Profitti come prima, a Intesa a Unicredit comprese, e laute provvigioni: è tutta qui la ripresa dell’economia di cui i banchieri, compreso Mario Draghi, il governatore della Banca d’Italia, si compiacciono. A che prezzo, e a che livelli di attività, Passera & co. non sono tenuti a dirlo, e non lo dicono. Ma la situazione non è cambiata da fine giugno, valgono sempre purtroppo le considerazioni allora svolta (http://www.antiit.com/2009/06/segni-di-ripresa-di-che.html).
La crisi è solo passata dal risparmio e le banche alle finanze pubbliche, ed è quindi più grave. Tanto più che gli stessi soggetti "salvati" avranno interesse a speculare sui debiti degli Stati: la finanza resta e resterà il motore del sistema e la speculazione ne è parte costitutiva, l'azzardo è il suo giudizio di Dio. Ci vorranno anni prima di tornare ai livelli ante crisi, ripresa è una parola vuota.
Il debito pubblico è cresciuto in alcuni paesi industriali per rifinanziare le banche. In tutti crescerà per gare gli interessi sul debito, interessi cresciuti con la crisi. Per l'Italia, per esempio, che ogni anno deve finanziare sui 500 miliardi di debito, le nuove emissioni vengono a costare sui 7-8 miliardi in più, qest'anno e anche l'anno prossimo. In alcuni è cresciuto troppo: Usa, Gran Bretagna, Germania. La ripresa, di conseguenza, quando verrà, sarà lenta e difficile proprio per l’eccessivo peso del debito in rapporto al pil. Nei maggiori paesi industriali, Usa, Giappone, Germania, la disoccupazione è ai record storici, e non ci sono segnali di un suo rapido riassorbimento. La produzione ristagna in quasi tutti i paesi occidentali, presa nel circolo vizioso del calo della domanda, pubblica a privata.
La liquidità straordinaria, iniettata dai governi e dalle banche centrali, è stata indirizzata, non c'è chi non lo veda, verso impieghi a loro volta liquidi, verso i vari listini finanziari cioè. Le banche hanno avuto buon gioco a giocare sui listini ai minimi dal dopoguerra - Unicredit è cresciuta in poche settimane di sette volte. Mentre irrigidivano le condizioni del credito alle attività produttive. Gli indici dell'inflazione in calo sono una conferma quasi notarile della sterilizzazione della liquidità: una catastrofe.
E ora sotto tiro il debito pubblico
È finita del resto, forse, la paura per i mutui non garantiti, se è vero che le banche sopravvissute sono tornate in bonis, ma non è finita la crisi. Le stesse banche che alimentano l’euforia dello scampato pericolo lo dicono anche, attraverso i loro araldi, il “Financial Times” e l’“Economist” nella City e il “Wall Street Journal”: adesso bisogna fare pulizia dei Pigs, i paesi troppo indebitati (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna – in realtà la I sta per l’Italia: cane non mangia cane, l’Irlanda non è sotto tiro). Con lo stesso meccanismo usato per i mutui non garantiti: gonfiarli, guadagnandoci, e guadagnarci sgonfiandoli. Le stesse banche che hanno favorito e finanziato l’indebitamento dei Pigs, tutti paesi europei, ora puntano a indebolire i loro protetti, per indebolire l’euro. Il premio per l’abbattimento dell’euro sarebbe enorme, tanto quanto per i paesi europei lo sconquasso che subiranno.
Le agenzie di rating confermano il progetto, ponendo sotto revisione, cioè rivedendo al ribasso, il rating del debito dei paesi europei più indebitati. Ogni economista sa che il debito non è mai troppo e non è mai troppo poco. La consistenza e la qualità si valutano in rapporto alla capacità di ogni economia di pagarne i costi. Ma questa capacità è oggetto di valutazione soggettiva, e su questa breccia irrompono le agenzie di rating, tutte legate ai maggiori investitori internazionali, peprsone singole e fondi. È così che il debito giapponese al 200 per cento del pil può essere ritenuto sostenibile, o quello americano al 150 per cento del pil, mentre quello italiano, attorno al 115 per cento del pil, può, se interessa a qualcuno dei soci delle agenzie, essere declassato e “venduto” – avvenne così nella crisi della lira nel 1992.
Quanto l’attacco all’euro partirà ancora non è deciso. Ma sarà più presto che tardi, forse questione di settimane. Il munizionamento è pronto. Dopo l’intenso fuoco di sbarramento operato da oltre un anno da “Ft”, “Economist” e “Wsj”. Non senza ragioni, naturalmente: ogni buona speculazione s'innesta su pilastri solidi. E il pilastro ora sembra essere la stessa impudenza dei banchieri centrali. Che più di tutti sanno dove la liquidità è stata indirizzata.
Pazienza per Bernanke, il capo dela Federal Riserve era in attesa della riconferma. Ma Draghi va oltre il tollerabile. Il governatore si giustifica col dovere di non creare sfiducia, che però non ha sentito quando alimentava il panico, suonando ogni mese la campana dell’indebitamento, e sibillando il crollo dei consumi e della produzione. Sente questo dovere ora che le banche, per prima la sua Goldman Sachs, tornano ai profitti e ai benefit di prima.
Bisogna dubitare della ripresa per questo stesso fatto: la sicurezza di impunità che dilaga nei banchieri. I profitti delle banche si fanno sui margini: interessi e commissioni. Che con la scusa della crisi sono state ovunque raddoppiate. Col benestare delle varie autorità di controllo, i Draghi. Non si rileva in nessun posto una ripresa degli impieghi, che al contrario languono. Né sarà marginale o indifferente l'attacco all'euro preannunciato.
sabato 29 agosto 2009
Secondi pensieri (31)
zeulig
Curiosità - È stupida (non è profonda), ma tiene compagnia. È socievole.
Aiuta, bisogna sempre cominciare qualcosa di nuovo.
Democrazia – Forse è una dottrina senza fondamento. È un raffinamento dello spirito – proprio così, alla Crébillon fils, come la galanteria, per quanto oggi sembri inverosimile, lo era a quei tempi. Si prenda il democraticismo (egualitarismo) intellettuale. È snob, superficiale, comodo, ipocrita, pudicamente perverso, perfino opportunista, libertino incoerente. Anche nella passione. È visionoe, forse turpe. Allora, la democrazia non dev’essere intellettuale? Non teorizzata ma praticata? Deve venire dai fatti, dalle viscere? Non è mai successo: la gente si accomoda al peggio, ci sguazza. L’uguaglianza è solo una dottrina, non innocente.
L’uguaglianza presuppone l’individualismo. Non come dottrina, come prassi consolidata, robusta. Non come causa, come fattore coesivo. Può aversi in una società libera, realizzata, matura, la sola che possa cominciare a pensare ai beni collettivi. L’ugualitarismo sovietico è stato un guscio vuoto e lascia tante macerie perché inculcava l’odio dell’individuo, il peccato.
Dialettica - È l’indeterminato delle filosofie orientali. È cabbala: dal due l’uno etico. È anche l’atto della riproduzione.
Divenire – Tutto scorre da dove a dove, da nessun inizio a nessuna fine, dal nulla al nulla, significa anche: qui siamo e qui restiamo. Segnali d’aria, nella macchina del vento – banderuole?
L’essere certo è divenire, ma non per questo è (più) consistente. Non è neppure tanto logico. Bisogna anche intendersi sul nulla, se nulla viene dal nulla, come dice Lucrezio, e nulla vi finisce, come dice la chimica. Che è ben detto, ma insensato: tutta la letteratura sul nulla è aria.
Dio – Forse vuol essere normale, sarà per questo assente. Ha tentato con la creazione, non gli è venuta bene, e se ne sta tranquillo, per i fatti suoi.
Nietzsche l’ha detto chiaro nel”Crepuscolo degli dei”: “Non ci sbarazziamo di Dio perché crediamo ancora nella grammatica”. Il Dio che è morto è quello della logica.
È “quella cosa che si chiama Dio” di san Tommaso.
Elementi – Le quattro sostanze della fisica antica, e della musica, ci sono. Hanno statuto di forze della natura nella fisica contemporanea: gravità, elettromagnetismo, forza nucleare forte, forza nucleare debole.
Entelechia - È la qualità della cosa nel senso del limite, il destino avverso – altrimenti la cosa è espansiva, innovativa. Uno è quello che è in negativo, altrimenti si trasforma. Chi è nervoso non fa differenza fra un mal di testa e un cancro, un pettegolezzo e una citazione in tribunale, uno scherzo e colpo di cannone. Chi ha paura di tutto non distingue un topo da un’atomica. Chi ama piangere piangerà tutte le gioie della sua vita. Chi è pacifico non lo scuoterà la guerra.
Ognuno nasce col destino – il carattere. Con i limiti dell’imprinting, la storia, i linguaggi, la fisiologia. Ma la razionalità, il cambiamento in corsa, è eccezionale, è vero.
Erotismo - È un linguaggio naturale, il linguaggio del silenzio quanto nessun altro. La parola vi entra per il suono, non per il significato: “Ti amo” è un concetto banale. La pulsione è un gergo naturale, non storico.
Esilio – È la condizione normale: movimento, migrazione, sradicamento. La stabilità è valore massimo perché è qualcosa che si perduto, da cui i riflessi condizionati tuttavia fuggono,, per qualcos’altro ce forse è un miraggio ma è più appetibile perché è promesso di diverso. Contro venti e tempeste, una migrazione ininterrotta si affolla implacabile per i sentieri del mondo. È una migrazione volontaria. Metà dell’Italia del Nord vent’anni fa era nata in un altro luogo.
Si fugge tuttavia dal “mismanagement and grief” di Brodskij, dal peggio al meglio. Gli emigranti come gli esiliati. Non si va dal meglio al peggio, da Roma al mar Nero.
Filosofia – Procede per verbi infiniti, perfino sostantivizzati, specie la filosofia tedesca. Quindi per indeterminativi. Quando li complica in phrasal verbs va per fantasmi.
È poesia, legnosa, inelegante? Plutarco da tempo lo dice: “Principio della filosofia èla ricerca, e principio della ricerca sono lo stupore e il dubbio”.
Libertà – La zingarella che abbindola la vecchietta, il borsaiolo egiziano dalla faccia impassibilmente tosta, lo scippatore inespressivo, uno penserebbe ai destini perduti. Ma non c’è sfruttamento, né reale bisogno, mentre c’è l’uso, se non il piacere dell’abiezione, nell’abilità dell’azione. Come per alcuni c’è il piacere della violenza. La felicità, che fonda il progresso, e presuppone la giustizia, che a sua volta presuppone i “valori” (il bello e il buono), è esito psicologico, mentre la violenza è istintuale, e il fanatismo (pregiudizio) tribale. La libertà è una scelta – un problema di libertà. “Puttana libertà” la dice Berni nelle “Rime”.
La libertà si definisce solo socialmente, con la libertà degli altri. La legge che entra nei diritti soggettivi, come modernamente usa (suicidio, o eutanasia, droga, terrorismo intellettuale) ha questo limite.
Lingua – Che parentela ha con il sesso? La sperimentazione linguistica si eccita con i turbamenti erotici: Joyce, Proust, Céline, Breton. O compensa il sesso: Sylvia Plath, Virginia Woolf.
Normalità – È connessa al numero, anzi è solo statistica. Normali sono anche le devianze, cioè la contraddizione, nel senso della Varka di Cechov (“Voglia di dormire”), la bambinaia che strangola il bambino nella culla per poter dormire: ingordigia, masochismo, violenza. L’equilibrio e la forza di conservazione, sempre necessari alla propagazione della specie? Sono forse dei processi chimici – ora disponibili in farmacia su ricetta della Asl.
Politica – Prolunga la gioventù, la fase della vita dai molti progetti e dalle poche o nulle responsabilità, e per questo è ambita e popolare. Altre attività, meno selettive e faticose e di maggior successo, economico e anche sociale, l’avvocatura, la medicina, l’ingegneria, implicano comunque delle responsabilità anche gli inizi. La politica è come l’imprenditoria: pur assorbendo tutto il tempo e l’attenzione, è accrescitiva e non responsabile, o poco in rapporto all’illimitatezza del progetto.
C’è un’età della vita, connotata dal fare più che dagli anni, in cui si progetta: ci si proietta liberamente, e con relativa irresponsabilità, nell’immaginario, la fantasia, la creatività. E un’età, che può anche cominciare presto, in cui la responsabilità prevale, e quindi l’ananke: la regolarità, la continuità, la prudenza.
Razionalità - È un processo, non un fatto: da ciò che è percepito in modo chiuso (ostile, distruttivo) a ciò che è percepito in modo chiaro (nelle conclusioni o anche soltanto nell’analisi). È un modo. Heidegger, “Oltre il limite”, 11, ne parla come di un metro, una misura.
Statisticamente è la follia – un’anomalia l’anormalità.
C’è solo in Occidente, ma l’Occidente è piccolo, e nella sua storia la razionalità ha uno spazio ridotto, in paragone con l’esoterismo, il masochismo, la numerologia, l’alchimia, lo sciamanesimo, l’astrologia, la religione, eccetera.
La crisi della ragione è la crisi della politica. Della razionalità ridotta a tecnica servile, nella dottrina (Diamat), il potere (burocrazia, totalitarismo), desiderio (propaganda e consenso).
Realtà – Una sensibile lastra fotografica “vede” più dell’occhio umano, un rilevatore di ultrasuoni “sente” di più.
Tempo – La stazionarietà è impossibile, impensabile anche. Perché l’essere è il divenire, certo. Ma si sa che è una misura, di che?
Utopia – È la certezza, non il sogno, di una cosa.
zeulig@antiit.eu
Curiosità - È stupida (non è profonda), ma tiene compagnia. È socievole.
Aiuta, bisogna sempre cominciare qualcosa di nuovo.
Democrazia – Forse è una dottrina senza fondamento. È un raffinamento dello spirito – proprio così, alla Crébillon fils, come la galanteria, per quanto oggi sembri inverosimile, lo era a quei tempi. Si prenda il democraticismo (egualitarismo) intellettuale. È snob, superficiale, comodo, ipocrita, pudicamente perverso, perfino opportunista, libertino incoerente. Anche nella passione. È visionoe, forse turpe. Allora, la democrazia non dev’essere intellettuale? Non teorizzata ma praticata? Deve venire dai fatti, dalle viscere? Non è mai successo: la gente si accomoda al peggio, ci sguazza. L’uguaglianza è solo una dottrina, non innocente.
L’uguaglianza presuppone l’individualismo. Non come dottrina, come prassi consolidata, robusta. Non come causa, come fattore coesivo. Può aversi in una società libera, realizzata, matura, la sola che possa cominciare a pensare ai beni collettivi. L’ugualitarismo sovietico è stato un guscio vuoto e lascia tante macerie perché inculcava l’odio dell’individuo, il peccato.
Dialettica - È l’indeterminato delle filosofie orientali. È cabbala: dal due l’uno etico. È anche l’atto della riproduzione.
Divenire – Tutto scorre da dove a dove, da nessun inizio a nessuna fine, dal nulla al nulla, significa anche: qui siamo e qui restiamo. Segnali d’aria, nella macchina del vento – banderuole?
L’essere certo è divenire, ma non per questo è (più) consistente. Non è neppure tanto logico. Bisogna anche intendersi sul nulla, se nulla viene dal nulla, come dice Lucrezio, e nulla vi finisce, come dice la chimica. Che è ben detto, ma insensato: tutta la letteratura sul nulla è aria.
Dio – Forse vuol essere normale, sarà per questo assente. Ha tentato con la creazione, non gli è venuta bene, e se ne sta tranquillo, per i fatti suoi.
Nietzsche l’ha detto chiaro nel”Crepuscolo degli dei”: “Non ci sbarazziamo di Dio perché crediamo ancora nella grammatica”. Il Dio che è morto è quello della logica.
È “quella cosa che si chiama Dio” di san Tommaso.
Elementi – Le quattro sostanze della fisica antica, e della musica, ci sono. Hanno statuto di forze della natura nella fisica contemporanea: gravità, elettromagnetismo, forza nucleare forte, forza nucleare debole.
Entelechia - È la qualità della cosa nel senso del limite, il destino avverso – altrimenti la cosa è espansiva, innovativa. Uno è quello che è in negativo, altrimenti si trasforma. Chi è nervoso non fa differenza fra un mal di testa e un cancro, un pettegolezzo e una citazione in tribunale, uno scherzo e colpo di cannone. Chi ha paura di tutto non distingue un topo da un’atomica. Chi ama piangere piangerà tutte le gioie della sua vita. Chi è pacifico non lo scuoterà la guerra.
Ognuno nasce col destino – il carattere. Con i limiti dell’imprinting, la storia, i linguaggi, la fisiologia. Ma la razionalità, il cambiamento in corsa, è eccezionale, è vero.
Erotismo - È un linguaggio naturale, il linguaggio del silenzio quanto nessun altro. La parola vi entra per il suono, non per il significato: “Ti amo” è un concetto banale. La pulsione è un gergo naturale, non storico.
Esilio – È la condizione normale: movimento, migrazione, sradicamento. La stabilità è valore massimo perché è qualcosa che si perduto, da cui i riflessi condizionati tuttavia fuggono,, per qualcos’altro ce forse è un miraggio ma è più appetibile perché è promesso di diverso. Contro venti e tempeste, una migrazione ininterrotta si affolla implacabile per i sentieri del mondo. È una migrazione volontaria. Metà dell’Italia del Nord vent’anni fa era nata in un altro luogo.
Si fugge tuttavia dal “mismanagement and grief” di Brodskij, dal peggio al meglio. Gli emigranti come gli esiliati. Non si va dal meglio al peggio, da Roma al mar Nero.
Filosofia – Procede per verbi infiniti, perfino sostantivizzati, specie la filosofia tedesca. Quindi per indeterminativi. Quando li complica in phrasal verbs va per fantasmi.
È poesia, legnosa, inelegante? Plutarco da tempo lo dice: “Principio della filosofia èla ricerca, e principio della ricerca sono lo stupore e il dubbio”.
Libertà – La zingarella che abbindola la vecchietta, il borsaiolo egiziano dalla faccia impassibilmente tosta, lo scippatore inespressivo, uno penserebbe ai destini perduti. Ma non c’è sfruttamento, né reale bisogno, mentre c’è l’uso, se non il piacere dell’abiezione, nell’abilità dell’azione. Come per alcuni c’è il piacere della violenza. La felicità, che fonda il progresso, e presuppone la giustizia, che a sua volta presuppone i “valori” (il bello e il buono), è esito psicologico, mentre la violenza è istintuale, e il fanatismo (pregiudizio) tribale. La libertà è una scelta – un problema di libertà. “Puttana libertà” la dice Berni nelle “Rime”.
La libertà si definisce solo socialmente, con la libertà degli altri. La legge che entra nei diritti soggettivi, come modernamente usa (suicidio, o eutanasia, droga, terrorismo intellettuale) ha questo limite.
Lingua – Che parentela ha con il sesso? La sperimentazione linguistica si eccita con i turbamenti erotici: Joyce, Proust, Céline, Breton. O compensa il sesso: Sylvia Plath, Virginia Woolf.
Normalità – È connessa al numero, anzi è solo statistica. Normali sono anche le devianze, cioè la contraddizione, nel senso della Varka di Cechov (“Voglia di dormire”), la bambinaia che strangola il bambino nella culla per poter dormire: ingordigia, masochismo, violenza. L’equilibrio e la forza di conservazione, sempre necessari alla propagazione della specie? Sono forse dei processi chimici – ora disponibili in farmacia su ricetta della Asl.
Politica – Prolunga la gioventù, la fase della vita dai molti progetti e dalle poche o nulle responsabilità, e per questo è ambita e popolare. Altre attività, meno selettive e faticose e di maggior successo, economico e anche sociale, l’avvocatura, la medicina, l’ingegneria, implicano comunque delle responsabilità anche gli inizi. La politica è come l’imprenditoria: pur assorbendo tutto il tempo e l’attenzione, è accrescitiva e non responsabile, o poco in rapporto all’illimitatezza del progetto.
C’è un’età della vita, connotata dal fare più che dagli anni, in cui si progetta: ci si proietta liberamente, e con relativa irresponsabilità, nell’immaginario, la fantasia, la creatività. E un’età, che può anche cominciare presto, in cui la responsabilità prevale, e quindi l’ananke: la regolarità, la continuità, la prudenza.
Razionalità - È un processo, non un fatto: da ciò che è percepito in modo chiuso (ostile, distruttivo) a ciò che è percepito in modo chiaro (nelle conclusioni o anche soltanto nell’analisi). È un modo. Heidegger, “Oltre il limite”, 11, ne parla come di un metro, una misura.
Statisticamente è la follia – un’anomalia l’anormalità.
C’è solo in Occidente, ma l’Occidente è piccolo, e nella sua storia la razionalità ha uno spazio ridotto, in paragone con l’esoterismo, il masochismo, la numerologia, l’alchimia, lo sciamanesimo, l’astrologia, la religione, eccetera.
La crisi della ragione è la crisi della politica. Della razionalità ridotta a tecnica servile, nella dottrina (Diamat), il potere (burocrazia, totalitarismo), desiderio (propaganda e consenso).
Realtà – Una sensibile lastra fotografica “vede” più dell’occhio umano, un rilevatore di ultrasuoni “sente” di più.
Tempo – La stazionarietà è impossibile, impensabile anche. Perché l’essere è il divenire, certo. Ma si sa che è una misura, di che?
Utopia – È la certezza, non il sogno, di una cosa.
zeulig@antiit.eu
giovedì 27 agosto 2009
Il letto di Putin rianima "Repubblica"
La tiratura di “Repubblica” il 26 agosto 2008, un martedì, era di 793 mila copie, quella del 26 agosto 2009, un mercoledì, è stata di 630 mila. Un tracollo. Ma anche un segno di ripresa, seppure modesto: “Repubblica” ritorna sopra le 500 mila copie vendute, dopo essere stata sotto, l’anno era cominciato molto male. Ad agosto 2008 “Repubblica” diffondeva, cioè vendeva, 580 mila copie in media ogni giorno, ad agosto 2009 un primo calcolo dà 518 mila. A giugno era peggio: un primo calcolo delle vendite dà 466 mila copie giornaliere, contro le 524 mila di un anno prima.
Oltre che di “Repubblica” si è anche arrestata tra luglio e agosto l’emorragia di vendite del “Corriere della sera”, benché meno grave. I due maggiori giornali tornano a crescere. Che erano quelli più colpiti dalla crisi di copie e pubblicità. Sono anche i giornali che con maggiore virulenza si sono buttati sulle disavventure matrimoniali e di letto di Berlusconi. E' una coincidenza, e forse una spiegazione.
Provvisoriamente è anzi questa l’unica spiegazione possibile del rebounding, della modesta ripresa: i giornali che fanno l’opinione pubblica in Italia hanno invertito il ciclo negativo in contemporanea con – se non a causa di - la campagna di letto contro Berlusconi. Prima con la "minorenne" Noemi, su dritta di Veronica Berlusconi e delle sue agguerrite pr. Poi con la stagionata D’Addario, su autodenuncia della stessa, documentata, specie sull’uso del “lettone di Putin”.
Il calo di vendite dei maggiori quotidiani è andato avanti per un paio d’anni. Coincidenti peraltro col governo di centro sinistra, per il quale i due giornali sono schierati. Il calo era diventato una frana a partire da marzo 2008, in coincidenza con la crisi politica del centro-sinistra. Per la disaffezione presumibile dei lettori ex democristiani, che non si sono sentiti tutelati dall’euforia pro Veltroni, e nell’incredibile affare Mastella.
Nel 2005 il “Corriere della sera” vendeva 682 mila copie quotidiane, “Repubblica” 630 mila.
Nel 2006 il “Corriere” era ancora a 680 mila, e “Repubblica” a 627 mila. Nel 2007 il calo è stato sensibile ma gestibile: per il “Corriere” a 661 mila copie, per “Repubblica” a 622 mila. Nel 2008 il crollo: il “Corriere” si ferma a 621 mila copie, “Repubblica” a 556 mila.
Il 2009 è cominciato peggio. Il primo quadrimestre ha registrato un ulteriore fortissimo calo per entrambi i quotidiani. Il “Corriere” è sceso da 647 mila copie vendute in media al giorno nel primo quadrimestre 2008 a 574 mila. “Repubblica” ha fatto peggio, da 610 mila a 508 mila. Ad aprile il quotidiano romano è sceso per la prima volta dopo diciotto anni sotto le 500 mila copie, 492 mila.
Sui mesi successivi non ci sono dati, neppure degli editori. Ma ragionando sulle tirature dichiarate, con una resa storica del 19 per cento della tiratura per il “Corriere” e del 21 per “Repubblica”, giugno è stato il mese peggiore per entrambi i quotidiani: “Repubblica” ha venduto 466 mila copie, il “Corriere” 524 mila. Era il mese del crollo elettorale del partito Democratico, che i due giornali sostengono. Ma anche i mesi precedenti non erano andati meglio: per il trimestre aprile-giugno 2009 si calcola una diffusione di appena 483 mila copie giornaliere per il quotidiano romano, contro le 549 mila di un anno prima, e di 531 mila per il quotidiano milanese, contro le 610 mila del secondo trimestre 2008.
Agosto segna, sempre ragionando sui dati della tiratura, una inversione di tendenza e forse di ciclo: 518 mila copie per il quotidiano romano, contro le 508 mila del primo quadrimestre, e le 466 mila di giugno. Mentre per il giornale milanese le vendite si aggirano sulle 586 mila copie giornaliere, non molte di più delle 574 mila del primo quadrimestre, ma con una decisa ripresa rispetto alle 526 mila di giugno. Già a luglio le vendite per il “Corriere” erano risalite a 572 mila copie.
Oltre che di “Repubblica” si è anche arrestata tra luglio e agosto l’emorragia di vendite del “Corriere della sera”, benché meno grave. I due maggiori giornali tornano a crescere. Che erano quelli più colpiti dalla crisi di copie e pubblicità. Sono anche i giornali che con maggiore virulenza si sono buttati sulle disavventure matrimoniali e di letto di Berlusconi. E' una coincidenza, e forse una spiegazione.
Provvisoriamente è anzi questa l’unica spiegazione possibile del rebounding, della modesta ripresa: i giornali che fanno l’opinione pubblica in Italia hanno invertito il ciclo negativo in contemporanea con – se non a causa di - la campagna di letto contro Berlusconi. Prima con la "minorenne" Noemi, su dritta di Veronica Berlusconi e delle sue agguerrite pr. Poi con la stagionata D’Addario, su autodenuncia della stessa, documentata, specie sull’uso del “lettone di Putin”.
Il calo di vendite dei maggiori quotidiani è andato avanti per un paio d’anni. Coincidenti peraltro col governo di centro sinistra, per il quale i due giornali sono schierati. Il calo era diventato una frana a partire da marzo 2008, in coincidenza con la crisi politica del centro-sinistra. Per la disaffezione presumibile dei lettori ex democristiani, che non si sono sentiti tutelati dall’euforia pro Veltroni, e nell’incredibile affare Mastella.
Nel 2005 il “Corriere della sera” vendeva 682 mila copie quotidiane, “Repubblica” 630 mila.
Nel 2006 il “Corriere” era ancora a 680 mila, e “Repubblica” a 627 mila. Nel 2007 il calo è stato sensibile ma gestibile: per il “Corriere” a 661 mila copie, per “Repubblica” a 622 mila. Nel 2008 il crollo: il “Corriere” si ferma a 621 mila copie, “Repubblica” a 556 mila.
Il 2009 è cominciato peggio. Il primo quadrimestre ha registrato un ulteriore fortissimo calo per entrambi i quotidiani. Il “Corriere” è sceso da 647 mila copie vendute in media al giorno nel primo quadrimestre 2008 a 574 mila. “Repubblica” ha fatto peggio, da 610 mila a 508 mila. Ad aprile il quotidiano romano è sceso per la prima volta dopo diciotto anni sotto le 500 mila copie, 492 mila.
Sui mesi successivi non ci sono dati, neppure degli editori. Ma ragionando sulle tirature dichiarate, con una resa storica del 19 per cento della tiratura per il “Corriere” e del 21 per “Repubblica”, giugno è stato il mese peggiore per entrambi i quotidiani: “Repubblica” ha venduto 466 mila copie, il “Corriere” 524 mila. Era il mese del crollo elettorale del partito Democratico, che i due giornali sostengono. Ma anche i mesi precedenti non erano andati meglio: per il trimestre aprile-giugno 2009 si calcola una diffusione di appena 483 mila copie giornaliere per il quotidiano romano, contro le 549 mila di un anno prima, e di 531 mila per il quotidiano milanese, contro le 610 mila del secondo trimestre 2008.
Agosto segna, sempre ragionando sui dati della tiratura, una inversione di tendenza e forse di ciclo: 518 mila copie per il quotidiano romano, contro le 508 mila del primo quadrimestre, e le 466 mila di giugno. Mentre per il giornale milanese le vendite si aggirano sulle 586 mila copie giornaliere, non molte di più delle 574 mila del primo quadrimestre, ma con una decisa ripresa rispetto alle 526 mila di giugno. Già a luglio le vendite per il “Corriere” erano risalite a 572 mila copie.
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (41)
Giuseppe Leuzzi
L’odio-di-sé-meridionale
Siamo sudditi. Primitivi, materiale per antropologi. Non abbiamo essere, né quindi diritto di parlare, se non come pentiti. Ma i nostri antropologi non sono Bateson, Malinowski, Mead, Leiris, Lévi-Strauss, Meillassoux, neppure Griaule con tutte le sue architetture. Sono Biagi, Bocca, Leoluca Orlando, e qualche gesuita ignorante.
Non ci sono gesuiti ignoranti, ma in Sicilia sì.
“Il sole nella questione meridionale” è trattatello di Antonio Altomonte sul “Caffè”, 1972, n. 2. Sulle condizioni climatiche che, come voleva Madame de Staël, influenzano i prodotti dello spirito, tra i quali la letteratura. “Di conseguenza”, diceva Madame, “non più una letteratura italiana, una francese, una russa, una inglese, eccetera, ma due grandi tipi di letteratura: una settentrionale e una meridionale”.
Altomonte ritrova l’argomento nel “Gattopardo”, in cui il principe del titolo spiega a Chevalley, l’uomo di Casa Savoia: “Sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste”.
Nel mezzo ci sono i viaggiatori stranieri tra Sette e Ottocento, per i quali tutto al Sud era classico e bello, anche i briganti: “Fu il tempo della gente del Sud amante del bello, cordiale, aperta d’animo, dalla fantasia accesa, come i colori del sole che lustrava abitati e arenili”, ricorda Altomonte. Poi venne l’unità, “e subito qualcosa cambia anche nel carattere degli abitanti delle regioni meridionali, che vengono descritti piccoli di statura, dal tratto arabo, nonché pigri, bugiardi, privi d’iniziativa”.
Ora, i meridionali stessi si ritengono tali. Magari dicono il contrario, ma lo pensano, specie la notte.
Paradiso e diavoli ricorrono già in una descrizione dell’Italia in versi di John Harvey, 1728, che Voltaire traduce nelle “Lettere inglesi”, pp. 125-129. Un poeta di cui si ricorda un’opera epica in sei volumi, “The Bruciad”, finita nel 1729 e pubblicata quarant’anni dopo, sugli eroismi di un Bruce di Caledonia, quando ancora Walter Scott non aveva creato il mito della Scozia, in difesa dei suoi diritti conculcati, “che gli Stuart, i Douglas, i Graemes e i Wallace” emulavano.
Ognuno è causa del suo male. Per buona parte del Sud, la Sicilia e la Calabria, prevale la cancellazione del sé. Complicata in Sicilia dalla storia – è il paese europeo con più storia – nonché dall’abbondanza delle testimonianze. Che non si possono celare, e dall’essere stata bene o male regno e vice-regno. La Calabria, latinizzata via Sicilia, segue la Sicilia in tutto, non solo nel linguaggio. Ma non avendo quel patrimonio, non ha altro che l’odio di sé. Non c’è mare in Calabria, non c’è montagna, non c’è olio, non ci sono arance, non c’è storia, non ci sono monumenti. Solo povera gente, sporcizia, prepotenza, corruzione.
Alvaro e l’odio-di-sé meridionale – 2
La Calabria c’è spesso nei primi articoli di Alvaro, corrispondente da Parigi del “Mondo” nel 1922, ma rifiutata. È un reperto.
In uno degli articoli Alvaro ha la “desolata sera meridionale sotto la cui stretta le città diventano più anguste e le lontananze in sormontabili”. Alvaro manzoneggia. La serata meridionale può essere più breve, più luminosa, più gemütlich. Rispetto alla serata settentrionale, ovvio. D’estate, poiché il racconto di Alvaro è estivo. È rischioso umanizzare il paesaggio e il firmamento, si fa ideologia. Alvaro ha anche, nello stesso elzeviro, “Usi e costumi”, una paginetta uscita sul “Mondo” l’11 gennaio 1925, una “storia meridionale di tranquille sopportazioni e di violente risoluzioni”. Quanto tranquille? Ne è sicuro?
Sempre sul “Mondo”, il 7 settembre 1923, c’è il testo più misterioso di Alvaro sul “ritorno”, che egli intitola “Ricordo della Calabria”. Denso di cose non dette: recriminazioni? dispetto? nostalgia? E di che? A volte siamo privati di un’origine, delle radici, non per colpa. Al paragrafo “Una civiltà che scompare” esordisce: “Il carattere primitivo e naturale, che era l’unico stile della Calabria, va scomparendo, senza trasformazioni”. Condannando la Calabria alla mancanza di storia. Non degli eventi, quelli non mancano mai, ma della memoria. La damnatio memoriae si praticava in antico quando moriva un tiranno: è la Calabria tirannica per Alvaro? Un’origine infetta.
Nello stesso articolo c’è un primo “ritorno in treno”, che si ritroverà in tanti racconti e negli articoli del postumo “Un treno nel Sud”. Il calabrese, si sa, deve viaggiare molto in treno su e giù per lo stivale. Questo è una celebrazione gioiosa di San Luca, un’eccezione.
San Luca è ovunque in Alvaro, perfino nella tragedia “Medea”. Ma avulso, un reperto perennemente senza contesto, i cui significati sono servili: abbandono, trascuratezza, violenza, asocialità.
Alvaro vi tornava raramente, e solo per un giorno, per salutare la mamma. Si dice che non voleva rischiare d’incontrare gli Stranges, da lui perfidamente dipinti in “Gente in Aspromonte”. Non per sentirsene minacciato, ma per un’oscura colpa.
Anche del padre, che ricorre in molti racconti, l’immagine è tra sbiadita e critica. Anche dove è più felice, nei campi fuori del paese. Che pure l’ha voluto “Alvaro”, fortissimamente: colto, scrittore, emigrato.
Pentiti
La spia s’inebria della violenza senza limiti (l’indiscrezione malevola, e le trappole, le calunnie, gli incidenti, perfino l’assassinio, l’attentato nelle forme più diverse) nel nome delle istituzioni, e dei valori più sacri, la libertà, la democrazia,. La patria (la nazione, l’indipendenza). È un piacere totale, e totalmente irresponsabile, alla portata di chiunque, sia esso abietto o imbecille. Senza regole anche: lo sbirro deve invece sottostare alle leggi.
Si estende nella figura del pentito: la delazione fa parte dell’arsenale spionistico.
8 gennaio 1996. Molti pentiti, venticinque, garantiscono che la mafia in Calabria è Gaicomo Mancini. Il giudice Verzera ci crede, col procuratore Pennini. Sono “giovani”, persone cioè che non hanno mai fatto nulla nella vita, e anche del genere fascisti di sinistra, che va di moda su “Repubblica” e per la carriera. Su “Repubblica” dove Scalfari ha conoscenza diretta e approfondita di Mancini.
Alcuni mafiosi, non altrettanto numerosi, hanno confidato a Caselli che la mafia è Andreotti. Caseli ci crede. Ma non è un cretino.
15 ottobre 1997. La famiglia Brusca al completo, tre figli e un padre, quattro animali con le zanne, che vuole dare Andreotti in pasto a Riina (in alternativa: vuole subentrare a Balduccio di Maggio nella posizione di Primo Pentito della Procura di Palermo), è uno sketch sublime. Che lascia perà imperturbabile il Procuratore vicario Lo Forte. Ma anche il suo capo Caselli. E i giornalisti, tanti, tutti, che fanno capo al Circolo della Giustizia palermitano. Si può anche pensare che il senso del ridicolo è scomparso in Italia. Ma ricordando che i mafiosi ne sono caratteristicamente sprovvisti.
Dieci anni fa Andreotti: la mafia nobilitata da Caselli
Sono dieci anni il 23 ottobre che Andreotti è stato assolto a Palermo dopo il lungo processo per mafia, avviato dal Procuratore Caselli. Un processo che ad altro non servì se non alla nobilitazione della mafia, per i best-seller di Biagi e Bocca. Nonché degli editori Rizzoli e Mondadori, si capisce che i loro giornali tengano Caselli in gran conto, il nobilitatore. Mettere Riina accanto a Andreotti è stato riconoscere alla mafia lustro intellettuale, potenza, capacità politica, capacità di governo. Nelle stesse questioni di giustizia, attraverso i pentiti, che sono in genere i killer, i mafiosi più ignoranti e feroci.
Quello che non era riuscito ai mafiosi in cento e più anni, e a cui essi sono anzi inetti, costruirsi una leggenda e un ruolo sociale, è stato il regalo di alcuni Procuratori della Repubblica. Preterintenzionale?
Un baraccone di processo, su e giù per l’Italia, frotte di avvocati, questurini, magistrati, cancellieri, giornalisti e pentiti in carovana. Davanti a un Tribunale che ascoltava visibilmente assente. E come avrebbe potuto occuparsene, di un processo con 120 mila fogli di accusa, cinque o seicento testi citati dall’accusa, e nessuna prova?
“Lei conferma”, chiese il sostituto Lo Forte a Di Maggio al momento clou del dibattimento, “l’incontro e il bacio tra Andreotti e Riina?”. “Sì”, fu la risposta. L’unica “prova”, dopo due anni di dibattimento, a carico di Andreotti. Sulla parola di un pentito cafone e pasticcione – che purtroppo era anche un confidente, probabilmente dei carabinieri.
leuzzi@antiit.eu
L’odio-di-sé-meridionale
Siamo sudditi. Primitivi, materiale per antropologi. Non abbiamo essere, né quindi diritto di parlare, se non come pentiti. Ma i nostri antropologi non sono Bateson, Malinowski, Mead, Leiris, Lévi-Strauss, Meillassoux, neppure Griaule con tutte le sue architetture. Sono Biagi, Bocca, Leoluca Orlando, e qualche gesuita ignorante.
Non ci sono gesuiti ignoranti, ma in Sicilia sì.
“Il sole nella questione meridionale” è trattatello di Antonio Altomonte sul “Caffè”, 1972, n. 2. Sulle condizioni climatiche che, come voleva Madame de Staël, influenzano i prodotti dello spirito, tra i quali la letteratura. “Di conseguenza”, diceva Madame, “non più una letteratura italiana, una francese, una russa, una inglese, eccetera, ma due grandi tipi di letteratura: una settentrionale e una meridionale”.
Altomonte ritrova l’argomento nel “Gattopardo”, in cui il principe del titolo spiega a Chevalley, l’uomo di Casa Savoia: “Sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste”.
Nel mezzo ci sono i viaggiatori stranieri tra Sette e Ottocento, per i quali tutto al Sud era classico e bello, anche i briganti: “Fu il tempo della gente del Sud amante del bello, cordiale, aperta d’animo, dalla fantasia accesa, come i colori del sole che lustrava abitati e arenili”, ricorda Altomonte. Poi venne l’unità, “e subito qualcosa cambia anche nel carattere degli abitanti delle regioni meridionali, che vengono descritti piccoli di statura, dal tratto arabo, nonché pigri, bugiardi, privi d’iniziativa”.
Ora, i meridionali stessi si ritengono tali. Magari dicono il contrario, ma lo pensano, specie la notte.
Paradiso e diavoli ricorrono già in una descrizione dell’Italia in versi di John Harvey, 1728, che Voltaire traduce nelle “Lettere inglesi”, pp. 125-129. Un poeta di cui si ricorda un’opera epica in sei volumi, “The Bruciad”, finita nel 1729 e pubblicata quarant’anni dopo, sugli eroismi di un Bruce di Caledonia, quando ancora Walter Scott non aveva creato il mito della Scozia, in difesa dei suoi diritti conculcati, “che gli Stuart, i Douglas, i Graemes e i Wallace” emulavano.
Ognuno è causa del suo male. Per buona parte del Sud, la Sicilia e la Calabria, prevale la cancellazione del sé. Complicata in Sicilia dalla storia – è il paese europeo con più storia – nonché dall’abbondanza delle testimonianze. Che non si possono celare, e dall’essere stata bene o male regno e vice-regno. La Calabria, latinizzata via Sicilia, segue la Sicilia in tutto, non solo nel linguaggio. Ma non avendo quel patrimonio, non ha altro che l’odio di sé. Non c’è mare in Calabria, non c’è montagna, non c’è olio, non ci sono arance, non c’è storia, non ci sono monumenti. Solo povera gente, sporcizia, prepotenza, corruzione.
Alvaro e l’odio-di-sé meridionale – 2
La Calabria c’è spesso nei primi articoli di Alvaro, corrispondente da Parigi del “Mondo” nel 1922, ma rifiutata. È un reperto.
In uno degli articoli Alvaro ha la “desolata sera meridionale sotto la cui stretta le città diventano più anguste e le lontananze in sormontabili”. Alvaro manzoneggia. La serata meridionale può essere più breve, più luminosa, più gemütlich. Rispetto alla serata settentrionale, ovvio. D’estate, poiché il racconto di Alvaro è estivo. È rischioso umanizzare il paesaggio e il firmamento, si fa ideologia. Alvaro ha anche, nello stesso elzeviro, “Usi e costumi”, una paginetta uscita sul “Mondo” l’11 gennaio 1925, una “storia meridionale di tranquille sopportazioni e di violente risoluzioni”. Quanto tranquille? Ne è sicuro?
Sempre sul “Mondo”, il 7 settembre 1923, c’è il testo più misterioso di Alvaro sul “ritorno”, che egli intitola “Ricordo della Calabria”. Denso di cose non dette: recriminazioni? dispetto? nostalgia? E di che? A volte siamo privati di un’origine, delle radici, non per colpa. Al paragrafo “Una civiltà che scompare” esordisce: “Il carattere primitivo e naturale, che era l’unico stile della Calabria, va scomparendo, senza trasformazioni”. Condannando la Calabria alla mancanza di storia. Non degli eventi, quelli non mancano mai, ma della memoria. La damnatio memoriae si praticava in antico quando moriva un tiranno: è la Calabria tirannica per Alvaro? Un’origine infetta.
Nello stesso articolo c’è un primo “ritorno in treno”, che si ritroverà in tanti racconti e negli articoli del postumo “Un treno nel Sud”. Il calabrese, si sa, deve viaggiare molto in treno su e giù per lo stivale. Questo è una celebrazione gioiosa di San Luca, un’eccezione.
San Luca è ovunque in Alvaro, perfino nella tragedia “Medea”. Ma avulso, un reperto perennemente senza contesto, i cui significati sono servili: abbandono, trascuratezza, violenza, asocialità.
Alvaro vi tornava raramente, e solo per un giorno, per salutare la mamma. Si dice che non voleva rischiare d’incontrare gli Stranges, da lui perfidamente dipinti in “Gente in Aspromonte”. Non per sentirsene minacciato, ma per un’oscura colpa.
Anche del padre, che ricorre in molti racconti, l’immagine è tra sbiadita e critica. Anche dove è più felice, nei campi fuori del paese. Che pure l’ha voluto “Alvaro”, fortissimamente: colto, scrittore, emigrato.
Pentiti
La spia s’inebria della violenza senza limiti (l’indiscrezione malevola, e le trappole, le calunnie, gli incidenti, perfino l’assassinio, l’attentato nelle forme più diverse) nel nome delle istituzioni, e dei valori più sacri, la libertà, la democrazia,. La patria (la nazione, l’indipendenza). È un piacere totale, e totalmente irresponsabile, alla portata di chiunque, sia esso abietto o imbecille. Senza regole anche: lo sbirro deve invece sottostare alle leggi.
Si estende nella figura del pentito: la delazione fa parte dell’arsenale spionistico.
8 gennaio 1996. Molti pentiti, venticinque, garantiscono che la mafia in Calabria è Gaicomo Mancini. Il giudice Verzera ci crede, col procuratore Pennini. Sono “giovani”, persone cioè che non hanno mai fatto nulla nella vita, e anche del genere fascisti di sinistra, che va di moda su “Repubblica” e per la carriera. Su “Repubblica” dove Scalfari ha conoscenza diretta e approfondita di Mancini.
Alcuni mafiosi, non altrettanto numerosi, hanno confidato a Caselli che la mafia è Andreotti. Caseli ci crede. Ma non è un cretino.
15 ottobre 1997. La famiglia Brusca al completo, tre figli e un padre, quattro animali con le zanne, che vuole dare Andreotti in pasto a Riina (in alternativa: vuole subentrare a Balduccio di Maggio nella posizione di Primo Pentito della Procura di Palermo), è uno sketch sublime. Che lascia perà imperturbabile il Procuratore vicario Lo Forte. Ma anche il suo capo Caselli. E i giornalisti, tanti, tutti, che fanno capo al Circolo della Giustizia palermitano. Si può anche pensare che il senso del ridicolo è scomparso in Italia. Ma ricordando che i mafiosi ne sono caratteristicamente sprovvisti.
Dieci anni fa Andreotti: la mafia nobilitata da Caselli
Sono dieci anni il 23 ottobre che Andreotti è stato assolto a Palermo dopo il lungo processo per mafia, avviato dal Procuratore Caselli. Un processo che ad altro non servì se non alla nobilitazione della mafia, per i best-seller di Biagi e Bocca. Nonché degli editori Rizzoli e Mondadori, si capisce che i loro giornali tengano Caselli in gran conto, il nobilitatore. Mettere Riina accanto a Andreotti è stato riconoscere alla mafia lustro intellettuale, potenza, capacità politica, capacità di governo. Nelle stesse questioni di giustizia, attraverso i pentiti, che sono in genere i killer, i mafiosi più ignoranti e feroci.
Quello che non era riuscito ai mafiosi in cento e più anni, e a cui essi sono anzi inetti, costruirsi una leggenda e un ruolo sociale, è stato il regalo di alcuni Procuratori della Repubblica. Preterintenzionale?
Un baraccone di processo, su e giù per l’Italia, frotte di avvocati, questurini, magistrati, cancellieri, giornalisti e pentiti in carovana. Davanti a un Tribunale che ascoltava visibilmente assente. E come avrebbe potuto occuparsene, di un processo con 120 mila fogli di accusa, cinque o seicento testi citati dall’accusa, e nessuna prova?
“Lei conferma”, chiese il sostituto Lo Forte a Di Maggio al momento clou del dibattimento, “l’incontro e il bacio tra Andreotti e Riina?”. “Sì”, fu la risposta. L’unica “prova”, dopo due anni di dibattimento, a carico di Andreotti. Sulla parola di un pentito cafone e pasticcione – che purtroppo era anche un confidente, probabilmente dei carabinieri.
leuzzi@antiit.eu
mercoledì 26 agosto 2009
Vent'anni fa si dislocava l'Italia
“Il mondo com’è” registrava vent’anni fa, il 26 agosto 1989, la fine degli Stati nazionali:
“Decentramento e autonomie, comunitarismo negli Usa, sussidiarietà a Bruxelles, si va verso il disfacimento dello Stato unitario, costruito con molti lutti nel corso di più secoli, in Francia, in Spagna, in Inghilterra, in Russia, e sanzionato dalla Rivoluzione francese e da Napoleone. Sul presupposto che il valore politico supremo fosse l’unità – ex impero. I valori sono ora i diritti locali, i privilegi, le esclusioni.
È una deriva pericolosa, dice Maxime Rodinson intervistato per il giornale: “Ci si rinchiude in se stessi, come il racconto di quell’autore polacco che anticipava “La peste” di Camus: subentra la misantropia e l’egoismo”. È un tema di destra: Action Française, Daudet, movimenti nazionalistici regionali, fronti patriottici, il nazionalismo delle piccole patrie. Però, con quali argomenti! No alla leva. Dopo un secolo e mezzo, anzi due, possiamo liberarci dell’incubo della guerra necessaria, o guerra come condizione permanente, per tornare a Clausewitz. Fiscalità modulata, perché no (v. Scandinavia)? Scuola aperta, perché no? Purché lo Stato garantisca un livello minimo – sussidiarietà – a tutti.
Si dice la devoluzione necessaria anche per poter costruire l’Europa unita, e probabilmente è così. Il caso britannico della common law. Il comunitarismo sociale in America, fortissimo, e il decentramento della polizia, della magistratura, della politica, della politica industriale. I vecchi statuti locali mai abbandonati in Svizzera e in Germania: si comprende l’antimilitarismo e il pacifismo in questi paesi, che hanno radici molto più antiche della Schuldfrage –mentre lo Stato nazionale ha deciso che non poteva essere se non imperialista”.
“Decentramento e autonomie, comunitarismo negli Usa, sussidiarietà a Bruxelles, si va verso il disfacimento dello Stato unitario, costruito con molti lutti nel corso di più secoli, in Francia, in Spagna, in Inghilterra, in Russia, e sanzionato dalla Rivoluzione francese e da Napoleone. Sul presupposto che il valore politico supremo fosse l’unità – ex impero. I valori sono ora i diritti locali, i privilegi, le esclusioni.
È una deriva pericolosa, dice Maxime Rodinson intervistato per il giornale: “Ci si rinchiude in se stessi, come il racconto di quell’autore polacco che anticipava “La peste” di Camus: subentra la misantropia e l’egoismo”. È un tema di destra: Action Française, Daudet, movimenti nazionalistici regionali, fronti patriottici, il nazionalismo delle piccole patrie. Però, con quali argomenti! No alla leva. Dopo un secolo e mezzo, anzi due, possiamo liberarci dell’incubo della guerra necessaria, o guerra come condizione permanente, per tornare a Clausewitz. Fiscalità modulata, perché no (v. Scandinavia)? Scuola aperta, perché no? Purché lo Stato garantisca un livello minimo – sussidiarietà – a tutti.
Si dice la devoluzione necessaria anche per poter costruire l’Europa unita, e probabilmente è così. Il caso britannico della common law. Il comunitarismo sociale in America, fortissimo, e il decentramento della polizia, della magistratura, della politica, della politica industriale. I vecchi statuti locali mai abbandonati in Svizzera e in Germania: si comprende l’antimilitarismo e il pacifismo in questi paesi, che hanno radici molto più antiche della Schuldfrage –mentre lo Stato nazionale ha deciso che non poteva essere se non imperialista”.
La Dc governava a sangue freddo
Della storia che non si scrive: “Il mondo com’è” registrava venticinque anni fa, il 26 agosto 1984, il decisionismo democristiano.
“A differenza degli altri partiti, la Dc prende le decisioni in cold blood. Perché ha il potere e il senso del potere – una scacchiera enorme – e forse una visione. Sia pure il mantenimento del potere, cioè la capacità di catturare il consenso.
Gli altri partiti, che gestiscono solo chiacchiere, vi si perdono: ci credono. La Dc, che gestisce eventi drammatici, e alcuni anzi li provoca – il terrorismo, le stragi, le logge, i dossier, i processi artefatti, le feroci calunnie intestine – lo fa con freddezza. Natta si riterrà certamente superiore a Andreotti, ma dovendo immaginare un colloquio tra i due non c’è confronto: Andreotti sa a che cosa serve parlare con Natta, Natta no.
L’unico politico che la Dc mostra di temere è Craxi. Ma non farà mostra?”
“A differenza degli altri partiti, la Dc prende le decisioni in cold blood. Perché ha il potere e il senso del potere – una scacchiera enorme – e forse una visione. Sia pure il mantenimento del potere, cioè la capacità di catturare il consenso.
Gli altri partiti, che gestiscono solo chiacchiere, vi si perdono: ci credono. La Dc, che gestisce eventi drammatici, e alcuni anzi li provoca – il terrorismo, le stragi, le logge, i dossier, i processi artefatti, le feroci calunnie intestine – lo fa con freddezza. Natta si riterrà certamente superiore a Andreotti, ma dovendo immaginare un colloquio tra i due non c’è confronto: Andreotti sa a che cosa serve parlare con Natta, Natta no.
L’unico politico che la Dc mostra di temere è Craxi. Ma non farà mostra?”
martedì 25 agosto 2009
L'imputtanamento dell'opinione
La riedizione della biografia della moglie di Berlusconi, “venduta” agevolmente come anticipazione dalla Rizzoli Corriere della sera e dall’autrice Latella, confidente e addetto stampa della Berlusconi, al gruppo Murdoch in Inghilterra (“Times” e “Observer”), concorrente e nemico di Berlusconi marito, è ripresa così rafforzata (“l’ha detto il «Times»”) da “Repubblica”, “Spiegel”, “Huffington Post” e altri media. Si gonfia a questo modo una bomba che dovrebbe portare all’incapacitazione politica di Berlusconi marito. Nelle more di un divorzio e della divisione dell’asse ereditario tra i figli.
Il divorzio e le “parti” tra i figli sono un fatto privato, e della peggiore specie – roba cioè di consiglieri, consigliori, matrimonialisti, patrimonialisti. Che tuttavia fanno l’opinione pubblica. Si parte cioè dagli interessi della moglie di Berlusconi e dall’abilità della sua addetta stampa, e si arriva a una crisi politica. Peggio: si rafforzano gli interessi stessi della moglie, nonché quelli di Murdoch, che attraverso Sky distribuisce in Italia molte mance, “creando” una crisi politica.
È un modo singolare di formazione dell’opinione pubblica, e quindi di governo della politica, ma non isolato, e anzi caratteristico. Si arriva all’opinione attraverso mediazioni: dei soggetti coinvolti, i “dichiaranti”, e di fonti anonime, attraverso indiscrezioni, segreti, calunnie. Di soggetti cioè che non sono pubblici e, in teoria, non avrebbero parte all’opinione pubblica. Ma che nello stato attuale dell’informazione sono la parte sempre vincente. Nel presupposto che la parte denunciante rappresenti il dovere cosiddetto civico. Anche se torbida, e perfino quando è immorale.
Nel caso in questione, al centro dello scandalo privato-politico è una prostituta. Dichiarante questa non segreta né anonima, e anzi esibita. A differenza del Watergate, lo scandalo che è all’origine dello stato attuale dell’informazione, dove la “gola profonda” fu segreta, benché di vita proba. Ma i due scandali non sono diversi, la natura essendo la stessa, l’imputtanamento dell’opinione pubblica. D’Addario, a differenza dell’informatore del Watergate, non ha bisogno dell’anonimato perché la natura – la regola - della sua azione è quella stessa della sua professione.
Una natura – una regola - che spiega l’irrilevanza dell’opinione pubblica negli ultimi trentacinque anni, dopo il Watergate. Negli Stati, i pochi dove vanta una tradizione, in Europa e nel Nord America, e negli affari internazionali – qui soprattutto. Per il privilegio accordato al complotto nella storia. Che per sua natura si svilisce, il vero complotto è la dottrina del complotto. Si riduce cioè al pettegolezzo. Nel quale i rifiuti della storia sguazzano: le ragazze sceme, spregiudicate, prostituite, i procuratori dei processi estivi, i giornali di Murdoch che un tempo si sarebbero detti “gialli” o “scandalistici”, e perciò ininfluenti, gli interessi di potenti editori che governano la politica – il potere - gestendo impuniti lo scandalo.
Il divorzio e le “parti” tra i figli sono un fatto privato, e della peggiore specie – roba cioè di consiglieri, consigliori, matrimonialisti, patrimonialisti. Che tuttavia fanno l’opinione pubblica. Si parte cioè dagli interessi della moglie di Berlusconi e dall’abilità della sua addetta stampa, e si arriva a una crisi politica. Peggio: si rafforzano gli interessi stessi della moglie, nonché quelli di Murdoch, che attraverso Sky distribuisce in Italia molte mance, “creando” una crisi politica.
È un modo singolare di formazione dell’opinione pubblica, e quindi di governo della politica, ma non isolato, e anzi caratteristico. Si arriva all’opinione attraverso mediazioni: dei soggetti coinvolti, i “dichiaranti”, e di fonti anonime, attraverso indiscrezioni, segreti, calunnie. Di soggetti cioè che non sono pubblici e, in teoria, non avrebbero parte all’opinione pubblica. Ma che nello stato attuale dell’informazione sono la parte sempre vincente. Nel presupposto che la parte denunciante rappresenti il dovere cosiddetto civico. Anche se torbida, e perfino quando è immorale.
Nel caso in questione, al centro dello scandalo privato-politico è una prostituta. Dichiarante questa non segreta né anonima, e anzi esibita. A differenza del Watergate, lo scandalo che è all’origine dello stato attuale dell’informazione, dove la “gola profonda” fu segreta, benché di vita proba. Ma i due scandali non sono diversi, la natura essendo la stessa, l’imputtanamento dell’opinione pubblica. D’Addario, a differenza dell’informatore del Watergate, non ha bisogno dell’anonimato perché la natura – la regola - della sua azione è quella stessa della sua professione.
Una natura – una regola - che spiega l’irrilevanza dell’opinione pubblica negli ultimi trentacinque anni, dopo il Watergate. Negli Stati, i pochi dove vanta una tradizione, in Europa e nel Nord America, e negli affari internazionali – qui soprattutto. Per il privilegio accordato al complotto nella storia. Che per sua natura si svilisce, il vero complotto è la dottrina del complotto. Si riduce cioè al pettegolezzo. Nel quale i rifiuti della storia sguazzano: le ragazze sceme, spregiudicate, prostituite, i procuratori dei processi estivi, i giornali di Murdoch che un tempo si sarebbero detti “gialli” o “scandalistici”, e perciò ininfluenti, gli interessi di potenti editori che governano la politica – il potere - gestendo impuniti lo scandalo.
Letture - 12
letterautore
Baudelaire - Il dandismo come forma attraente (presentabile) di misantropia. Per lui e per gli interlocutori: parenti, editori, direttori, amici, scrittori, artisti.
Céline – L’impuro del puro. La malvagità del buono, l’autore del roman communiste della Francia – così il “Viaggio” per il comitato di lettura Gallimard nel 1932.
Come i buoni sentimenti (l’odio della guerra, dei prepotenti, dei parolai, dei profittatori, dei furbi, delle consorterie , massoniche, ebraiche, degli ipocriti – i comunisti) possono degenerare in mostruosità. Non basta il buon motivo: le passioni vogliono essere temperate.
Che rapporto c’è fra il principio – la buona ragione – e la realtà, la storia? Perché ottimi fini possono degenerare in pessimi effetti? Per errore. Ma cosa porta all’errore? L’immaturità, o impreparazione: per superficialità, studi scarsi, aggressività. Ma si può essere impreparati, oltre che per difetto, per volerlo essere, perché si è scelta una via di non compromesso: intransigenza, radicalismo. Non c’è bene dunque se non nel compromesso, mediocre, senza eroi, impuro, non accettabile? E funzionale – a misura cioè della storia.
È la disperazione coerente. La coerenza non è il silenzio (lo è in uno dei personaggi del “Viaggio”, ma fa ridere), è la disperazione stessa, la distruzione. Céline, che vive la vita tragicamente, va fino ad autodistruggersi.
Porta anche alla disperazione: troppo conseguente moralmente, troppo abile scrittore.
È lo scrittore tragico del Novecento. Ha scritto un “Inferno”, l’infamia dell’universale. Si applica ai temi del genere epico (guerra, tradimento, amore, crudeltà), cioè alla morte, e la concelebra in tutte le sue forme, comprese quelle contemporanee dell’autodistruzione: l’abisso proprio e della Framcia, gli odi e gli scheletri nell’armadio del dopoguerra.
Ha la scrittura del secolo: interrogativa, ansiosa, violenta e trattenuta allo stesso tempo, indagatrice e assertiva – minacciosa. Ne narra, anche, le vicende: la prima guerra, i tradimenti intellettuali tra le due guerre, la seconda guerra, il collaborazionismo, le imposture del dopoguerra. Ha la sua buona parte di storia familiare, adolescenziale e atroce, della mamma in mancanza della zia, ma storicizzata e perfino sociologizzata, il muro intesse e ricama solido.
L’antisemitismo (Rodinson, Cattaneo, Yergin…) è parte della reazione romantica contro il capitalismo e la modernizzazione. In Céline no, è duro e refrattario: è parte dell’odio piccolo borghese, che Céline stesso ripetutamente narra, per ogni forma di potere, sia pure di facciata (carriera, modi di vita). Che è il substrato della società francese, al fondo di ogni sua crisi politica, e a metà degli anni Trenta si esprimeva nell’insultante “meglio Hitler che Léon Blum".
Céline è razzista. Ma non disprezza l’ebreo. Il suo disprezzo va all’“inferiore”, allo schiavo, all’africano incivile. L’ebreo lo odia. Se ricco, e per il senso di esclusione che genera.
L’odio dei massoni come quello degli ebrei. E l’odio della sinistra politica, del radicalsocialismo, come conseguenza dei due. Si resta sempre nel mal di pancia piccolo borghese, il complesso di esclusione. Seppure non senza fondamento: la massoneria nella Terza Repubblica è stata invasiva, e tipicamente elitistica (sono la Terza Repubblica e la scimmia italica che giustificano gli studi di Mosca, Pareto, Sorel). Ma c’è una causa specifica.
La leadership è più (ri)sentita se si basa su premesse intellettuali, di conoscenza, di fede, di etica. L’intelligenza è il bene che si presume più democratico. Non lo è, basandosi sull’istruzione, la tradizione, la tribù, ma ci gratifica con l’illusione di esserlo. Atteggiata in forme snobistiche perde il sapore ludico, e se si occupa di politica e fatti sociali, si manifesta come irritante irresponsabilità (Thomas Mann si irrita molto di più per molto meno con la famiglia ebraica della moglie in “Sangue velsungo”). Atteggiata in forma di circolo ristretto, è la negazione di se stessa.
È un don Chisciotte reale, quindi tragico. Un millenarista (catastrofista) da fine secolo – una categoria che viene posticipata, il secolo si conclude in genere con gli auguri. In “Morte a credito” l’ironia sulla tecnica che non decolla è la constatazione, amara, non compiaciuta, della “fine” del secolo.
La lingua asintattica vuole riprodurre ritmi esistenziali. Nel senso della vita vissuta, e della filosofia esistenziale.
Sembra il perfetto fascista, compreso il dispensario dei poveri. Del fascismo anche come rivalsa: Céline disprezza Laval e Pétain, odia i tedeschi (come li odia lui nessun “resistente” nella Parigi dell’Occupazione), ma è indispettito dei privilegi cui la democrazia fa da nido. Ne è invece l’opposto, il radicale antipolitico, comunque alieno dalla violenza. Ogni sfiato di Céline è classista. Anti privilegio: ricchezza, influenza, cordate. Tema tipico è il confronto, ogni paio di pagine, tra dame inguantate e impellicciate, o splendidamente nude, e “vecchie” mamme curve sull’uncinetto o prostitute, tra un mondo dorato e uno senz’aria. Contro il proustismo e il gidismo = contro il culo dilagante = contro l’establishment.
Ma tutto è establishment, tutto ciò che ha successo. Compresa la sinistra politica. Detto da tanto a sinistra da risultare di destra. Una sensibilità su questo punto talmente acuta da portare all’autoesclusione – Céline è “nato” con un premio Goncourt. Non è misantropia. O è la misantropia dei filantropi.
Erasmo – Non ha ancora un’edizione critica. Per essere rimasto cattolico.
Ermeneutica – Di Marx o della Bibbia o delle pandette, o dello stesso Heidegger, è ancillare e sterile. Serve a rafforzare il principio di autorità, dell’interprete contro il lettore cioè, e non rende neppure servizio a chi onora: costringe testi e autori alla ripetitività e all’insignificanza, li frantuma. È come dice Metodio di Olimpo nel “Simposio”: come i fuchi gira attorno alle foglie delle piante, invece che come l’ape intorno ai fiori e ai frutti.
È intollerabile. Bastano le diverse traduzioni della Bibbia, in ebraico, in greco, in latino, in italiano. E ora Marx, Obama, Andreotti…
Giustizia - È una delle passioni elementari, come la libertà, l’amore, l’odio. Difficile da enucleare e definire, se non intuitivamente, essendo nota a tutti nelle sue più riposte pieghe - la realtà che non è semplificabile in canoni, né normativi né conoscitivi. È stata già in antico materia di tragedia. E spiega il successo del giallo, genera popolare della stessa materia, la popolarizzazione degli stessi plot tragici. Per la sua diffusa latitanza.
Iconografia – Nell’arte “classica”, fino al Settecento, è meno ingenua di quanto sembri. Molto meno. È con l’arte contemporanea che il soggetto si banalizza - come tutto?
Libro - Diverso a ogni lettura, diverso dalle intenzioni dell’autore, è muto. Non argomenta in realtà, neanche il pamphlet, e non entra in contraddizione. È flessibile e muto.
È per questo dominio del lettore – il quale magari ci vorrebbe un messaggio netto, ma ormai è abituato a fantasizzare, anche se secondo certi canoni. In misura maggiore che ogni altra forma di comunicazione. In ragione della massa: il numero delle parole, la forma libro, cioè chiusa, la grafica, del testo e delle copertine (la vecchia Bur è un’altra lettura ce la nuova, anche se incornicia lo stesso testo).
letterautore@antiit.eu
Baudelaire - Il dandismo come forma attraente (presentabile) di misantropia. Per lui e per gli interlocutori: parenti, editori, direttori, amici, scrittori, artisti.
Céline – L’impuro del puro. La malvagità del buono, l’autore del roman communiste della Francia – così il “Viaggio” per il comitato di lettura Gallimard nel 1932.
Come i buoni sentimenti (l’odio della guerra, dei prepotenti, dei parolai, dei profittatori, dei furbi, delle consorterie , massoniche, ebraiche, degli ipocriti – i comunisti) possono degenerare in mostruosità. Non basta il buon motivo: le passioni vogliono essere temperate.
Che rapporto c’è fra il principio – la buona ragione – e la realtà, la storia? Perché ottimi fini possono degenerare in pessimi effetti? Per errore. Ma cosa porta all’errore? L’immaturità, o impreparazione: per superficialità, studi scarsi, aggressività. Ma si può essere impreparati, oltre che per difetto, per volerlo essere, perché si è scelta una via di non compromesso: intransigenza, radicalismo. Non c’è bene dunque se non nel compromesso, mediocre, senza eroi, impuro, non accettabile? E funzionale – a misura cioè della storia.
È la disperazione coerente. La coerenza non è il silenzio (lo è in uno dei personaggi del “Viaggio”, ma fa ridere), è la disperazione stessa, la distruzione. Céline, che vive la vita tragicamente, va fino ad autodistruggersi.
Porta anche alla disperazione: troppo conseguente moralmente, troppo abile scrittore.
È lo scrittore tragico del Novecento. Ha scritto un “Inferno”, l’infamia dell’universale. Si applica ai temi del genere epico (guerra, tradimento, amore, crudeltà), cioè alla morte, e la concelebra in tutte le sue forme, comprese quelle contemporanee dell’autodistruzione: l’abisso proprio e della Framcia, gli odi e gli scheletri nell’armadio del dopoguerra.
Ha la scrittura del secolo: interrogativa, ansiosa, violenta e trattenuta allo stesso tempo, indagatrice e assertiva – minacciosa. Ne narra, anche, le vicende: la prima guerra, i tradimenti intellettuali tra le due guerre, la seconda guerra, il collaborazionismo, le imposture del dopoguerra. Ha la sua buona parte di storia familiare, adolescenziale e atroce, della mamma in mancanza della zia, ma storicizzata e perfino sociologizzata, il muro intesse e ricama solido.
L’antisemitismo (Rodinson, Cattaneo, Yergin…) è parte della reazione romantica contro il capitalismo e la modernizzazione. In Céline no, è duro e refrattario: è parte dell’odio piccolo borghese, che Céline stesso ripetutamente narra, per ogni forma di potere, sia pure di facciata (carriera, modi di vita). Che è il substrato della società francese, al fondo di ogni sua crisi politica, e a metà degli anni Trenta si esprimeva nell’insultante “meglio Hitler che Léon Blum".
Céline è razzista. Ma non disprezza l’ebreo. Il suo disprezzo va all’“inferiore”, allo schiavo, all’africano incivile. L’ebreo lo odia. Se ricco, e per il senso di esclusione che genera.
L’odio dei massoni come quello degli ebrei. E l’odio della sinistra politica, del radicalsocialismo, come conseguenza dei due. Si resta sempre nel mal di pancia piccolo borghese, il complesso di esclusione. Seppure non senza fondamento: la massoneria nella Terza Repubblica è stata invasiva, e tipicamente elitistica (sono la Terza Repubblica e la scimmia italica che giustificano gli studi di Mosca, Pareto, Sorel). Ma c’è una causa specifica.
La leadership è più (ri)sentita se si basa su premesse intellettuali, di conoscenza, di fede, di etica. L’intelligenza è il bene che si presume più democratico. Non lo è, basandosi sull’istruzione, la tradizione, la tribù, ma ci gratifica con l’illusione di esserlo. Atteggiata in forme snobistiche perde il sapore ludico, e se si occupa di politica e fatti sociali, si manifesta come irritante irresponsabilità (Thomas Mann si irrita molto di più per molto meno con la famiglia ebraica della moglie in “Sangue velsungo”). Atteggiata in forma di circolo ristretto, è la negazione di se stessa.
È un don Chisciotte reale, quindi tragico. Un millenarista (catastrofista) da fine secolo – una categoria che viene posticipata, il secolo si conclude in genere con gli auguri. In “Morte a credito” l’ironia sulla tecnica che non decolla è la constatazione, amara, non compiaciuta, della “fine” del secolo.
La lingua asintattica vuole riprodurre ritmi esistenziali. Nel senso della vita vissuta, e della filosofia esistenziale.
Sembra il perfetto fascista, compreso il dispensario dei poveri. Del fascismo anche come rivalsa: Céline disprezza Laval e Pétain, odia i tedeschi (come li odia lui nessun “resistente” nella Parigi dell’Occupazione), ma è indispettito dei privilegi cui la democrazia fa da nido. Ne è invece l’opposto, il radicale antipolitico, comunque alieno dalla violenza. Ogni sfiato di Céline è classista. Anti privilegio: ricchezza, influenza, cordate. Tema tipico è il confronto, ogni paio di pagine, tra dame inguantate e impellicciate, o splendidamente nude, e “vecchie” mamme curve sull’uncinetto o prostitute, tra un mondo dorato e uno senz’aria. Contro il proustismo e il gidismo = contro il culo dilagante = contro l’establishment.
Ma tutto è establishment, tutto ciò che ha successo. Compresa la sinistra politica. Detto da tanto a sinistra da risultare di destra. Una sensibilità su questo punto talmente acuta da portare all’autoesclusione – Céline è “nato” con un premio Goncourt. Non è misantropia. O è la misantropia dei filantropi.
Erasmo – Non ha ancora un’edizione critica. Per essere rimasto cattolico.
Ermeneutica – Di Marx o della Bibbia o delle pandette, o dello stesso Heidegger, è ancillare e sterile. Serve a rafforzare il principio di autorità, dell’interprete contro il lettore cioè, e non rende neppure servizio a chi onora: costringe testi e autori alla ripetitività e all’insignificanza, li frantuma. È come dice Metodio di Olimpo nel “Simposio”: come i fuchi gira attorno alle foglie delle piante, invece che come l’ape intorno ai fiori e ai frutti.
È intollerabile. Bastano le diverse traduzioni della Bibbia, in ebraico, in greco, in latino, in italiano. E ora Marx, Obama, Andreotti…
Giustizia - È una delle passioni elementari, come la libertà, l’amore, l’odio. Difficile da enucleare e definire, se non intuitivamente, essendo nota a tutti nelle sue più riposte pieghe - la realtà che non è semplificabile in canoni, né normativi né conoscitivi. È stata già in antico materia di tragedia. E spiega il successo del giallo, genera popolare della stessa materia, la popolarizzazione degli stessi plot tragici. Per la sua diffusa latitanza.
Iconografia – Nell’arte “classica”, fino al Settecento, è meno ingenua di quanto sembri. Molto meno. È con l’arte contemporanea che il soggetto si banalizza - come tutto?
Libro - Diverso a ogni lettura, diverso dalle intenzioni dell’autore, è muto. Non argomenta in realtà, neanche il pamphlet, e non entra in contraddizione. È flessibile e muto.
È per questo dominio del lettore – il quale magari ci vorrebbe un messaggio netto, ma ormai è abituato a fantasizzare, anche se secondo certi canoni. In misura maggiore che ogni altra forma di comunicazione. In ragione della massa: il numero delle parole, la forma libro, cioè chiusa, la grafica, del testo e delle copertine (la vecchia Bur è un’altra lettura ce la nuova, anche se incornicia lo stesso testo).
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