “finché le accuse non saranno provate”, come no. Ed è solo ambrosiano, la chiesa a Roma da trent’anni, da quando è finito Paolo VI, il papa milanese, vuole bene agli italiani e li protegge. I preti di Milano invece ci vogliono governare loro: del referendum non si deve parlare, anche a costo di coprirlo con foto scosciate e medaglioni di puttane. E hanno abbindolato questo papa che poco ci capisce, che volando domenica da padre Pio si porterà dietro tutta la Rai.
Milanesi, chiavate!
Noi tutti siamo contro le puttane in politica. Questi eminentissimi signori, evidentemente, no. Anche questo, diranno, è nella tradizione romana, sempre a Roma le cortigiane sostituirono la politica, e con quella cosa lì. E invece no: facevano magari figli ai papi e ai cardinali, ma sempre nel truogolo. Milanesi, chiavate! Fate come i papi, e lasciateci lavorare.
L'Aspromonte mal amato
Tanta narrativa ha qui le radici. Parise del “Prete bello”. Pavese, come dice Pampaloni. Quasi tutta la Morante. Pasolini in parte, mediato dal neo realismo. Che invece vi entra quasi tutto. Oltre alla narrativa “meridionale”, Domenico Rea, Scotellaro, Jovine, Nigro, Strati, i sardi, lo stesso Silone, che più di Alvaro ebbe vita e interessi cosmopoliti. I pastori dell’Aspromonte non sono i vinti di Verga, l’umanità è qui più varia. Ma per un sessantennio una buona metà della narrativa italiana non esce dal format alvariano: poveri indigenti, donne mute, violenti impuniti, bambini tristi – nella forma più alta “l’eterno profugo” che, nota Pampaloni, caratterizza tutta l’opera di Alvaro.
È il caso più eclatatante, dopo la “Spagna” e i “bravi” di Manzoni, di realtà creata dalla letteratura. Veritiera e non, ma più no che sì. Ci sono le donne, ovunque. Ma c’è anche il clichè. Si toscaneggia. E manca la luce, che fa l’Aspromonte, una montagna per questo diversa. Tutta aperta. Un buon caso, al di là delle intenzioni certo, dell’odio di sé meridionale.
Il racconto (“romanzo”) del titolo, “Gente in Aspromonte, identifica la Calabria. Nel celebre attacco, lirico, e nella chiusa, mordace. Nel mezzo Alvaro è molto allievo del San Giuseppe de Merode, ancorché dall’istituzione rifiutato: il buon borghese che il Risorgimento e l’Italia unita volevano, un modello interiorizzato in Calabria, per quanto periferica, più che altrove - il tifo è più radicale nelle periferie. Tutto l’oscuro dell’essere borghese e italiano che fonda la questione meridionale, ma calabrese in particolare. Non c’è altro posto in Italia dove “italiano” ha significato e significa così tanto, dai plebisciti alla politica divorante. Col verghismo, certo, ognuno è causa del suo male: “In questo paese anche la pioggia è nemica”, o “È una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere”. C’è anche dell’altro, Alvaro è forte scrittore (la relazione di Schiavina con Andreuccio anticipa, plausibile, lady Chatterley), ma la cifra è quella.
Da più parti è stato detto, Walter Pedullà, che l’ha frequentato, lo definisce “il desiderio di scappare”, da una terra peraltro “dove non si può rimanere e da dove è impossibile fuggire” (“Per esempio il Novecento”, p. 417). Da qui, forse, un “ritroso complesso di colpa”, ma anche l’urto rinnovato, il disprezzo se non l’odio: la fuga è una condanna, risentita. Che costante si rinnova. “Il narratore ha visto la Calabria quasi solo da bambino”, sottolinea Pedullà (id., p.426).
Nemmeno questo è del tutto vero. Nella stessa raccolta del “romanzo”, come nelle precedenti raccolte di racconti, specie “L’amata alla finestra”, e nelle successive, specie in quelle postume, Alvaro si lega alle origini. Sempre con dispetto, per il padre, per il paese, ma è lì che trova il realismo magico che lo rende sempre vivo. Con dispetto soprattutto verso la Montagna, ecco, che pure aveva tutti i mezzi per conoscere come fa con il mare, gli interessi del padre, compresa la (poca) letteratura sul grande mistero di Polsi, i vagabondaggi di bambino, i personaggi, che ancora s’incontrano: l’Aspromonte è vittima deliberata del titolo che l’ha reso celebre.
Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte
È il caso più eclatatante, dopo la “Spagna” e i “bravi” di Manzoni, di realtà creata dalla letteratura. Veritiera e non, ma più no che sì. Ci sono le donne, ovunque. Ma c’è anche il clichè. Si toscaneggia. E manca la luce, che fa l’Aspromonte, una montagna per questo diversa. Tutta aperta. Un buon caso, al di là delle intenzioni certo, dell’odio di sé meridionale.
Il racconto (“romanzo”) del titolo, “Gente in Aspromonte, identifica la Calabria. Nel celebre attacco, lirico, e nella chiusa, mordace. Nel mezzo Alvaro è molto allievo del San Giuseppe de Merode, ancorché dall’istituzione rifiutato: il buon borghese che il Risorgimento e l’Italia unita volevano, un modello interiorizzato in Calabria, per quanto periferica, più che altrove - il tifo è più radicale nelle periferie. Tutto l’oscuro dell’essere borghese e italiano che fonda la questione meridionale, ma calabrese in particolare. Non c’è altro posto in Italia dove “italiano” ha significato e significa così tanto, dai plebisciti alla politica divorante. Col verghismo, certo, ognuno è causa del suo male: “In questo paese anche la pioggia è nemica”, o “È una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere”. C’è anche dell’altro, Alvaro è forte scrittore (la relazione di Schiavina con Andreuccio anticipa, plausibile, lady Chatterley), ma la cifra è quella.
Da più parti è stato detto, Walter Pedullà, che l’ha frequentato, lo definisce “il desiderio di scappare”, da una terra peraltro “dove non si può rimanere e da dove è impossibile fuggire” (“Per esempio il Novecento”, p. 417). Da qui, forse, un “ritroso complesso di colpa”, ma anche l’urto rinnovato, il disprezzo se non l’odio: la fuga è una condanna, risentita. Che costante si rinnova. “Il narratore ha visto la Calabria quasi solo da bambino”, sottolinea Pedullà (id., p.426).
Nemmeno questo è del tutto vero. Nella stessa raccolta del “romanzo”, come nelle precedenti raccolte di racconti, specie “L’amata alla finestra”, e nelle successive, specie in quelle postume, Alvaro si lega alle origini. Sempre con dispetto, per il padre, per il paese, ma è lì che trova il realismo magico che lo rende sempre vivo. Con dispetto soprattutto verso la Montagna, ecco, che pure aveva tutti i mezzi per conoscere come fa con il mare, gli interessi del padre, compresa la (poca) letteratura sul grande mistero di Polsi, i vagabondaggi di bambino, i personaggi, che ancora s’incontrano: l’Aspromonte è vittima deliberata del titolo che l’ha reso celebre.
Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte
giovedì 18 giugno 2009
Exit Lui, o Lui - se non è precongresso Pd
Non è lo scandalo di D’Alema, è un affare milanese, come già nel 1994, tra il “Corriere della sera” e Berlusconi, e contro ogni possibilità di essere governati. Ma a questo punto uno dei due titani che ci affliggono dovrà pure uscire di scena, Berlusconi o l’informato dei fatti D’Alema, in questa vicenda di squillo pagate per non trombare. E per parlare quattro giorni prima del ballottaggio dell’incredibile Emiliano – che è un magistrato, e uno si chiede come può.
Una vicenda sordida, all’altezza di Milano. Ma non tutto il male viene per nuocere, eccetera. Berlusconi ha amicizie equivoche. D’Alema pure. Ma ha amicizie più capaci, e più abili nell’armare le trappole – Berlusconi sarà un fascista, ma non ha mai fatto le scarpe a nessuno, in questo è proprio come il suo maestro Craxi, che anche lui si riteneva al di sopra della mischia. C’è però una seconda ipotesi. Lunedì l’incredibile Emiliano sarà di nuovo sindaco, per la disgrazia di Bari, e nessuno chiederà conto al suo protettore della trappola squillo. Il procuratore democratico anti Berlusconi scoprirà poco alla volta, con indiscrezioni, perplessità, distinguo, eccetera, che le puttane non sono molto affidabili, anche se di Bari. Quella che si è esposta con filmati, interviste e registrazioni avrà un incidente stradale, oppure verrà affidata ai servizi d’igiene mentale – la strada è già aperta su “Repubblica”. Berlusconi resterà al suo posto, ormai ha la faccia di bronzo che gli serve. E D’Alema pure. L’Italia non è del resto il paese in cui nulla si crea e nulla si distrugge?
Tutto questo perché il disegno di D’Alema è più modesto, per ora: prendersi il partito Democratico. Anche se un partito Democratico di puttane non è il massimo. E gli tocca prenderlo d’assalto, dopo averlo guardato a lungo con sufficienza (e qui e là minato), poiché là dentro ha troppi nemici, anche con più pelo sullo stomaco di Berlusconi, che già affilano le lame e digrignano i denti. La conferma di Emiliano è un punto. La conquista del “Corriere” un altro, che ripete i fasti dell’avviso di reato del 1994. Ora ci sarà da conquistare “Repubblica” – più difficile. Da ricompattare i Ds, dopo la sberla di Firenze a opera del ragazzetto Renzi, e senza più assessorati. Da rafforzarli con le sinistre vaghe, non potendo più disporre dei voti cattolici. Non sarà facile, anche perché i compagni sono voraci. L’ultimo loro successo è ormai di qualche anno fa, seppure non da poco, l’elezione di Napolitano al Quirinale, di cui D’Alema è stato il principe elettore, unico e accorto. Un’impresa di tutto rispetto, insomma. Se non fosse solo l’ultima, berlingueriana, operazione senz’anima, di puro potere.
Una vicenda sordida, all’altezza di Milano. Ma non tutto il male viene per nuocere, eccetera. Berlusconi ha amicizie equivoche. D’Alema pure. Ma ha amicizie più capaci, e più abili nell’armare le trappole – Berlusconi sarà un fascista, ma non ha mai fatto le scarpe a nessuno, in questo è proprio come il suo maestro Craxi, che anche lui si riteneva al di sopra della mischia. C’è però una seconda ipotesi. Lunedì l’incredibile Emiliano sarà di nuovo sindaco, per la disgrazia di Bari, e nessuno chiederà conto al suo protettore della trappola squillo. Il procuratore democratico anti Berlusconi scoprirà poco alla volta, con indiscrezioni, perplessità, distinguo, eccetera, che le puttane non sono molto affidabili, anche se di Bari. Quella che si è esposta con filmati, interviste e registrazioni avrà un incidente stradale, oppure verrà affidata ai servizi d’igiene mentale – la strada è già aperta su “Repubblica”. Berlusconi resterà al suo posto, ormai ha la faccia di bronzo che gli serve. E D’Alema pure. L’Italia non è del resto il paese in cui nulla si crea e nulla si distrugge?
Tutto questo perché il disegno di D’Alema è più modesto, per ora: prendersi il partito Democratico. Anche se un partito Democratico di puttane non è il massimo. E gli tocca prenderlo d’assalto, dopo averlo guardato a lungo con sufficienza (e qui e là minato), poiché là dentro ha troppi nemici, anche con più pelo sullo stomaco di Berlusconi, che già affilano le lame e digrignano i denti. La conferma di Emiliano è un punto. La conquista del “Corriere” un altro, che ripete i fasti dell’avviso di reato del 1994. Ora ci sarà da conquistare “Repubblica” – più difficile. Da ricompattare i Ds, dopo la sberla di Firenze a opera del ragazzetto Renzi, e senza più assessorati. Da rafforzarli con le sinistre vaghe, non potendo più disporre dei voti cattolici. Non sarà facile, anche perché i compagni sono voraci. L’ultimo loro successo è ormai di qualche anno fa, seppure non da poco, l’elezione di Napolitano al Quirinale, di cui D’Alema è stato il principe elettore, unico e accorto. Un’impresa di tutto rispetto, insomma. Se non fosse solo l’ultima, berlingueriana, operazione senz’anima, di puro potere.
Tenersi forte agli Usa - e guardarsi dall'Ue
Si è rinnovato con Berlusconi, come con chiunque altro, il rapporto speciale dell’Italia con gli Usa. Che l’hanno salvata dal fascismo, e poi dal sovietismo, e sempre le hanno consentito dei piccoli spazi nel mercato. In fondo è normale che il nuovo presidente americano incontri, dopo il capo del governo britannico, quello italiano. Un piccolo asse privilegiato all’interno della Nato, e un dialogo sempre diretto, che ha pagato per l’Italia dividendi consistenti. Dandole dignità politica: l’Italia è ormai da sessant’anni con gli Usa quello che non si pensa, un alleato affidabile.
Gli Usa sono anche una sponda necessaria nella scelta europea, tanto obbligata quanto insoddisfacente. Non per nulla l’inaffidabilità italiana è creazione inglese e tedesca. Sempre ci sono problemi con questo o quel paese europeo con cui l’Italia è in teoria unita. Il caso Opel è solo uno dei tanti, anche se inverecondo, la scelta tedesca essendo stata dettata unicamente dal pregiudizio antitaliano. A fronte del nessun pregiudizio americano per la Chrysler, che pure impegna più capitali del Tesoro Usa che non la Opel – almeno dei finanziamenti che si conoscono, perché ce ne sono di surrettizi, anche questo è Germania.
Aspettando l’Iran
L’Italia è stata sempre alleato affidabile degli Usa, anche quando con Mattei e poi Fanfani sembrò attuare una diversa politica in Medio Oriente. Dove più spesso ha invece aperto dei varchi alla diplomazia americana, con l’Egitto, con i palestinesi, con l’Algeria, e poi con Gheddafi. Per non dire della Cina, un “riconoscimento” che Pietro Nenni al ministero degli Esteri preparò – così lo intendono i cinesi. L’affidabilità è stata massima anche nel caso difficile della guerra al Vietnam, che Moro difese.
Di più lo è diventata con Craxi. Che sembrò sfidare gli Stati Uniti di Reagan nel bombardamento di Tripoli e nell’hijacking della “Achille Lauro”, ma se ne era conquistata la stabile fiducia con gli euromissili. Una decisione, quella italiana di accettare gli euromissili Usa, che contribuì al crollo del sovietismo, vedendo il bluff dell’impossibile riarmo a oltranza. La lealtà fu rinnovata da D’Alema nella ex Jugoslavia, specie nella guerra alla Serbia di dieci anni fa, e in Libano. E da Berlusconi, ma senza reale opposizione, in Iraq, in Afghanistan e nei rapporti con la Russia. Sempre bilateralmente, senza aspettare le inesistenti posizioni europee. L’Iran potrebbe essere il nuovo più importante impegno italiano di scouting.
Gli Usa sono anche una sponda necessaria nella scelta europea, tanto obbligata quanto insoddisfacente. Non per nulla l’inaffidabilità italiana è creazione inglese e tedesca. Sempre ci sono problemi con questo o quel paese europeo con cui l’Italia è in teoria unita. Il caso Opel è solo uno dei tanti, anche se inverecondo, la scelta tedesca essendo stata dettata unicamente dal pregiudizio antitaliano. A fronte del nessun pregiudizio americano per la Chrysler, che pure impegna più capitali del Tesoro Usa che non la Opel – almeno dei finanziamenti che si conoscono, perché ce ne sono di surrettizi, anche questo è Germania.
Aspettando l’Iran
L’Italia è stata sempre alleato affidabile degli Usa, anche quando con Mattei e poi Fanfani sembrò attuare una diversa politica in Medio Oriente. Dove più spesso ha invece aperto dei varchi alla diplomazia americana, con l’Egitto, con i palestinesi, con l’Algeria, e poi con Gheddafi. Per non dire della Cina, un “riconoscimento” che Pietro Nenni al ministero degli Esteri preparò – così lo intendono i cinesi. L’affidabilità è stata massima anche nel caso difficile della guerra al Vietnam, che Moro difese.
Di più lo è diventata con Craxi. Che sembrò sfidare gli Stati Uniti di Reagan nel bombardamento di Tripoli e nell’hijacking della “Achille Lauro”, ma se ne era conquistata la stabile fiducia con gli euromissili. Una decisione, quella italiana di accettare gli euromissili Usa, che contribuì al crollo del sovietismo, vedendo il bluff dell’impossibile riarmo a oltranza. La lealtà fu rinnovata da D’Alema nella ex Jugoslavia, specie nella guerra alla Serbia di dieci anni fa, e in Libano. E da Berlusconi, ma senza reale opposizione, in Iraq, in Afghanistan e nei rapporti con la Russia. Sempre bilateralmente, senza aspettare le inesistenti posizioni europee. L’Iran potrebbe essere il nuovo più importante impegno italiano di scouting.
mercoledì 17 giugno 2009
La notte a mille euro, il "Corriere" abbatte la tariffa
Un articolo che si raccomanda alla storia del giornalismo è l’intervista del “Corriere della sera”, a firma di Fiorenza Sarzanini, con Patrizia D’Addario, una bella squillo di Bari. Almeno nella foto lusinghiera dello stesso “Corriere”. L’intervista s’intitola, vorremo immortalarla se ne avessimo i mezzi: “Incontri e candidatura\ecco la mia verità”. Terrà banco fino a martedì, ma a futura memoria potrete trovarla sempre qui:
http://www.corriere.it/politica/09_giugno_17/sarzanini_patrizia_daddario_220cce4c-5b03-11de-8305-00144f02aabc.shtml
La signorina ha chiamato per fare le sue rivelazioni. Ha chiamato il “Corriere” mica “Visto”. E il “Corriere” pronto le ha raccolte: una contorta vicenda di viaggi in aereo, con appuntamenti pagati mille euro, e amplessi con Berlusconi, registrati (al registratore) ma non consumati. Nemmeno una toccatina. Anzi, noiose conversazioni su case da ristrutturare. Sarzanini tenta di far dire alla gnocca che ha passato la notte con Berlusconi, ma lei che ne sa di più non abbocca: non dice di no ma non dice di sì. Si prepara per altre interviste, che è sicura di avere. Insomma, si assicura come tutti l’immortalità.
Sarzanini non è l’ultima arrivata, è la confidente delle Procure, e dei generali dei tanti servizi, l’Ufficio I, la Digos, i Ros, il Sismi. Qualcosa quindi c’è sotto – magari il “complotto” di cui parla Berlusconi. Non solo l’annuncio dell’inchiesta, per far rieleggere domenica l’incredibile sindaco democratico di Bari, tempestive sono anche le foto della signorina con Berlusconi. La quale assicura che ha registrato Berlusconi con apparecchiature sfuggite ai controlli di sicurezza. Insomma, è preparata. Senza contare che D'Alema sapeva tutto - non per nulla è sodale del nobilissimo compagno Zucconi Galli Fonseca eccetera (è una sola persona), ex capo della Cassazione. O forse dalla stessa Sarzanini, succede. E sa anche come vanno queste cose - non per nulla è amico stretto del compagno Clinton.
Il “Corriere della sera” omette anche di dire le cose più importanti: che la D’Addario a Bari è molto nota, che fa la professione, che fa parte della squadra di un industriale farmaceutico, e che con questo ha inguaiato la giunte regionale pugliese, di sinistra, l’assessore alla Sanità, prima di attaccare Berlusconi. Un raro esempio di giornalismo d’assalto, lo scandalo è molto ben montato, di ottima professionalità.
Lo scandalo è, neppure velatamente, una maniera per non parlare del referendum, che ben più di Bari avrebbe dovuto pesare al voto di domenica. Secondo il principio della ingovernabilità di cui Milano è la beneficiaria e l'ariete. Lo scandalo è contro Berlusconi, e contro chi potrebbe sostituirlo. Contro il governo, la possibilità di governare. Sarzanini non lo sa, lei è della giudiziaria, che ora è l’anticamera dei servizi e dei giudici, ma non è arte migliore di quando si esercitava negli angiporti delle questure. Chi ce l’ha mandata invece, tempestivo, preciso al minuto, sa che bisogna oscurare il referendum. Berlusconi, si sa, ci vorrà più di una vacca per farlo fuori. Ma il referendum, imponendo a Lor Signori un governo, questo non deve assolutamente passare: gli italiani non devono sapere che si vota domenica per poter ancora votare – votare produttivamente, con un effetto.
D’altra parte è certo che la squillo è stata candidata a Bari in una lista che si vuole vicina a Berlusconi. E che Berlusconi passa il suo tempo tra le vergini d’Italia, in questa o quella delle dodici ville di cui dispone, o palazzi che siano: si merita dunque questo e tutti gli altri scandali, uno che rompe i coglioni così. Senza contare che anche lui probabilmente sapeva, anzi senz'altro sapeva che la vergine avrebbe parlato, ci si può scommettere, il ricatto non è di oggi - anche questo a Bari si sapeva.
Ma una che chiede solo mille euro per la notte non ce la saremmo aspettata in un’intervista reverente e una pagina sul “Corriere”. È roba che scredita il giornale di fronte agli inserzionisti: valgono così poco i suoi spazi? In “Grande, grosso e… Verdone” la tariffa per la notte è stabilita in 10 mila euro.
Una eroina del Sud
Certo, a questo punto si giustifica la signorina: ridotta a mille euro a notte ha tutto il diritto di rilanciarsi. Con le interviste e con ogni altro sotterfugio. La questione ha anche un buon sapore di revanscismo meridionale. Una puttana di Bari che sfrutta Milano - il maggior giornale e il capo del governo - non si era ancora vista.
http://www.corriere.it/politica/09_giugno_17/sarzanini_patrizia_daddario_220cce4c-5b03-11de-8305-00144f02aabc.shtml
La signorina ha chiamato per fare le sue rivelazioni. Ha chiamato il “Corriere” mica “Visto”. E il “Corriere” pronto le ha raccolte: una contorta vicenda di viaggi in aereo, con appuntamenti pagati mille euro, e amplessi con Berlusconi, registrati (al registratore) ma non consumati. Nemmeno una toccatina. Anzi, noiose conversazioni su case da ristrutturare. Sarzanini tenta di far dire alla gnocca che ha passato la notte con Berlusconi, ma lei che ne sa di più non abbocca: non dice di no ma non dice di sì. Si prepara per altre interviste, che è sicura di avere. Insomma, si assicura come tutti l’immortalità.
Sarzanini non è l’ultima arrivata, è la confidente delle Procure, e dei generali dei tanti servizi, l’Ufficio I, la Digos, i Ros, il Sismi. Qualcosa quindi c’è sotto – magari il “complotto” di cui parla Berlusconi. Non solo l’annuncio dell’inchiesta, per far rieleggere domenica l’incredibile sindaco democratico di Bari, tempestive sono anche le foto della signorina con Berlusconi. La quale assicura che ha registrato Berlusconi con apparecchiature sfuggite ai controlli di sicurezza. Insomma, è preparata. Senza contare che D'Alema sapeva tutto - non per nulla è sodale del nobilissimo compagno Zucconi Galli Fonseca eccetera (è una sola persona), ex capo della Cassazione. O forse dalla stessa Sarzanini, succede. E sa anche come vanno queste cose - non per nulla è amico stretto del compagno Clinton.
Il “Corriere della sera” omette anche di dire le cose più importanti: che la D’Addario a Bari è molto nota, che fa la professione, che fa parte della squadra di un industriale farmaceutico, e che con questo ha inguaiato la giunte regionale pugliese, di sinistra, l’assessore alla Sanità, prima di attaccare Berlusconi. Un raro esempio di giornalismo d’assalto, lo scandalo è molto ben montato, di ottima professionalità.
Lo scandalo è, neppure velatamente, una maniera per non parlare del referendum, che ben più di Bari avrebbe dovuto pesare al voto di domenica. Secondo il principio della ingovernabilità di cui Milano è la beneficiaria e l'ariete. Lo scandalo è contro Berlusconi, e contro chi potrebbe sostituirlo. Contro il governo, la possibilità di governare. Sarzanini non lo sa, lei è della giudiziaria, che ora è l’anticamera dei servizi e dei giudici, ma non è arte migliore di quando si esercitava negli angiporti delle questure. Chi ce l’ha mandata invece, tempestivo, preciso al minuto, sa che bisogna oscurare il referendum. Berlusconi, si sa, ci vorrà più di una vacca per farlo fuori. Ma il referendum, imponendo a Lor Signori un governo, questo non deve assolutamente passare: gli italiani non devono sapere che si vota domenica per poter ancora votare – votare produttivamente, con un effetto.
D’altra parte è certo che la squillo è stata candidata a Bari in una lista che si vuole vicina a Berlusconi. E che Berlusconi passa il suo tempo tra le vergini d’Italia, in questa o quella delle dodici ville di cui dispone, o palazzi che siano: si merita dunque questo e tutti gli altri scandali, uno che rompe i coglioni così. Senza contare che anche lui probabilmente sapeva, anzi senz'altro sapeva che la vergine avrebbe parlato, ci si può scommettere, il ricatto non è di oggi - anche questo a Bari si sapeva.
Ma una che chiede solo mille euro per la notte non ce la saremmo aspettata in un’intervista reverente e una pagina sul “Corriere”. È roba che scredita il giornale di fronte agli inserzionisti: valgono così poco i suoi spazi? In “Grande, grosso e… Verdone” la tariffa per la notte è stabilita in 10 mila euro.
Una eroina del Sud
Certo, a questo punto si giustifica la signorina: ridotta a mille euro a notte ha tutto il diritto di rilanciarsi. Con le interviste e con ogni altro sotterfugio. La questione ha anche un buon sapore di revanscismo meridionale. Una puttana di Bari che sfrutta Milano - il maggior giornale e il capo del governo - non si era ancora vista.
Contro i giudici - e i giornali?
Non si saprebbe dare la misura dell’arroganza e dei privilegi della magistratura, l’unico ordinamento non defascistizzato, Livadiotti ci riesce. Non tanto per il profluvio di cifre e di scandali, già noti, quanto per il giusto piglio risentito. E più per essere parte del fronte (L’Espresso, Rcs) che assicura l’intoccabilità di questo scandalo. Questo libro e il suo autore sono importanti anche per quello che non dicono.
L’aneddotica è infinita sui giudici impuniti. Il giudice che fa intervenire al ristorante le forze dell’ordine (e le forze dell’ordine intervengono) perché il pesce non gli sembra fresco. Il giudice che le fa intervenire a scuola, al consiglio dei professori, perché gli sembra che vogliano dare a suo figlio la media del sette invece che dell’otto. Quello che mobilita i vigili urbani per trovargli “un alloggio decente” a basso prezzo d’affitto. O il giudice De Magistris, finalmente promosso alla sua agognata Napoli, dopo un lungo esilio a Catanzaro, a mo’ di punizione… O il giudice che nel 1999, dopo una lunga permanenza in Parlamento, tornato in Cassazione condanna l’esponente di un partito avverso. I casi sono talmente tanti che enumerarli, anche raccontarli, riesce stucchevole – Livadiotti ha aggiornato la casistica a metà aprile, ma già dovrebbe fare una riedizione: il mafioso del 41 bis liberato dal giudice a Palermo perché in depressione è un capolavoro. Ma bisognava dare i nomi. Loro li danno. E questo è un punto.
Ma il libro è importante per un altro aspetto. Dunque, la vera questione morale è la questione morale, di chi se ne è appropriato a propri fini, di carriera, di corporazione e perfino criminali. Ma c’è un ma: dove si colloca la stampa che denuncia-difende questo scandalo? Nell’azzeramento della politica, che è la vera colpa di questa italianissima questione morale? Questo è il secondo scandalo (o il primo: toglie efficacia all’opinione pubblica).
Forse per questo alcune cose mancano. Specie il processo mediatico, che ha sostituito gli assassinii politici, ma non è meno cruento, e sempre impunibile: un giudice può distruggere chi vuole con accuse false e fabbricate, tanto il processo si celebra dieci anni dopo che i giornali hanno emesso la condanna. Quando il finissimo presidente della Camera Fini impose il voto segreto sulla legge contro le intercettazioni e parte dell’opposizione votò con la maggioranza, la cosa fu solo registrata, in breve, dai notiziari. Mentre il ridicolo appello del sindacato dei magistrati all’Onu, come Livadiotti ricorda, ebbe le prime pagine, e non per dirlo ridicolo.
Non è una mancanza da poco, il processo politico è la forza di questa casta. Processi politici in quanto senza fondamento. Per fini anche scopertamente eversivi: il finto processo Unipol, per esempio, per allontanare Fazio dalla Banca d’Italia (lo aveva già fatto un giudice romano per conto di Andreotti, minacciando il governatore Baffi e arrestando il direttore generale della Banca d’Italia). O per coprire altri processi che non fanno. Il processo a Berlusconi per la Sme per non farlo a De Benedetti e Prodi. O quello degli ammanchi alla Rizzoli Corriere della sera, ben 1.300 miliardi di lire, incartato dopo una dozzina d’anni nella disattenzione, senza un solo atto istruttorio, perché la casa editrice e la Procura si proteggono, come nelle mafie.
Mancano anche cose che pure ci sono. Specialmente apprezzabile è in Livadiotti la denuncia del Csm per quello che è, il truogolo di tutte le infamie italiane. Ma bisogna anche dire che il Csm è stato protetto in tutte le sue manifestazioni, anche aberranti, da una lunga serie di vice-presidenti, fino a quello attuale, il senatore ineffabile Mancino, nonché da tutti i presidenti, fino al Ciampi amato. Tutti integerrimi, che si può dire di male di Ciampi?, e tuttavia il fumo del ricatto è forte. Allo stesso modo che nulla si può dire di Prodi, o di Veltroni, nei confronti della loro stella Di Pietro. Bisognerò entrare nelle attività di molte Procure e di alcuni Tribunali, che configurano una sorta di golpe permanente: la giustizia selettiva, specie negli affari milanesi, le moviole, i pentiti, le intercettazioni, il sofisma degli avvisi di reato imbattibile. Un filone pieno di storie vere e, purtroppo, vive.
Livadiotti, come Ferrarella, Rizzo-Stella e altri critici-difensori, si merita il dubbio della personale onestà. Non fosse che, nel fascismo, nessuno è mai fascista, tutti dicono le barzellette.
Stefano Livadiotti, Magistrati, l’ultracasta, Bompiani, pp. 261, € 17
L’aneddotica è infinita sui giudici impuniti. Il giudice che fa intervenire al ristorante le forze dell’ordine (e le forze dell’ordine intervengono) perché il pesce non gli sembra fresco. Il giudice che le fa intervenire a scuola, al consiglio dei professori, perché gli sembra che vogliano dare a suo figlio la media del sette invece che dell’otto. Quello che mobilita i vigili urbani per trovargli “un alloggio decente” a basso prezzo d’affitto. O il giudice De Magistris, finalmente promosso alla sua agognata Napoli, dopo un lungo esilio a Catanzaro, a mo’ di punizione… O il giudice che nel 1999, dopo una lunga permanenza in Parlamento, tornato in Cassazione condanna l’esponente di un partito avverso. I casi sono talmente tanti che enumerarli, anche raccontarli, riesce stucchevole – Livadiotti ha aggiornato la casistica a metà aprile, ma già dovrebbe fare una riedizione: il mafioso del 41 bis liberato dal giudice a Palermo perché in depressione è un capolavoro. Ma bisognava dare i nomi. Loro li danno. E questo è un punto.
Ma il libro è importante per un altro aspetto. Dunque, la vera questione morale è la questione morale, di chi se ne è appropriato a propri fini, di carriera, di corporazione e perfino criminali. Ma c’è un ma: dove si colloca la stampa che denuncia-difende questo scandalo? Nell’azzeramento della politica, che è la vera colpa di questa italianissima questione morale? Questo è il secondo scandalo (o il primo: toglie efficacia all’opinione pubblica).
Forse per questo alcune cose mancano. Specie il processo mediatico, che ha sostituito gli assassinii politici, ma non è meno cruento, e sempre impunibile: un giudice può distruggere chi vuole con accuse false e fabbricate, tanto il processo si celebra dieci anni dopo che i giornali hanno emesso la condanna. Quando il finissimo presidente della Camera Fini impose il voto segreto sulla legge contro le intercettazioni e parte dell’opposizione votò con la maggioranza, la cosa fu solo registrata, in breve, dai notiziari. Mentre il ridicolo appello del sindacato dei magistrati all’Onu, come Livadiotti ricorda, ebbe le prime pagine, e non per dirlo ridicolo.
Non è una mancanza da poco, il processo politico è la forza di questa casta. Processi politici in quanto senza fondamento. Per fini anche scopertamente eversivi: il finto processo Unipol, per esempio, per allontanare Fazio dalla Banca d’Italia (lo aveva già fatto un giudice romano per conto di Andreotti, minacciando il governatore Baffi e arrestando il direttore generale della Banca d’Italia). O per coprire altri processi che non fanno. Il processo a Berlusconi per la Sme per non farlo a De Benedetti e Prodi. O quello degli ammanchi alla Rizzoli Corriere della sera, ben 1.300 miliardi di lire, incartato dopo una dozzina d’anni nella disattenzione, senza un solo atto istruttorio, perché la casa editrice e la Procura si proteggono, come nelle mafie.
Mancano anche cose che pure ci sono. Specialmente apprezzabile è in Livadiotti la denuncia del Csm per quello che è, il truogolo di tutte le infamie italiane. Ma bisogna anche dire che il Csm è stato protetto in tutte le sue manifestazioni, anche aberranti, da una lunga serie di vice-presidenti, fino a quello attuale, il senatore ineffabile Mancino, nonché da tutti i presidenti, fino al Ciampi amato. Tutti integerrimi, che si può dire di male di Ciampi?, e tuttavia il fumo del ricatto è forte. Allo stesso modo che nulla si può dire di Prodi, o di Veltroni, nei confronti della loro stella Di Pietro. Bisognerò entrare nelle attività di molte Procure e di alcuni Tribunali, che configurano una sorta di golpe permanente: la giustizia selettiva, specie negli affari milanesi, le moviole, i pentiti, le intercettazioni, il sofisma degli avvisi di reato imbattibile. Un filone pieno di storie vere e, purtroppo, vive.
Livadiotti, come Ferrarella, Rizzo-Stella e altri critici-difensori, si merita il dubbio della personale onestà. Non fosse che, nel fascismo, nessuno è mai fascista, tutti dicono le barzellette.
Stefano Livadiotti, Magistrati, l’ultracasta, Bompiani, pp. 261, € 17
Il giallo è di poca virtù
René Brabazon Raymond fu autore di parodie – lo scrittore che è lettore, autore di libri sui libri. Esercizio godibile e in grande pregio a Parigi (e infatti “Hadley Chase”, un inglese che scriveva dell’America, si riteneva uno scrittore parigino), ma in America gli valse più cause per plagio, di cui una persa malamente contro James Cain per un remake. Un autore centrale dunque per la storia del plagio, possibile solo in America, paese della proprietà, dove gli avvocati peraltro non costano, quelli che si pagano a percentuale. Ma di poca virtù per gli amanti del pastiche.
Questo “Eva”, che è il romanzo di nulla, è nulla. È la storia di uno che s’innamora di una puttana. Non è un giallo, ed è poco nero. Ma è un capolavoro di come si scrivono male i gialli, sciatti, inverosimili. In un’America rituale, senza corpo. Con battute del tipo: “Doveva essere sul lato sbagliato dei quaranta”. In questa America inventata ci sono molte donne di servizio, che invece in America non c’erano, solo le mamies al Sud. E uno che inciampa “viene giù come un cornicione dell’Empire State Building”: ma l'Ebs ha cornicioni?
James Hadley Chase, Eva
Questo “Eva”, che è il romanzo di nulla, è nulla. È la storia di uno che s’innamora di una puttana. Non è un giallo, ed è poco nero. Ma è un capolavoro di come si scrivono male i gialli, sciatti, inverosimili. In un’America rituale, senza corpo. Con battute del tipo: “Doveva essere sul lato sbagliato dei quaranta”. In questa America inventata ci sono molte donne di servizio, che invece in America non c’erano, solo le mamies al Sud. E uno che inciampa “viene giù come un cornicione dell’Empire State Building”: ma l'Ebs ha cornicioni?
James Hadley Chase, Eva
lunedì 15 giugno 2009
Obama ha spiazzato gli ayatollah
L’effetto maggiore il filoislamismo di Obama l’ha avuto a sorpresa in Iran: la protesta di piazza del dopo elezioni nasce dalla consapevolezza, dentro e fuori il regime, che una sponda internazionale ora è possibile. Questa sponda non poteva essere l’Europa, che non esiste, solo gli Usa. E Obama al Cairo ha reso questo sbocco possibile, liberando gli Usa dalla interdizione "satanica".
La maggioranza degli ayatollah non è più con Khamenei, il vero capo dello Stato, e meno che meno col suo braccio destro Ahmadinejad, che è solo un capo del governo. Più che l’opposizione al regime, limitata, pesa il bisogno di rispettabilità internazionale all’interno dello stesso regime, fra gli ayatollah e il mondo mercantile che se ne fa scudo, dopo trent’anni di khomeinismo contro tutti.
Gli anti regime sono solo a Teheran, tra gli intellettuali, attorno all’università. Mentre i rischi di bonapartismo sono stati azzerati frantumando le forze armate e le forze di polizia. La parte prevalente del regime è però stanca dell’isolazionismo, e questo pesa. Esperienze di apertura tentate dalle presidenze moderate di Rafsanjani e Mussavì erano fallite: Teheran aveva puntato sull’Europa e questo spiega tutto. Obama ha ora riaperto l’opzione americana, che si è dimostrata l’unica che conta.
Non c’è naturalmente Obama dietro le proteste, né come bandiera. Ma aver dichiarato gli Usa amici dell’islam apre una serie di vantaggiose prospettive su tutte le questioni che impegnano l’Iran: la fine dell’isolamento economico, gli investimenti per il gas, l’Afghanistan, il Libano, la Palestina, e il ruolo dominante nel Golfo e nel Vicino Oriente.
La maggioranza degli ayatollah non è più con Khamenei, il vero capo dello Stato, e meno che meno col suo braccio destro Ahmadinejad, che è solo un capo del governo. Più che l’opposizione al regime, limitata, pesa il bisogno di rispettabilità internazionale all’interno dello stesso regime, fra gli ayatollah e il mondo mercantile che se ne fa scudo, dopo trent’anni di khomeinismo contro tutti.
Gli anti regime sono solo a Teheran, tra gli intellettuali, attorno all’università. Mentre i rischi di bonapartismo sono stati azzerati frantumando le forze armate e le forze di polizia. La parte prevalente del regime è però stanca dell’isolazionismo, e questo pesa. Esperienze di apertura tentate dalle presidenze moderate di Rafsanjani e Mussavì erano fallite: Teheran aveva puntato sull’Europa e questo spiega tutto. Obama ha ora riaperto l’opzione americana, che si è dimostrata l’unica che conta.
Non c’è naturalmente Obama dietro le proteste, né come bandiera. Ma aver dichiarato gli Usa amici dell’islam apre una serie di vantaggiose prospettive su tutte le questioni che impegnano l’Iran: la fine dell’isolamento economico, gli investimenti per il gas, l’Afghanistan, il Libano, la Palestina, e il ruolo dominante nel Golfo e nel Vicino Oriente.
Ribaltoni D'Alema
D’Alema si fa intervistare da Lucia Annunziata alla Rai e chiede che “l’opposizione sia nella pienezza delle sue funzioni”. Zoppicante, ma rivelatore: l’opposizione vuole un capo che sia all’altezza di Berlusconi, e questo sono io. Poiché nessuno lo candida, D’Alema si candida in proprio, stanco di far finta di girare attorno al potere: sarà candidato dell’ultima ora alle primarie, se ci saranno primarie, ma il congresso sarà il suo congresso. Già specialista di ribaltoni, si ripropone, e questo è il primo.
Nel Pd è l’ora di D’Alema. Che impone la sua presenza su ogni argomento. Rocciosa al confronto col velleitarismo e la frantumazione degli altri (piccoli) protagonisti. Anche lui sta al menu politico ogni giorno vergato da Berlusconi, come ogni altro nel Pd. Ma gli argomenti di Berlusconi usa per squinternare il poco che è rimasto del partito in cui s’è ritrovato senza granché volerlo: da Gheddafi al “complotto”, e al voto segreto sulla legge contro le intercettazioni – non manca nel Pd chi lo giura, a conferma del suo grado di dissolvimento.
Lasciare intendere che un ennesimo ribaltone sia alle porte anche nel governo - e questo è il secondo - dopo una sconfitta elettorale, non è un errore, è solo ricordare, poiché nessun altro lo fa, il suo capolavoro politico, di D’Alema segretario del Pds. Che di ribaltoni ne fece due, oltre alle elezioni vittoriose del 1996. Oggi come allora, altro ricorso, D’Alema si riaccredita protagonista insieme con il dioscuro televisivo Fini. E non nasconde, anzi fa sapere, che ha ottime fonti nei servizi segreti, naturalmente vigilanti per la democrazia, alla Guardia di finanza e altrove.
Nel Pd è l’ora di D’Alema. Che impone la sua presenza su ogni argomento. Rocciosa al confronto col velleitarismo e la frantumazione degli altri (piccoli) protagonisti. Anche lui sta al menu politico ogni giorno vergato da Berlusconi, come ogni altro nel Pd. Ma gli argomenti di Berlusconi usa per squinternare il poco che è rimasto del partito in cui s’è ritrovato senza granché volerlo: da Gheddafi al “complotto”, e al voto segreto sulla legge contro le intercettazioni – non manca nel Pd chi lo giura, a conferma del suo grado di dissolvimento.
Lasciare intendere che un ennesimo ribaltone sia alle porte anche nel governo - e questo è il secondo - dopo una sconfitta elettorale, non è un errore, è solo ricordare, poiché nessun altro lo fa, il suo capolavoro politico, di D’Alema segretario del Pds. Che di ribaltoni ne fece due, oltre alle elezioni vittoriose del 1996. Oggi come allora, altro ricorso, D’Alema si riaccredita protagonista insieme con il dioscuro televisivo Fini. E non nasconde, anzi fa sapere, che ha ottime fonti nei servizi segreti, naturalmente vigilanti per la democrazia, alla Guardia di finanza e altrove.
Donna Lombarda in vetrina a Macherio
La moglie di Berlusconi scrive una lettera avvocatesca: sono sempre stata tutta marito e figli. Avvocatesca nel senso che predispone le batterie per una separazione per colpa. La separazione è per ora consensuale, ma Berlusconi potrebbe far valere a suo vantaggio nella divisione dei beni il pregiudizio ostile (ha già lamentato: “Mi hanno fatto perdere voti Kakà e mia moglie”), e la moglie si premunisce. Milano invece ne fa un monumento. Il “Corriere della sera”, cui la missiva è stata indirizzata, la pubblica in prima pagina di spalla, con firma in grassetto e foto lusinghiera, senza commento. “Repubblica” non se ne dà pace. Vittorio Feltri ci fa l'apertura con commento del suo “Libero”. Si elaborano ipotesi. Del tipo: perché, dopo avere confidato per anni con “Repubblica”, nemica dichiarata di Suo Marito, ora la Signora confidi con Rcs, nemico occulto. E altre sottili variazioni. Si dovrebbe arguire che il filone della Medea di Macherio, o più propriamente della Donna Lombarda della romanza, sia popolare. Ma forse questo spiega perché i giornali perdano così tante copie: la storia vera è quella della moglie di un Berlusconi che vuole la perdita del marito dacché il marito ha deciso di non vendere a Murdoch, costituendo una bella rendita ai tre figli della stessa moglie, e anzi ha introdotto i figli in azienda, ma della prima moglie, tutto il tragico è solo avidità.
In “La mostra delle atrocità”, il durissimo libro sulla modernità scritto negli anni Sessanta che molti considerano un capolavoro, Ballard fa il caso del potere sessuale – “pornografico” – dell’esposizione dell'orrendo: incidenti mortali, bombe atomiche, il napalm, l’assassinio politico, e da ultimo, nell’aggiornamento di vent’anni fa, la chirurgia estetica. Temi come “Il lifting della principessa Margaret” e “La plastica mammaria riduttiva di Mae West”. Delle truculente relazioni tecniche che accompagnano gli interventi - anche per sfuggire alle inevitabili cause per risarcimento danni.- Ballard spiega in nota come diventino "fascinazione" se il paziente è celebre. Per le celebrità i dettagli più aridi o lutulenti della loro vita privata, o anche i più ordinari, “sembrano collocarsi dietro la porta di un bagno già aperta, che il nostro immaginario può spalancare quando vuole”. Forse è questo il fascino malinconico dell’arida (avvocatesca) vicenda di Macherio, quello della donne in vetrina.
In “La mostra delle atrocità”, il durissimo libro sulla modernità scritto negli anni Sessanta che molti considerano un capolavoro, Ballard fa il caso del potere sessuale – “pornografico” – dell’esposizione dell'orrendo: incidenti mortali, bombe atomiche, il napalm, l’assassinio politico, e da ultimo, nell’aggiornamento di vent’anni fa, la chirurgia estetica. Temi come “Il lifting della principessa Margaret” e “La plastica mammaria riduttiva di Mae West”. Delle truculente relazioni tecniche che accompagnano gli interventi - anche per sfuggire alle inevitabili cause per risarcimento danni.- Ballard spiega in nota come diventino "fascinazione" se il paziente è celebre. Per le celebrità i dettagli più aridi o lutulenti della loro vita privata, o anche i più ordinari, “sembrano collocarsi dietro la porta di un bagno già aperta, che il nostro immaginario può spalancare quando vuole”. Forse è questo il fascino malinconico dell’arida (avvocatesca) vicenda di Macherio, quello della donne in vetrina.