Incredibile polpettone – incredibile che sia stato scritto, da un autore stimato, un professore di scrittura creativa a Princeton, che sia stato pubblicato con apparato filologico, note critiche e una lista di crediti da opera classica, che sia osannato. Il titolo sarà la cosa migliore del libro: Hotel de Dream era il bordello di Cora Crane, o Taylor, o Stevens, o McNeil, a Jacksonville, Florida, dove Stephen Crane la incontrò, e che gli si impose come collega giornalista e scrittrice, nonché convivente. O lo sarebbe stata la storia non detta della stessa Cora, qui presentata come un angelo del focolare, che intrattiene nel loro maniero inglese di Brede gli ammiratori di Stephen, Henry James, Conrad, Wells, mica gente da poco, e poi gli prepara una degna fine, tisico, a 29 anni, a Badenweiler nella Foresta Nera. Mentre era donna non bella né specialmente dotata ma volitiva. Che ebbe tre mariti, di cui l’ultimo, giovanissimo, uccise un rivale per amore suo e fu assolto per “motivi d’onore”. E due conviventi, di cui Stephen fu il meno longevo ma il più durevole, consentendole di continuare una carriera letteraria con le migliori riviste americane, quali “Harper’s”. Da Jacksonville, dov’era tornata alla morte di Stephen per riprendere in grande l'attività, tenutaria di una catena di bordelli per una trentina di stanze. Alla fine della sua pienissima vita,una vera biografia made in the Usa (alla morte di Stephen telegrafò all'ambasciata americana a Londra: "Dio s'è ripreso Stephen alle 11.05, organizzatemi il rientro del cane a casa"), Cosa aveva 45 anni.
Qui, nel viaggio verso la Foresta Nera, Stephen Crane immagina di aver scritto e distrutto il romanzo di una passione pedofila, che racconta di nuovo. Con vari registri, in terza persona, in prima, col discorso indiretto del testimone invisibile. Che ne accentuano lo squallore. La storia nella storia White, buon italianista, con un uso piuttosto sofisticato di molti termini italiani, volge al neo realismo, e anzi al pettegolismo in voga: non c’è solo la nota ineluttabile catena delle disgrazie, del “malato perché povero, povero perché orfano, orfano perché succube (qui del padre e dei fratelli), succube perché debole, etc.”, c’è anche la mafia, col pizzo e il mammasantissima. Tutti in subbuglio per una creatura che non è bella né attraente, essa neppure, ma è un bambino o poco più. Forse è la pedofilia che è irredimibile, in tutte le sue forme, anche ai bravi scrittori.
Edmund White, Hotel de Dream, Playground, pp. 224, € 15
sabato 12 dicembre 2009
I tradimenti della politica
Il fatto non si può raccontare, poiché è un giallo. Il tema è un attentato contro un Kurilov, qui ministro dello zar Nicola II mentre il nome ricorre fra i terroristi dell’epoca, a opera di un giovane rivoluzionario che sopravvive alla vicenda. E la ricostruisce. Una storia di molteplici tradimenti. Una sorta di trojaio del potere, sempre nauseabondo – meno dove ci se lo aspetta.
“Ricreato” da Maria Di Leo in veste di traduttrice, il romanzo è una sorta di esame di maturità che Irène Némirovsky si fa del suo talento di narratrice: di un “soggetto” alla Dostoevskij, il nichilista alla vigilia dell’attentato, e poi di Camus con “I giusti”, fa una parabola fortemente realista sugli abusi della passione politica.
Irène Némirovsky, L’affare Kurilov, Adelphi, pp. 192, € 13
“Ricreato” da Maria Di Leo in veste di traduttrice, il romanzo è una sorta di esame di maturità che Irène Némirovsky si fa del suo talento di narratrice: di un “soggetto” alla Dostoevskij, il nichilista alla vigilia dell’attentato, e poi di Camus con “I giusti”, fa una parabola fortemente realista sugli abusi della passione politica.
Irène Némirovsky, L’affare Kurilov, Adelphi, pp. 192, € 13
Il re è nudo, infine, per Bersani
Si smarca dal suo patrono D’Alema, tardo trinariciuto. E dà una lezione di politica a Napolitano, che pure è suo maestro. Non si può dire per questo che è l’uomo del futuro, anzi è facile prevederne, e proprio per questo, per la sua intelligenza, prossima la fine. Ma Bersani è l’unico che ha capito infine il gioco di Berlusconi, che pure è palese: provocare continui plebisciti.
Berlusconi sa quello che tutti sanno, che il sistema politico, se non ancora quello elettorale, è di tipo plebiscitario, e quindi referendario, ogni elezione è un referendum, e quindi estremizza ogni evento, cioè lo semplifica. Sembra semplicistico, ma è solo semplice. Ora questo lo sa pure l’opposizione, Bersani ha rotto l’incantesimo che le impediva di rendersene conto – che poi sono i grandi giornali, i giornali dei padroni furbi, gli altri berlusconi, quelli che non si fanno votare.
Un’elezione-referendum sui giudici e la Corte costituzionale, della quale il meglio che si possa dire è che è goliardica, sarebbe un favore a Berlusconi. Anche la scoperta di Bersani può sembrare – è – l’acqua calda. Ma nell’imbroglio che tiene avvinta l’opposizione è una novità addirittura una rivoluzione. Tanto più dopo la difesa “violenta” che della Corte ha fatto il presidente della Repubblica. Forse per il riflesso condizionato dell’uomo di partito, accresciuto dal blabla domestico al Quirinale sull’imparzialità delle istituzioni – imparzialità? tutti sanno, again, che il presidente della Repubblica non è giudice di nessuno, deve solo dare serenità ed equilibrio al libero dibattito delle opinioni.
Bersani ha infine rivoltato la tattica di Berlusconi, dire quello che tutti sanno – il bambino che del re nudo dice: “Il re è nudo”. È un segno di grande capacità politica. Ma non è un’assicurazione, anzi è facile prevedere che le gazzette del Pd, o di Lor Sigrori, ne faranno polpette. Non subito. Verso Pasqua, dopo le elezioni regionali. La sinistra è avvelenata.
Berlusconi sa quello che tutti sanno, che il sistema politico, se non ancora quello elettorale, è di tipo plebiscitario, e quindi referendario, ogni elezione è un referendum, e quindi estremizza ogni evento, cioè lo semplifica. Sembra semplicistico, ma è solo semplice. Ora questo lo sa pure l’opposizione, Bersani ha rotto l’incantesimo che le impediva di rendersene conto – che poi sono i grandi giornali, i giornali dei padroni furbi, gli altri berlusconi, quelli che non si fanno votare.
Un’elezione-referendum sui giudici e la Corte costituzionale, della quale il meglio che si possa dire è che è goliardica, sarebbe un favore a Berlusconi. Anche la scoperta di Bersani può sembrare – è – l’acqua calda. Ma nell’imbroglio che tiene avvinta l’opposizione è una novità addirittura una rivoluzione. Tanto più dopo la difesa “violenta” che della Corte ha fatto il presidente della Repubblica. Forse per il riflesso condizionato dell’uomo di partito, accresciuto dal blabla domestico al Quirinale sull’imparzialità delle istituzioni – imparzialità? tutti sanno, again, che il presidente della Repubblica non è giudice di nessuno, deve solo dare serenità ed equilibrio al libero dibattito delle opinioni.
Bersani ha infine rivoltato la tattica di Berlusconi, dire quello che tutti sanno – il bambino che del re nudo dice: “Il re è nudo”. È un segno di grande capacità politica. Ma non è un’assicurazione, anzi è facile prevedere che le gazzette del Pd, o di Lor Sigrori, ne faranno polpette. Non subito. Verso Pasqua, dopo le elezioni regionali. La sinistra è avvelenata.
D'Alema, statista tribale
È diventato ormai da sei mesi trinariciuto di prima linea, dopo avere per una vita rivolto appelli alla normalità - come il suo mentore e poi patrocinato Napolitano. E sta mobilitando di Bari ogni soffio e ogni mattone, nelle Procure, nei palazzi, nei trivi, per vincere le regionali fra tre mesi. È il suo obiettivo principale e per ora unico, altro che politica estera dell’Unione europea. O meglio, parodiando il noto detto: Bari è meglio dell'Unione.
All’improvviso D’Alema, quando il suo protetto a Bari, il giudice sindaco Emiliano, rischiò in primavera la rielezione, ha scoperto di non avere fuori della Puglia altro teatro politico, e ad essa si è dedicato. Ha inventato la D’Addario, col giudice Scelsi, per mantenere Emiliano a palazzo di Città. Non perde occasione per denunciare le malefatte di Berlusconi. E impone a Vendola il ritiro dalla candidatura alla rielezione. Cioè la minaccia – la otterrà. Contro tutti ha mobilitato le procure e i tribunali, in Puglia da tempo suoi affezionati: contro Vendola, contro Berlusconi e contro i berlusconiani.
Sembra eccessivo, che l’unico statista italiano riconosciuto si riduca alla dimensione regionale. È anche rischioso, perché sarebbe a questo punto ridicolo perdere le elezioni. Ed è deludente, questo è sicuro. Per Milano, che aveva puntato su di lui, la Milano che conta: il “Corriere della sera”, i banchieri, le grandi famiglie. I banchieri soprattutto erano stati uniti dalla sua leadership, destra e sinistra insieme: Geronzi e Mediobanca con Bazoli e Profumo. Ma il richiamo del sangue è stato più forte: il fallimento di Emiliano al primo turno delle amministrative ha fatto scattare in D’Alema un incontrollabile riflesso tribale.
All’improvviso D’Alema, quando il suo protetto a Bari, il giudice sindaco Emiliano, rischiò in primavera la rielezione, ha scoperto di non avere fuori della Puglia altro teatro politico, e ad essa si è dedicato. Ha inventato la D’Addario, col giudice Scelsi, per mantenere Emiliano a palazzo di Città. Non perde occasione per denunciare le malefatte di Berlusconi. E impone a Vendola il ritiro dalla candidatura alla rielezione. Cioè la minaccia – la otterrà. Contro tutti ha mobilitato le procure e i tribunali, in Puglia da tempo suoi affezionati: contro Vendola, contro Berlusconi e contro i berlusconiani.
Sembra eccessivo, che l’unico statista italiano riconosciuto si riduca alla dimensione regionale. È anche rischioso, perché sarebbe a questo punto ridicolo perdere le elezioni. Ed è deludente, questo è sicuro. Per Milano, che aveva puntato su di lui, la Milano che conta: il “Corriere della sera”, i banchieri, le grandi famiglie. I banchieri soprattutto erano stati uniti dalla sua leadership, destra e sinistra insieme: Geronzi e Mediobanca con Bazoli e Profumo. Ma il richiamo del sangue è stato più forte: il fallimento di Emiliano al primo turno delle amministrative ha fatto scattare in D’Alema un incontrollabile riflesso tribale.
venerdì 11 dicembre 2009
Perché non dirsi di sinistra?
Protestano i presidenti della Repubblica: non siamo di sinistra. Mentre lo sono: non ha senso per un presidente protestare e alimentare polemiche. L’unico che non protesta è Scalfaro, che essendo stato sempre di destra vuole forse morire, come Montanelli, a sinistra. Il presidente Napolitano non perde occasione per spiegare paziente che un presidente è al di sopra delle parti: il politico, giunto al Quirinale, si spoglia delle sue passioni di parte, ripete. Siano pure quelle di una vita di impegno nel Pci e successori. Uomo delle istituzioni si vuole pure l’ex presidente Ciampi.
Ma che vuole dire: delle istituzioni? Del nulla? Non è possibile. E allora? Napolitano e Ciampi spesso bacchettano Berlusconi. Compiono cioè atti politici. Cui hanno diritto come tutti, ma perché negarlo?
Ciampi offre una curiosa chiave di lettura, nell’intervista di oggi al “Corriere della sera”. “Chi ho nominato io?” alla Corte costituzionale, chiede retoricamente, e nomina cinque tra avvocati e giuristi: “Stimatissimi e di chiara fama, scelti non per un gioco di bilancino politico”, non “pasionari di una fantomatica sinistra”. No, pasionari no, ma tutti con biografie dichiaratamente di sinistra, laica o confessionale. Perché non riconoscerlo? Anzi, non proclamarlo? E perché la sinistra sarebbe “fantomatica”?
Sembra ipocrisia, ma non lo è. È una forma di violenza. È qui la radice del perpetuo scontro che avvelena, e annichila la politica da quasi vent’anni ormai: il fatto che la sinistra arruoli di preferenza chi di sinistra non è, e che si pretenda al di sopra delle parti.
Ma che vuole dire: delle istituzioni? Del nulla? Non è possibile. E allora? Napolitano e Ciampi spesso bacchettano Berlusconi. Compiono cioè atti politici. Cui hanno diritto come tutti, ma perché negarlo?
Ciampi offre una curiosa chiave di lettura, nell’intervista di oggi al “Corriere della sera”. “Chi ho nominato io?” alla Corte costituzionale, chiede retoricamente, e nomina cinque tra avvocati e giuristi: “Stimatissimi e di chiara fama, scelti non per un gioco di bilancino politico”, non “pasionari di una fantomatica sinistra”. No, pasionari no, ma tutti con biografie dichiaratamente di sinistra, laica o confessionale. Perché non riconoscerlo? Anzi, non proclamarlo? E perché la sinistra sarebbe “fantomatica”?
Sembra ipocrisia, ma non lo è. È una forma di violenza. È qui la radice del perpetuo scontro che avvelena, e annichila la politica da quasi vent’anni ormai: il fatto che la sinistra arruoli di preferenza chi di sinistra non è, e che si pretenda al di sopra delle parti.
Miracolo a Sant'Anna
Rivisto lontano dalle polemiche, nella programmazione Sky, è un filmone. Visivamente forte, con una drammaturgia sempre tesa, per tutte le due ore e mezza. Con dialoghi incredibilmente efficaci, fini, attraenti, per un film “italiano”. Un vero miracolo. Che dice la verità sulla guerra, sulle guerre. Sul razzismo che l’America ha appena smesso, nelle istituzioni e nella popolazione – da questo punto di vista è il miglior film di Spike Lee, anche se a ridosso gli è caduta sopra la valanga Obama. E sulle ambiguità della Resistenza negli Appennini e le Apuane – testimoniata da mille eventi, e per di più ancora attuale, con lunghi strascichi familiari se non più giudiziari. In cui nessuna ingiuria, di nessun tipo, nessuna offesa si può intravedere anche alla vulgata della Resistenza di chi non discute. E allora?
L’unica cosa di cui il film fa dubitare è la buona coscienza italiana. Non tanto il film quanto l’accoglienza: tiepida, sdegnosa (“un’americanata”, “storicamente sbagliato” – storicamente?), faziosa. Come se l’Italia avesse avuto un altro film di uguale potenza sulle efferatezze della guerra, comprese le decimazioni naziste e i tradimenti.
Spike Lee, Miracolo a Sant’Anna
L’unica cosa di cui il film fa dubitare è la buona coscienza italiana. Non tanto il film quanto l’accoglienza: tiepida, sdegnosa (“un’americanata”, “storicamente sbagliato” – storicamente?), faziosa. Come se l’Italia avesse avuto un altro film di uguale potenza sulle efferatezze della guerra, comprese le decimazioni naziste e i tradimenti.
Spike Lee, Miracolo a Sant’Anna
Pace con Murdoch: per Berlusconi paga la Rai
Saranno due mesi a Natale che i giornali di Murdoch non attaccano più Berlusconi, al quale per tutta la lunga estate hanno dedicato una e anche due pagine. “Times” “Sunday Times”, “Wall Street Journal” all’improvviso non hanno trovato più nulla da mettere in berlina dei tanti garbugli di Berlusconi, con la mafia, i giudici e la moglie. Anche Sky Tg 24 ha all’improvviso ritrovato un equilibrio, non inonda più i suoi abbonati, a 500 euro l’anno, di berlusconate.
Parallelamente, la gestione berlusconiana della Rai si è ritirata dal satellite. È in rosso e indebitata, e avrebbe tutto l’interesse ad accrescere l’offerta e il fatturato, sul satellite e i new media, la dove può. Ma c’era, sul satellite nei new media, e ora non c’è più. Sul satellite aveva anche canali di successo, il Gambero Rosso, Rai News 24, Rai Cinema, etc., una quindicina di canali, con i quali, con minima spesa, incassava un centinaio di milioni di pubblicità, garantita da Sky.
Il mancato rinnovo del contratto con Sky fu all’origine della violenta campagna dell’editore australiano contro Berlusconi: si supponeva che la Rai passasse da Sky a un’alleanza con Mediaset, che stava per lanciare una sfida sul satellite al monopolista Sky. Ma niente di tutto questo è avvenuto: Mediaset ha ridimensionato la sua sfida a Sky con la pay tv sul digitale terrestre, e la Rai ha finito per abbandonare semplicemente il satellite, riducendo l’offerta supplementare a tre soli canali sul digitale terrestre.
I due esiti sono diversi. Per Mediaset il digitale terrestre può essere una pace onorevole con Sky, giacché può sviluppare la pay tv, con lo sport e il cinema - senza alcun costo tecnico. La Rai invece, che non può fare pay tv, ha semplicemente rinunciato a sviluppare una presenza satellitare che desse ombra a Sky. Come se suol dire, se li è tagliati non richiesta. O su richiesta di Berlusconi. La tracotanza di Sky arriva al punto di oscurare la Rai sul satellite ogni volta che i programmi in libera fruizione sull’emittente pubblica concorrono con i suoi a pagamento.
Parallelamente, la gestione berlusconiana della Rai si è ritirata dal satellite. È in rosso e indebitata, e avrebbe tutto l’interesse ad accrescere l’offerta e il fatturato, sul satellite e i new media, la dove può. Ma c’era, sul satellite nei new media, e ora non c’è più. Sul satellite aveva anche canali di successo, il Gambero Rosso, Rai News 24, Rai Cinema, etc., una quindicina di canali, con i quali, con minima spesa, incassava un centinaio di milioni di pubblicità, garantita da Sky.
Il mancato rinnovo del contratto con Sky fu all’origine della violenta campagna dell’editore australiano contro Berlusconi: si supponeva che la Rai passasse da Sky a un’alleanza con Mediaset, che stava per lanciare una sfida sul satellite al monopolista Sky. Ma niente di tutto questo è avvenuto: Mediaset ha ridimensionato la sua sfida a Sky con la pay tv sul digitale terrestre, e la Rai ha finito per abbandonare semplicemente il satellite, riducendo l’offerta supplementare a tre soli canali sul digitale terrestre.
I due esiti sono diversi. Per Mediaset il digitale terrestre può essere una pace onorevole con Sky, giacché può sviluppare la pay tv, con lo sport e il cinema - senza alcun costo tecnico. La Rai invece, che non può fare pay tv, ha semplicemente rinunciato a sviluppare una presenza satellitare che desse ombra a Sky. Come se suol dire, se li è tagliati non richiesta. O su richiesta di Berlusconi. La tracotanza di Sky arriva al punto di oscurare la Rai sul satellite ogni volta che i programmi in libera fruizione sull’emittente pubblica concorrono con i suoi a pagamento.
Le campagne contro la Roma calcio
Quattro vittorie della Roma, anche fortunose, o tre, e Unicredit si scorda di mandare l’ufficiale giudiziario ai Sensi, proprietari della squadra. Intanto, il titolo si risolleva, da 0,55 a 0,81, di un cinquanta per cento. E dunque la società non è da ufficiale giudiziario?
La vicenda sembra da poco ma è utile ogni tanto fare il punto su di essa: è un documento sull’Italia di oggi, il suo mercato, la sua economia, la sua informazione. Una vicenda che, se ci sarà un domani, sarà letta con meraviglia di quanto poco seria sia questa Italia, quella che “non lavora”.
Il fatto è semplice: c’è una famiglia che si è indebitata per la squadra di calcio As Roma, e un banca che deve rientrare del debito. Ci si aspetterebbe che la famiglia tenti di ripagare il debito, e la banca di rientrare – a meno certo di una dichiarazione di fallimento. Ma mentre Rosella Sensi per la famiglia ci tenta, la banca fa di tutto per impedirglielo. Non la consiglia, l’accompagna, la favorisce nelle cessioni, al contrario: fa di tutto per impedirle una corretta gestione, s’inventa compratori che mai poi fanno un’offerta per nessun cespite, e soprattutto diffonde voci malevole.
Su tutto questo i giornali sguazzano senza limiti nelle cronache locali. Alcuni. Alcuni dei giornali seri, che i lettori reputano attendibili, specie “Il Messaggero” e il “Corriere della sera”, la "Gazzetta dello Sport". Che ne fanno a lunghezza d’anno, ormai da tre anni, ludibrio. In forme che non rientrano in nessuna tipologia di giornalismo, se non nei cori insensati da stadio. Per motivi che non dicono, ma che al novantanove per cento sono questi. “Il Messaggero” è di proprietà del costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, concorrente dei padroni della Roma nei progetti di nuovo stadio, e della relativa urbanizzazione. Mentre i tre anni sono a datare dal passaggio della Banca di Roma, che finanziava i Sensi e l’As Roma, a Unicredit. E la banca può essere all’origine dell’assurdo giornalismo del “Corriere della sera”, di cui è azionista – nonché, per voler milanesizzare rapidamente la Banca di Roma, della schizofrenia verso questi suoi grandi debitori romani.
Su tutto questo vigila, cioè non vigila, la Consob. Che avrebbe dovuto per lo meno sospendere il titolo in Borsa, e invece non lo fa. E di fronte alle voci diffuse dal “Corriere della sera”, dal “Messaggero”, da Unicredit fa finta di niente. E magari non ha nemmeno la sua parte dell’aggiotaggio... Ma come è possibile che la maggiore, o seconda più grande, banca italiana faccia una serie di decreti ingiuntivi, a carico (indirettamente) di una società quotata in Borsa, che non è né fallita né in amministrazione controllata?
E' un'altra storia paradigmatica del governo di Milano. Naturalmente non c'entra "Milano" nei guai della Roma calcio. Il fatto che la Roma sia l'unica squadra che in questi tre anni di vuoto creato dalla coppia Rossi-Borrelli, che per caso sono interisti, abbia tentato e peprfino (quasi) riuscito di rubare lo scudetto all'Inter. Naturalmente Valdisserri e gli altri giornalisti che periodicamente fanno campagna sconsiderata contro i Sensi sono solo dei tifosi e dei cronisti sportivi. Ma naturalmente "Milano" c'è, il riflesso condizionato è quello.
La vicenda sembra da poco ma è utile ogni tanto fare il punto su di essa: è un documento sull’Italia di oggi, il suo mercato, la sua economia, la sua informazione. Una vicenda che, se ci sarà un domani, sarà letta con meraviglia di quanto poco seria sia questa Italia, quella che “non lavora”.
Il fatto è semplice: c’è una famiglia che si è indebitata per la squadra di calcio As Roma, e un banca che deve rientrare del debito. Ci si aspetterebbe che la famiglia tenti di ripagare il debito, e la banca di rientrare – a meno certo di una dichiarazione di fallimento. Ma mentre Rosella Sensi per la famiglia ci tenta, la banca fa di tutto per impedirglielo. Non la consiglia, l’accompagna, la favorisce nelle cessioni, al contrario: fa di tutto per impedirle una corretta gestione, s’inventa compratori che mai poi fanno un’offerta per nessun cespite, e soprattutto diffonde voci malevole.
Su tutto questo i giornali sguazzano senza limiti nelle cronache locali. Alcuni. Alcuni dei giornali seri, che i lettori reputano attendibili, specie “Il Messaggero” e il “Corriere della sera”, la "Gazzetta dello Sport". Che ne fanno a lunghezza d’anno, ormai da tre anni, ludibrio. In forme che non rientrano in nessuna tipologia di giornalismo, se non nei cori insensati da stadio. Per motivi che non dicono, ma che al novantanove per cento sono questi. “Il Messaggero” è di proprietà del costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, concorrente dei padroni della Roma nei progetti di nuovo stadio, e della relativa urbanizzazione. Mentre i tre anni sono a datare dal passaggio della Banca di Roma, che finanziava i Sensi e l’As Roma, a Unicredit. E la banca può essere all’origine dell’assurdo giornalismo del “Corriere della sera”, di cui è azionista – nonché, per voler milanesizzare rapidamente la Banca di Roma, della schizofrenia verso questi suoi grandi debitori romani.
Su tutto questo vigila, cioè non vigila, la Consob. Che avrebbe dovuto per lo meno sospendere il titolo in Borsa, e invece non lo fa. E di fronte alle voci diffuse dal “Corriere della sera”, dal “Messaggero”, da Unicredit fa finta di niente. E magari non ha nemmeno la sua parte dell’aggiotaggio... Ma come è possibile che la maggiore, o seconda più grande, banca italiana faccia una serie di decreti ingiuntivi, a carico (indirettamente) di una società quotata in Borsa, che non è né fallita né in amministrazione controllata?
E' un'altra storia paradigmatica del governo di Milano. Naturalmente non c'entra "Milano" nei guai della Roma calcio. Il fatto che la Roma sia l'unica squadra che in questi tre anni di vuoto creato dalla coppia Rossi-Borrelli, che per caso sono interisti, abbia tentato e peprfino (quasi) riuscito di rubare lo scudetto all'Inter. Naturalmente Valdisserri e gli altri giornalisti che periodicamente fanno campagna sconsiderata contro i Sensi sono solo dei tifosi e dei cronisti sportivi. Ma naturalmente "Milano" c'è, il riflesso condizionato è quello.
giovedì 10 dicembre 2009
Victor, o della verità
Victor Zaslavsky era uno scrittore e un uomo di spirito e non se ne meravigliava. Era per molti aspetti lui stesso Petrov, il personaggio del suo racconto più noto, che vive in punta di piedi, per non scomodare, e muore con leggerezza, senza sofferenze da compartire. Per consolarsi proponendosi candidamente la considerazione che “anche la peggior salute regge fino alla morte”. Ma come storico non poteva non porsi la domanda, era parte essa stessa della sua ricerca: com’è possibile che il maggior storico italiano, contemporaneista, di questo millennio, sia un russo?
Victor era anzitutto una bella persona. Era bright, d’intelligenza luminosa: rapido, attento, generoso. Irrequieto in una sua maniera equilibrata, costruttiva. Di un’identità sempre forte, nelle tante avversità. Nei rapporti personali come in quelli familiari e in quelli politici. Per la forza del radicamento originario che ha sempre sentito, come quella della famiglia. Canadese di passaporto, italiano d’elezione, emigrato politico dall'Urss nel 1974, il professor Zaslavsky si voleva ed era russo. Dei nipoti ha seguito fino a un istante prima l’educazione, che visitava regolarmente in America e ai quali imponeva, si può dire, la lingua e la cultura russa nelle vacanze italiane che per loro organizzava ogni anno con cura, per far loro conoscere l’Europa, e la Russia: emigrati già di terza generazione in poco più di trent’anni, di cui rinsaldava le radici. Quelle che lui aveva dovuto abbandonare nel 1974, a 38 anni, perché boicottato e anche minacciato per la sua modesta critica del socialismo reale. Sembra un altro mondo ma era solo ieri che i cittadini russi venivano cacciati per motivi politici, e ridotti in solitudine a Ostia o altri campi profughi. Alla ricerca di difficili contatti con i locali slavisti, di collaborazioni al “Mondo Operaio” allora di Federico Coen, la rivista del partito Socialista, di incarichi nelle università italiane, americane, canadesi, di un editore.
“Non ho fatto niente di particolarmente eclatante per essere espulso, non ero un dissidente ma solo un intellettuale che pensava con la propria testa. E anche questo era potenzialmente pericoloso per un regime come quello sovietico”. Con queste poche parole, semplici e senza enfasi, Victor raccontava la sua espulsione dall’Unione Sovietica nel 1974, nell’intervista pubblicata su “L’Osservatore Romano” dello scorso 7 novembre, venti giorni prima della morte. Una morte che solo “L’Osservatore Romano” rileverà, e in breve il “Corriere della sera” - e questo è l’altra parte del discorso: del conformismo della storiografia e dell’opinione pubblica in Italia, che non cessava di meravigliare la persona, prima ancora che lo studioso. Victor era un professore ma per nulla socratico: curioso, controversista, perditempo. Anche se per nulla accomodante, anzi di etica ferrea, quello per cui una cosa è una cosa e non un’altra. Rideva perciò delle politiche dell’Italia, che in qualche modo l’ha ospitato – con lui si rideva, la conversazione era un divertimento, senza punte, senza stridori, le cose essendo note, sapute, sottintese.
La buona letteratura era per lui miglior faro. Victor era scrittore satirico in proprio. Una raccolta di racconti, “Il dottor Petrov parapsicologo”, che ancora si legge con piacere, è stata tradotta in italiano per Sellerio nel 1984 da Antonella D’Amelia e Maria Fabris. Per lo stesso editore ha curato anche in quegli anni una serie non fortunata di scrittori russi all’epoca sovietica, Tynianov, Hazanov, Evghenij Zamjatin, Fazil’ Iskander, Ljudmila Shtern, forse troppo delicati per il gusto forte del mercato – o forse il rifiuto andava allo scarso sovietismo, più che al calligrafismo dei Tynianov: Zamjatin è l'autore di "Noi", che nel 1919 anticipò e satireggiò il totalitarismo (influenzerà Orwell in "1984"), fu il primo autore censurato dal nuovo regime sovietico nel 1921, ed è tuttora ignorato in Italia (come del resto "1984"). E per primo ha proposto Šalamov, i terribili “Racconti di Kolima”, seppure in una scelta ridotta. Ma più lo illuminava la saggezza.
Victor non si poneva la domanda sul conformismo della storie italiche. Ne avrebbe avuto ben motivo: gli archivi a cui aveva accesso a Mosca erano solo una parte, la meno sordida, della storia del Pci, altri canali di finanziamento, ben più solidi, erano le finanziarie “svizzere” dove confluivano le tangenti sugli affari con l’Urss dell’Eni, la Fiat, la Finsider, la Finmeccanica e le tantissime aziende minori che volevano lavorare con l’Urss (dalla loro liquidazione, con la liquidazione del Pci, sono derivati i capitali di avviamento delle miriadi di case editrici d’area sorte negli anni Novanta). Ma Victor non aveva vis polemica. A lungo era stato in Italia la fonte degli studi più spassionati, benché avvertiti, sull’Unione Sovietica. E la stessa attitudine, di ponderato giudizio, mantenne dopo, quando pure lo scandalismo sarebbe stato facile.
La tentazione per uno come lui sembrava anche forte. Per il risentimento del fuoriuscito. E per la sua stessa concezione del lavoro di storico, che ha sintetizzato nella rivista “Ventunesimo secolo”, che animava, come l’obbligo di capire il presente – “la storia è sempre contemporanea”. La sua idea della storia è che essa va fatta (detta, raccolta, individuata, inquadrata) mentre avviene. Di cui certo non gli mancavano esempi, specie nella tradizione quattro e cinquecentesca italiana, ma allora vincolati alla passione. Da cui invece personalmente sapeva distanziarsi. Victor ha costituito per un trentennio la migliore fonte “italiana”, se non l’unica spassionata, sulla Unione Sovietica, l’organizzazione politica reale, le nazionalità, le tendenze. E poi, ad archivi aperti dopo il crollo del sovietismo, sui rapporti tra il Pci e Stalin, durante e dopo la guerra, anche per l’impulso di Elena Aga-Rossi, che degli assetti post bellici, dall’8 settembre alla guerra fredda è un’autorità. Dal primissimo “Il consenso organizzato”, pubblicato dal Mulino sette anni dopo l’arrivo di Victor in Italia, all'eccidio rimosso di Katyn, alla pubblicazione infine anche in Italia, dopo venti anni, di Margarete Buber Neumann, della consegna che Stalin fece a Hitler dei comunisti tedeschi rifugiati a Mosca, al recente “Togliatti e Stalin”. Un tempo insidioso, e ancora non digerito in Italia malgrado il crollo del Muro, ma su cui egli si muoveva senza pregiudizio. Seppure da sociologo politico, con giudizio cioè calibrato sui principi, piuttosto che da storico, come ambiva.
Si deve a lui l’individuazione tempestiva di quella che a tutt’oggi sembra la chiave del crollo subitaneo del sovietismo, la categoria della contro-modernizzazione. La vivacissima, ramificatissima, struttura politica dell’Unione Sovietica, decimata da Stalin, si è anchilosata con la guerra fredda nel complesso militare-industriale, con la netta prevalenza del Kgb, i servizi d’informazione, sul Pcus, il partito comunista. Il sistema sovietico viveva per alimentare la potenza mondiale, inducendo un arretramento netto della mobilità politica, dello sviluppo delle condizioni materiali di vita, e delle aspettative delle nazionalità, dentro l’Urss e fuori, nel dominio di potenza riservato, presso le quali Mosca prosperò finché fu una promessa ma non riuscì a imporsi come sistema di potere.
A fronte di questa semplice, gigantesca, categoria interpretativa della storia di metà Europa, e del suo destino, l’accertamento dei fatti che, con Elena Aga-Rossi, Victor ha condotto a proposito dei rapporti del Pci col Pcus e di Togliatti con Stalin, in “Lo stalinismo e la sinistra italiana”, e “Togliatti e Stalin” sembra poca cosa. Il lavoro dello storico è sempre “poca cosa”, nel senso che è modesto, si attiene ai fatti, e preciso. E tuttavia è la chiave della storia d’Italia nella Repubblica, fino alle convulsioni, tanto fittizie quanto violente, di ogni giorno: è la storia di una verità che sempre si rifiuta, si omette, si tace, ostracizzandola nell’insulto o, nella migliore delle ipotesi, nell’isolamento.
Victor non era isolato. Poiché era pubblicato ed era letto. Ma non come sarebbe piaciuto a lui. Senza faziosità. Introducendo i “Racconti di Kolima”, Victor fa di Šalamov, rinchiuso per venti anni (sarà liberato solo nel 1956, e in che condizioni: obbligato al silenzio in patria e alla povertà fino alla morte, cioè fino al 1982…) nel campo di lavoro più duro nel circolo polare, uno sfidante di Stalin: un intellettuale, solo, prigioniero in condizioni inumane, sfida il dittatore dell’Unione Sovietica, lo sterminatore dei comunisti, il vincitore di Hitler. Si può, non da incoscienti. Nel nome della verità.
Victor era a mezzo tra le due figure di ex comunisti di Hannah Arendt, chi è cresciuto nel Partito, poi abbandonandolo, e chi – specie gli artisti, gli intellettuali – col Partito ha fatto pezzi di strada assieme. O meglio “tra ex comunisti e coloro che hanno un passato comunista”, i primi portando nelle nuove esperienze i difetti della vecchia, la faziosità, la durezza. Non c’è una classificazione degli emigranti russi degli anni Settanta, quasi tutti obbligati, anche se rientravano negli accordi di Mosca con Kissinger. Ma è evidente che la categoria arendtiana dell’ex comunista anticomunista va loro stretta. Intanto perché implica un antirussismo (antipatriottismo) che in molti di loro non c’è, e non ci può essere: per loro si trattava di emigrare da un sistema politico a un altro, e non di andare in cerca di fortuna, come per gli ex comunisti occidentali, o di lasciare un giornale per un altro, una rivista per un’altra, o un gruppo di frequentazione o di riferimento. E perché negli anni 1970 emigrarono russi nati ed educati nel socialismo, seppure con gli anticorpi sovietici. Solženicyn e Zinov’ev da una parte, un Brodskij o Victor, appunto, dall’altra.
Detto questo, è anche chiaro che Victor è stato vittima del conformismo del Pci, anche dopo il 1989. A suo modo, divertito e non arcigno, il paradigma arendtiano finiva per assorbirlo. Anche se per un aspetto che la filosofa, operando sulla realtà americana, non considera: si può finire astretti all’anticomunismo in una realtà culturale (istituzionale, accademica, giornalistica) di stretta osservanza, anche se non si sa di che (e perfino al berlusconismo, in tanti casi ormai celebri: Vertone, Colletti, Ferrara, Bondi, etc.). Victor, seppure al suo modo, lieve, sarà stato vittima per molti aspetti dell’utopia, del socialismo che si vuole non autoritario, censorio, totalitario, imperialista, distruttore di risorse - ciò che infine s’intende per sovietismo. Che anche per questo trova all’Ovest una collocazione ardua, oltre che per essere un espatriato e un estraneo. E sempre è e vuol essere russo, anche quando le condizioni della vita gli impongono l’esilio.
Victor era anzitutto una bella persona. Era bright, d’intelligenza luminosa: rapido, attento, generoso. Irrequieto in una sua maniera equilibrata, costruttiva. Di un’identità sempre forte, nelle tante avversità. Nei rapporti personali come in quelli familiari e in quelli politici. Per la forza del radicamento originario che ha sempre sentito, come quella della famiglia. Canadese di passaporto, italiano d’elezione, emigrato politico dall'Urss nel 1974, il professor Zaslavsky si voleva ed era russo. Dei nipoti ha seguito fino a un istante prima l’educazione, che visitava regolarmente in America e ai quali imponeva, si può dire, la lingua e la cultura russa nelle vacanze italiane che per loro organizzava ogni anno con cura, per far loro conoscere l’Europa, e la Russia: emigrati già di terza generazione in poco più di trent’anni, di cui rinsaldava le radici. Quelle che lui aveva dovuto abbandonare nel 1974, a 38 anni, perché boicottato e anche minacciato per la sua modesta critica del socialismo reale. Sembra un altro mondo ma era solo ieri che i cittadini russi venivano cacciati per motivi politici, e ridotti in solitudine a Ostia o altri campi profughi. Alla ricerca di difficili contatti con i locali slavisti, di collaborazioni al “Mondo Operaio” allora di Federico Coen, la rivista del partito Socialista, di incarichi nelle università italiane, americane, canadesi, di un editore.
“Non ho fatto niente di particolarmente eclatante per essere espulso, non ero un dissidente ma solo un intellettuale che pensava con la propria testa. E anche questo era potenzialmente pericoloso per un regime come quello sovietico”. Con queste poche parole, semplici e senza enfasi, Victor raccontava la sua espulsione dall’Unione Sovietica nel 1974, nell’intervista pubblicata su “L’Osservatore Romano” dello scorso 7 novembre, venti giorni prima della morte. Una morte che solo “L’Osservatore Romano” rileverà, e in breve il “Corriere della sera” - e questo è l’altra parte del discorso: del conformismo della storiografia e dell’opinione pubblica in Italia, che non cessava di meravigliare la persona, prima ancora che lo studioso. Victor era un professore ma per nulla socratico: curioso, controversista, perditempo. Anche se per nulla accomodante, anzi di etica ferrea, quello per cui una cosa è una cosa e non un’altra. Rideva perciò delle politiche dell’Italia, che in qualche modo l’ha ospitato – con lui si rideva, la conversazione era un divertimento, senza punte, senza stridori, le cose essendo note, sapute, sottintese.
La buona letteratura era per lui miglior faro. Victor era scrittore satirico in proprio. Una raccolta di racconti, “Il dottor Petrov parapsicologo”, che ancora si legge con piacere, è stata tradotta in italiano per Sellerio nel 1984 da Antonella D’Amelia e Maria Fabris. Per lo stesso editore ha curato anche in quegli anni una serie non fortunata di scrittori russi all’epoca sovietica, Tynianov, Hazanov, Evghenij Zamjatin, Fazil’ Iskander, Ljudmila Shtern, forse troppo delicati per il gusto forte del mercato – o forse il rifiuto andava allo scarso sovietismo, più che al calligrafismo dei Tynianov: Zamjatin è l'autore di "Noi", che nel 1919 anticipò e satireggiò il totalitarismo (influenzerà Orwell in "1984"), fu il primo autore censurato dal nuovo regime sovietico nel 1921, ed è tuttora ignorato in Italia (come del resto "1984"). E per primo ha proposto Šalamov, i terribili “Racconti di Kolima”, seppure in una scelta ridotta. Ma più lo illuminava la saggezza.
Victor non si poneva la domanda sul conformismo della storie italiche. Ne avrebbe avuto ben motivo: gli archivi a cui aveva accesso a Mosca erano solo una parte, la meno sordida, della storia del Pci, altri canali di finanziamento, ben più solidi, erano le finanziarie “svizzere” dove confluivano le tangenti sugli affari con l’Urss dell’Eni, la Fiat, la Finsider, la Finmeccanica e le tantissime aziende minori che volevano lavorare con l’Urss (dalla loro liquidazione, con la liquidazione del Pci, sono derivati i capitali di avviamento delle miriadi di case editrici d’area sorte negli anni Novanta). Ma Victor non aveva vis polemica. A lungo era stato in Italia la fonte degli studi più spassionati, benché avvertiti, sull’Unione Sovietica. E la stessa attitudine, di ponderato giudizio, mantenne dopo, quando pure lo scandalismo sarebbe stato facile.
La tentazione per uno come lui sembrava anche forte. Per il risentimento del fuoriuscito. E per la sua stessa concezione del lavoro di storico, che ha sintetizzato nella rivista “Ventunesimo secolo”, che animava, come l’obbligo di capire il presente – “la storia è sempre contemporanea”. La sua idea della storia è che essa va fatta (detta, raccolta, individuata, inquadrata) mentre avviene. Di cui certo non gli mancavano esempi, specie nella tradizione quattro e cinquecentesca italiana, ma allora vincolati alla passione. Da cui invece personalmente sapeva distanziarsi. Victor ha costituito per un trentennio la migliore fonte “italiana”, se non l’unica spassionata, sulla Unione Sovietica, l’organizzazione politica reale, le nazionalità, le tendenze. E poi, ad archivi aperti dopo il crollo del sovietismo, sui rapporti tra il Pci e Stalin, durante e dopo la guerra, anche per l’impulso di Elena Aga-Rossi, che degli assetti post bellici, dall’8 settembre alla guerra fredda è un’autorità. Dal primissimo “Il consenso organizzato”, pubblicato dal Mulino sette anni dopo l’arrivo di Victor in Italia, all'eccidio rimosso di Katyn, alla pubblicazione infine anche in Italia, dopo venti anni, di Margarete Buber Neumann, della consegna che Stalin fece a Hitler dei comunisti tedeschi rifugiati a Mosca, al recente “Togliatti e Stalin”. Un tempo insidioso, e ancora non digerito in Italia malgrado il crollo del Muro, ma su cui egli si muoveva senza pregiudizio. Seppure da sociologo politico, con giudizio cioè calibrato sui principi, piuttosto che da storico, come ambiva.
Si deve a lui l’individuazione tempestiva di quella che a tutt’oggi sembra la chiave del crollo subitaneo del sovietismo, la categoria della contro-modernizzazione. La vivacissima, ramificatissima, struttura politica dell’Unione Sovietica, decimata da Stalin, si è anchilosata con la guerra fredda nel complesso militare-industriale, con la netta prevalenza del Kgb, i servizi d’informazione, sul Pcus, il partito comunista. Il sistema sovietico viveva per alimentare la potenza mondiale, inducendo un arretramento netto della mobilità politica, dello sviluppo delle condizioni materiali di vita, e delle aspettative delle nazionalità, dentro l’Urss e fuori, nel dominio di potenza riservato, presso le quali Mosca prosperò finché fu una promessa ma non riuscì a imporsi come sistema di potere.
A fronte di questa semplice, gigantesca, categoria interpretativa della storia di metà Europa, e del suo destino, l’accertamento dei fatti che, con Elena Aga-Rossi, Victor ha condotto a proposito dei rapporti del Pci col Pcus e di Togliatti con Stalin, in “Lo stalinismo e la sinistra italiana”, e “Togliatti e Stalin” sembra poca cosa. Il lavoro dello storico è sempre “poca cosa”, nel senso che è modesto, si attiene ai fatti, e preciso. E tuttavia è la chiave della storia d’Italia nella Repubblica, fino alle convulsioni, tanto fittizie quanto violente, di ogni giorno: è la storia di una verità che sempre si rifiuta, si omette, si tace, ostracizzandola nell’insulto o, nella migliore delle ipotesi, nell’isolamento.
Victor non era isolato. Poiché era pubblicato ed era letto. Ma non come sarebbe piaciuto a lui. Senza faziosità. Introducendo i “Racconti di Kolima”, Victor fa di Šalamov, rinchiuso per venti anni (sarà liberato solo nel 1956, e in che condizioni: obbligato al silenzio in patria e alla povertà fino alla morte, cioè fino al 1982…) nel campo di lavoro più duro nel circolo polare, uno sfidante di Stalin: un intellettuale, solo, prigioniero in condizioni inumane, sfida il dittatore dell’Unione Sovietica, lo sterminatore dei comunisti, il vincitore di Hitler. Si può, non da incoscienti. Nel nome della verità.
Victor era a mezzo tra le due figure di ex comunisti di Hannah Arendt, chi è cresciuto nel Partito, poi abbandonandolo, e chi – specie gli artisti, gli intellettuali – col Partito ha fatto pezzi di strada assieme. O meglio “tra ex comunisti e coloro che hanno un passato comunista”, i primi portando nelle nuove esperienze i difetti della vecchia, la faziosità, la durezza. Non c’è una classificazione degli emigranti russi degli anni Settanta, quasi tutti obbligati, anche se rientravano negli accordi di Mosca con Kissinger. Ma è evidente che la categoria arendtiana dell’ex comunista anticomunista va loro stretta. Intanto perché implica un antirussismo (antipatriottismo) che in molti di loro non c’è, e non ci può essere: per loro si trattava di emigrare da un sistema politico a un altro, e non di andare in cerca di fortuna, come per gli ex comunisti occidentali, o di lasciare un giornale per un altro, una rivista per un’altra, o un gruppo di frequentazione o di riferimento. E perché negli anni 1970 emigrarono russi nati ed educati nel socialismo, seppure con gli anticorpi sovietici. Solženicyn e Zinov’ev da una parte, un Brodskij o Victor, appunto, dall’altra.
Detto questo, è anche chiaro che Victor è stato vittima del conformismo del Pci, anche dopo il 1989. A suo modo, divertito e non arcigno, il paradigma arendtiano finiva per assorbirlo. Anche se per un aspetto che la filosofa, operando sulla realtà americana, non considera: si può finire astretti all’anticomunismo in una realtà culturale (istituzionale, accademica, giornalistica) di stretta osservanza, anche se non si sa di che (e perfino al berlusconismo, in tanti casi ormai celebri: Vertone, Colletti, Ferrara, Bondi, etc.). Victor, seppure al suo modo, lieve, sarà stato vittima per molti aspetti dell’utopia, del socialismo che si vuole non autoritario, censorio, totalitario, imperialista, distruttore di risorse - ciò che infine s’intende per sovietismo. Che anche per questo trova all’Ovest una collocazione ardua, oltre che per essere un espatriato e un estraneo. E sempre è e vuol essere russo, anche quando le condizioni della vita gli impongono l’esilio.
Problemi di base - 22
spock
Dio è sempre intemperante nella Bibbia. Forse perché s’era ridotto a ciacolare ogni giorno con gli ebrei?
A un certo punto Dio non ha più parlato: è ancora offeso? E di che?
E perché ha lasciato la creazione incompleta, capiva lui stesso che non gli veniva bene?
Ignazio di Loyola è il santo delle superbia, violenta: ci vuole il male per il bene?
Perché Dio è meno di Darwin?
Perché la scienza è presuntuosa?
È Spatuzza che ha deciso di parlare il giorno prima della manifestazione di Di Pietro, o Di Pietro che ha deciso la manifestazione il ritorno dopo l’annunciazione di Spatuzza?
Che c’entra Spatuzza con Di Pietro? Forse per il vocabolario.
Perché la pornografia riesce meglio alle donne ma la fanno e la usano gli uomini?
spock@antiit.eu
Dio è sempre intemperante nella Bibbia. Forse perché s’era ridotto a ciacolare ogni giorno con gli ebrei?
A un certo punto Dio non ha più parlato: è ancora offeso? E di che?
E perché ha lasciato la creazione incompleta, capiva lui stesso che non gli veniva bene?
Ignazio di Loyola è il santo delle superbia, violenta: ci vuole il male per il bene?
Perché Dio è meno di Darwin?
Perché la scienza è presuntuosa?
È Spatuzza che ha deciso di parlare il giorno prima della manifestazione di Di Pietro, o Di Pietro che ha deciso la manifestazione il ritorno dopo l’annunciazione di Spatuzza?
Che c’entra Spatuzza con Di Pietro? Forse per il vocabolario.
Perché la pornografia riesce meglio alle donne ma la fanno e la usano gli uomini?
spock@antiit.eu
Borges va al Sud
La raccolta, già confluita in “Finzioni”, Borges ha ripubblicato nel 1956 arricchita di tre racconti che non facevano parte della prima edizione del 1944 (che è quella dell’edizione italiana di “Finzioni”, per la traduzione di Franco Lucentini). E di una Posdata al Prologo, una seconda paginetta in più di quella del 1944. Con la sua consueta naturalezza, Borges acclara la morte di Martin Fierro in “El fin”, anticipa la mania del complotto in “La secta del Fénix”, e s’immagina morto in “El Sur”, di mano meridionale, violenta – “forse il mio miglior racconto”: Borges si sognava libero dall’intelligenza fantastica, un peón libero della pampa.
Borges, Artificios, Alianza Cien, pp. 91, € 1
Borges, Artificios, Alianza Cien, pp. 91, € 1
lunedì 7 dicembre 2009
L'epoca della superbia
Sembra il solito problema tedesco, di vocabolario: il valore tedesco, Wert, non significa anche vitù e coraggio, ma solo interesse, valore economico. Però c’è dentro Marx, l’indigesto edificio di struttura e sovrastruttura. E per tutti è una verità, irresistibile, anche per l’anticapitalista – antimarxista. Fino a diventare – Schmitt non lo sapeva, ma lo sapeva – la radice della controversia fra la vita e la non vita. Il breve saggio, estemporaneo, preceduto ad una lunga avvertenza e situato dalla nota di Franco Volpi, è così la denuncia di un imbroglio, persuasiva: “Nessuno può valutare senza svalutare” (59). O anche: Realizzazione dei valori distruttiva dei valori – questo è uno dei titoletti che Schmitt sovrappose ai brevi paragrafi in cui compitò il suo discorso a braccio in un’edizione a stampa fatta per un centinaio di amici e allievi. E: “Il valore superiore ha il diritto e il dovere di sottomettere a sé il valore inferiore, e il valore in quanto tale annienta giustamente il non-valore in quanto tale” (60). Tradotto venticinque anni fa da Giano Accame, quando Schmitt era un “autore di destra”, ora riproposto senza pregiudizi da Volpi, il libricino è un’opera di filosofia di lettura insolitamente agevole, oltre che affascinante.
È l’antico problema della superbia, in epoca non secolarizzata, dietro le professioni di tiolleranza. Ed è un fatto non da poco, è il nostro modo di vita. Schmitt ne è cosciente: “Dal 1848 c’è osmosi e simbiosi filosofia dei valori e filosofia della vita” (p.24). È anzi la critica più radicale della contemporaneità - di cui i valori sono il fondamento e la debolezza. “Tutte le utopie sociali e biologiche anno a disposizione valori di ogni genere” (29). Ma la filosofia è (quasi) tutta per Schmitt: Nikolai Hartmann, che il titolo ha coniato, Max Scheler, il “Nietzsche cristiano”, e Heidegger (“il pensare per valori è la più grande bestemmia che si possa pensare per l’essere”, “Lettera sull’«umanismo»”). Nonché, su sponde apparentemente opposte, gli stessi Kant e Nietzsche, se non pure Max Weber, che i valori lasciano scettico. La Pace, la Giustizia, la Solidarietà, la costruzione dei valori ne è per molti effetti la neutralizzazione. In una lettera a Armin Mohler, ricorda Volpi, Schmitt si divertirà ad accomunare, sotto gli stessi valori, citazioni di Hitler, del papa e di Marx.
Carl Schmitt, La tirannia dei valori, Adelphi, pp. 107, € 5,50
È l’antico problema della superbia, in epoca non secolarizzata, dietro le professioni di tiolleranza. Ed è un fatto non da poco, è il nostro modo di vita. Schmitt ne è cosciente: “Dal 1848 c’è osmosi e simbiosi filosofia dei valori e filosofia della vita” (p.24). È anzi la critica più radicale della contemporaneità - di cui i valori sono il fondamento e la debolezza. “Tutte le utopie sociali e biologiche anno a disposizione valori di ogni genere” (29). Ma la filosofia è (quasi) tutta per Schmitt: Nikolai Hartmann, che il titolo ha coniato, Max Scheler, il “Nietzsche cristiano”, e Heidegger (“il pensare per valori è la più grande bestemmia che si possa pensare per l’essere”, “Lettera sull’«umanismo»”). Nonché, su sponde apparentemente opposte, gli stessi Kant e Nietzsche, se non pure Max Weber, che i valori lasciano scettico. La Pace, la Giustizia, la Solidarietà, la costruzione dei valori ne è per molti effetti la neutralizzazione. In una lettera a Armin Mohler, ricorda Volpi, Schmitt si divertirà ad accomunare, sotto gli stessi valori, citazioni di Hitler, del papa e di Marx.
Carl Schmitt, La tirannia dei valori, Adelphi, pp. 107, € 5,50
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (49)
Giuseppe Leuzzi
La mafia è l’antimafia
Suggestio falsi, suppressio veri: tornato in auge in estate per la pretesa di Hillary Clinton di essere stata in Bosnia dieci anni fa, dove invece non era stata, il brocardo è purtroppo di uso commerciale e anglosassone, di un altro mondo cioè, manca dai regesti italiani. Tacere un fatto, o suggerirne uno falso invalida un contratto in Gran Bretagna e negli Usa. Anche se suggerire il falso per sopprimere il vero si applica soprattutto alla realtà italiana, morale prima ancora che commerciale, all’opinione pubblica come viene esercitata. E all’uso dei pentiti, i criminali che diventano paladini della giustizia.
Hillary Clinton è stata perdonata perché può darsi che non sappia dov’è la Bosnia. Non c’è ignoranza invece per i pentiti e i loro giudici.
Fiat iustitia et pereat mundus!, il fondamentalismo della giustizia originò con gli Asburgo, per interessi dinastici dunque, che Lutero si appropriò con frequenza. Bisognerà aspettare Hegel per ristabilire la verità: Fiat iustitia ne pereat mundus, si faccia giustizia affinché il mondo non perisca. Ma Hegel è di ardua lettura.
Il corteo palermitano a Torino in onore di Spatuzza è una coppa del mondo data vinta alla mafia, alla mafia mafiosa degli Spatuzza e dei Graviano, i killer e i boss. Un mago del marketing mafioso non avrebbe saputo inventare di meglio. E tutto gratis, a spese dello Stato, cioè degli onesti. La Corte d’Assise d’Appello, completa di giuria, che viaggia da Palermo a Torino per ascoltare il gran pentito Spatuzza, alla presenza di duecento giornalisti, che c’entra con la mafia? Che c’entra con il Sud? È una guerra tra De Benedetti e Berlusconi, tra Bazoli e Berlusconi, cui i giudici siciliani si prestano proni per loro particolari ragioni, e anzi in contrasto con i loro doveri istituzionali. Una scaramuccia in realtà, lupo non mangia lupo: non ci libereremo di Berlusconi, il padrone dei nostri voti, né di De Benedetti o Bazoli, i padroni della nostra opinione e dei nostri soldi.
Spatuzza è un killer brutto quanto spietato, l’emblema anche fisico della stupidità assassina. Lo proteggono venti agenti addetti alla sua protezione personale, venticinque agenti in vario modo incaricati del trasporto, e settanta tra poliziotti e carabinieri addetti alla sorveglianza…
Uno che denunciasse un sopruso di mafia, un danneggiamento, un’estorsione, Libero Grassi per esempio, non avrebbe, non ha mai avuto, neanche un millesimo di questa sollecitudine. Bisogna arguirne che lo Stato è mafioso? No.
Il pentito Spatuzza è un caso abnorme. Uno che da tempo studia teologia in carcere, ma si ricorda dopo quindici anni. E dopo che da ben sette anni i suoi (ex?) capi mafiosi gli chiedono di ricordare. Capi in isolamento, che però lo possono incontrare nel supercarcere di Tolmezzo, per distesi dialoghi – Spatuzza è uno che è lento a capire.
Ma più del colloquio boss-killer a Tolmezzo, è mafiosissimo il colloquio tra Procuratore e boss, il giudice Alessandro Crini e uno dei fratelli Graviano, Filippo, a proposito del convitato di pietra Berlusconi, qui riportato nella redazione del “Corriere della sera” del 29 novembre: http://www.corriere.it/cronache/09_novembre_29/pm-domande-spatuzza-berlusconi-bianconi_c286a9a4-dcbf-11de-8223-00144f02aabc.shtml
Procuratore: «Con lei si parla bene, un italiano consapevole, queste cose le capisce al volo... Noi pensiamo che Spatuzza abbia capito bene, e pensiamo che lei si sia difeso molto bene, con un’interpretazione molto saggia, che però secondo noi non è quella giusta».
Graviano risponde che lui non dice bugie; semmai non dice. E ribadisce di «non avere cognizione, né diretta né indiretta, di questi impegni, accordi, o come si possono chiamare; ma quella risposta articolata che vi ho dato è per aprirvi un sentiero, diciamo... ».
Pier Luigi Vigna è il giudice fiorentino che è stato a capo della Procura nazionale antimafia. Al “Corriere della sera” del 29 novembre ricorda di avere incontrato un paio di volte Spatuzza, “nel 1999 o nel 2000”. Lo ricorda “intenso”, e “assai tormentato”. Un killer di mafia. Sotto l’ìncubo del 41 bis. E uno dice: chi ci protegge? Non dai mafiosi.
Spatuzza in carcere diventa teologo. Un killer volpino (qui lo dico, qui lo nego) nella foto dell’arresto. Il suo boss Graviano diventa economista. Tutti con buoni voti. Bene assistiti dai tutor. È il carcere una buona università, o viceversa?
La storia dei pentiti è tutta disonorevole. Il pentito negli Usa si deve pentire “tutto insieme”: deve dire tutto quello che sa, dopo essersi preparato, a tutti gli inquirenti che possano essere interessati alle sue confessioni, magistrati o poliziotti. Non all’orecchio di questo o quell’inquirente, magari suo sodale. Non a rate. Il nemico, seppure retribuito, in America è sempre un criminale. Roba da sbirri, che sempre hanno avuto da fare con confidenti e mezzani. Solo nella giustizia italiana diventano martiri, per sbugiardare la giustizia.
Buscetta, a parlarci, era un evidente bugiardo. E tuttavia scrittori molto apprezzati e molto pieni della propria onestà, Biagi, Bocca, i sicilianisti, ne hanno fatto un monumento: di correttezza, onestà, coraggio. Un criminale che ha vissuto magnificamente metà della sua vita, protetto come un capo di Stato e con lauti rimborsi spese dello Stato. Era pronto anche a chiamare in causa Andreotti, dopo avere negato questo favore a Falcone, quando i nuovi procuratori ebbero bisogno della sua collaborazione.
Ci impogono la mafia, e le fanno un monumento - non c'erano eroi di mafia vent'anni fa, prima dell'avvento di Milano.
Pagare un vitalizio ai pentiti, che pena! È come pensionare la mafia.
L’antimafia è l’invenzione della mafia. Per essere ha bisogno di una mafia. Anzi, più cresce la mafia più essa si rafforza. In sé è solo naturale: è la naturale onestà degli uomini. Come politica è l’“invenzione” della mafia.
Il pentitismo è l’ultimo regalo alla mafia: l’ordine imposto nella forma inquisitoriale. Confidenti ce ne sono sempre stati, ma senza status giuridico privilegiato. Il pentitismo è il veleno inoculato nell’antimafia – un artificio di polizia all’origine (Dalla Chiesa), con le cautele note imposte dall’esperienza, che ne è diventato la legge e l’anima. Senza più le cautele è solo una suppressio veri attraverso la suggestio falsi.
Ci sono anche fatti precisi. Come le stragi contro i giudici Falcone e Borsellino da addebitare allo Stato anti-Stato. Cioè a Berlusconi. Con la memoria incerta di un pentito falso, Spatuzza. E quella, anch’essa incerta ma più scopertamente ricattatrice, di un non pentito, Ciancimino figlio.
Qui c’è un delitto minore e uno maggiore. Il minore è che un giudice faccia carriera con l’antiberlusconismo. La politica è un’ottima cosa, anche per i giudici, ma nel tempo libero. Mentre ci sono giudici a Palermo, città gonfia di mafia (di droga, appalti, pizzo e mazzette), che aspettano di colpirla quando avranno dimostrato che Berlusconi ne è il capo.
Il delitto maggiore è che addebitare allo Stato, sia pure sotto le spoglie di Berlusconi, senza alcuna prova né indizio, gli assassinii di Falcone, Borsellino, la moglie di Falcone e tanti agenti, è l’assoluzione massima di Brusca, Cancemi, Riina e le altre belve. Ne è la glorificazione: la mafia, e non la giustizia, che dimostra in tribunale che la vera mafia è l’antimafia, cioè l’apparato repressivo dello Stato, agli ordini di alcuni imprenditori.
La Sicilia preesisteva a Berlusconi, queste “traggedie” non sono nuove, né purtroppo anomale. Ma tanta applicazione è solo spaventosa.
Che la mafia sia stata creata dall’antimafia è affermazione all’apparenza ridicola oltre che brutale. Ma è vera. Dopo l’antimafia radicale le popolazioni del Sud sono meno difese. Non c’è più rappresentanza politica d’opposizione. Non c’è nemmeno il sindacato. I professionisti, avvocati e magistrati compresi, hanno precisa la nozione che la loro frontiera è arretrata. I carabinieri si limitato a controllare il territorio, cioè a fare le multe, oggi ai ragazzi in motoretta senza casco come ieri agli impiegati pubblici che andavano al caffè. Non ci sono più controlli sugli appalti e gli affari. Un velo di opacità consapevole si è steso su tutti i rapporti. Prima la società era combattiva.
Lo Stato c’è, quando vuole. Protegge benissimo i pentiti, per esempio. Non è mai riuscito a proteggere un qualsiasi cittadino che denunci la mafia. Cioè non si è impegnato. Il grande pentito Buscetta andava per esempio al ristorante in centro a Roma, e in crociera, per incontrare i giornalisti. Uno che è taglieggiato dalla mafia è invece finito, lui e i suoi familiari: vite da incubo.
Dalla criminalità ci si può difendere. Soccombere è una di cinque possibilità: ci sono i carabinieri, si può farla franca, si può fare un compromesso, e si può anche battere il nemico con le sue armi. La criminalizzazione invece toglie il respiro. Ogni individuo, anche povero, che sia vittima della mafia sarà sempre sospettato e accusato di correità, dal favoreggiamento all’associazione esterna e al traffico d’influenze. E l’amministratore pubblico, che per un appalto da cinquecento euro, un gabinetto di una scuola, dovrà garantire la certificazione anti-mafia estesa a tutti i lavoratori dell’azienda appaltatrice: basta che un qualsiasi manovale abbia avuto condanne, o abbia carichi pendenti, per subire l’infamante accusa, o un muratore che non ha vinto la gara e faccia ricorso in giustizia.
La mafia è in buona misura l’antimafia soprattutto in quanto questa ne magnifica la consistenza, gli interessi, il potere. Chi vive in area di mafia lo sa bene: i brutti, sporchi e cattivi sono divenuti con l’antimafia politici, banchieri, filantropi, divi del cinema. Questo era impensabile trent’anni fa. È come se l’antimafia generasse una tossina, certo contro ogni intenzione, che distrugge ogni difesa: inietta sfiducia erodendo ogni residua energia, accentua il lato patogeno delle società colpite dalla mafia, la passività e l’attesa del miracolo esterno, le disorganizza e disloca. Ne accentua cioè la sudditanza: perché, questo è il punto, l’antimafia è un coagente esterno. È un altro programma inteso a tenere il Sud a distanza, un aggiornamento della ricetta unionista che volta a volta si è chiamata brigantaggio, coscrizione, dazi doganali, Cassa del Mezzogiorno.
Lo specchio è la riduzione della politica a mafia nelle aree che ne sono colpite. Prima ancora di diventare la polpetta avvelenata dell’Italia, l’antipolitica lo è stata, per generazioni, al Sud. L’antimafia toglie in realtà ai non mafiosi, che sono il novantanove virgola qualcosa per cento delle aree a presenza mafiosa, la legittimazione a reagire se non nel suo ambito, cioè come portatori di voti o piccoli apparati di partito. Non è un’azione liberatrice ma di monopolio del potere. Anche nei confronti della mafia, che sappia chi comanda.
Gli stessi dossier dei carabinieri, con diagrammi, genealogie, ramificazioni e perfino patti internazionali (i cartelli), expertise, collusioni, interne e esterne, al municipio, al governo, all’università, all’ospedale, in chiesa perfino e all’asilo, ne fanno un fenomeno imbattibile – moderno, organizzato, flessibile, pervasivo - invece di stroncarlo prendendo i mafiosi.
Si scrive che la ‘ndrangheta, la mafia calabrese, controlla il mercato della droga in Europa e in Sud America, e non pare possibile. Come quando lo diceva della camorra lo scrittore Saviano in “Gomorra”, tre anni fa - o sono due? Gli arresti a raffica dei capi di questi “superstati” confermano l’irrealtà, perché è gente da poco, se si toglie la crudeltà. I trascorsi sono inquietanti, in quanto a sopravvalutazione delle mafie.
Passata la prima sorpresa, la terribile strage di Duisburg era rientrata presto, prima ancora degli arresti, in una strana normalità. Una “normalità” che voleva l’attentato monitorato dalle forze dell’ordine (forse dai carabinieri). Non proprio “quello”, ma sempre un attentato per il quale si cercavano armi a tiro rapido. In una triangolazione tra la Germania, Roma e la Germania. Tra una serie di persone di cui si sono detti i nomi e le colpe, e che stranamente sono rimaste a piede libero.
Questo può essere un caso di millantato credito. Non sarebbe la prima volta che la forza di polizia esclusa da una certa indagine faccia dire in giro che sapeva tutto. O può essere stato un caso d’informazione drogata: quando non si ha nulla da dire e non si sa che fare, ci si può giovare del credito accumulato presso i giornalisti. Ma la sensazione è fastidiosa di un già visto e vissuto. Della giustizia e della repressione vissute come una partita, un calcio tu, uno io. Non come un obbligo giuridico e morale, di bloccare o reprimere ogni manifestazione delittuosa. Ma di una partita tra apparato repressivo e mafie confidenti, confidenti di polizia. Che talvolta eccedono, come è successo a Duisburg, e allora devono pagare: fare qualche nome, dare qualche traccia, lasciare qualche morto.
È la sensazione netta della famosa Anonima Sequestri dell’Aspromonte. Per vent’anni si è saputo di un’Anonima imprendibile, capace di colpire e eludere le migliori forze dell’Italia, manageriali, economiche, repressive. Che poi si è rivelata misera cosa, di quasi balordi, tutti a vario titolo confidenti. Lo stesso nella Nuova Camorra terribile di Alfieri e Galasso, di cui tutto invece si sapeva, e che si sono pentiti all’arresto. Oggi, vent’anni più tardi, sappiamo che i capi-mafiosi M. di Castellace, gli stessi che hanno organizzato l’esproprio dei (piccoli) proprietari, erano confidenti dei carabinieri.
Non è una partita truccata, non può esserlo, nessun dirigente dello Stato sottoscriverebbe il patto col diavolo, perché “conosce la legge”. Ma ci sono troppe azioni non riconducibili a responsabilità, addebitabili con precisione, la cosiddetta zona grigia, dove troppe impunità circolano. In molti paesini della Sicilia, della Calabria, del casertano, si ha l’impressione fisica dell’impunità dei cosiddetti mafiosi. Balordi o guappi, prevaricatori, violenti a volte, minacciosi sempre, e invisi a tutti, ma non ai carabinieri. Se non alla sommatoria di troppi anni e troppe violenze. Allora interviene l’arresto e la condanna, ma dopo pentimento. Erano persone utili? Per quale repressione, se non per la giustizia?
leuzzi@antiit.eu
La mafia è l’antimafia
Suggestio falsi, suppressio veri: tornato in auge in estate per la pretesa di Hillary Clinton di essere stata in Bosnia dieci anni fa, dove invece non era stata, il brocardo è purtroppo di uso commerciale e anglosassone, di un altro mondo cioè, manca dai regesti italiani. Tacere un fatto, o suggerirne uno falso invalida un contratto in Gran Bretagna e negli Usa. Anche se suggerire il falso per sopprimere il vero si applica soprattutto alla realtà italiana, morale prima ancora che commerciale, all’opinione pubblica come viene esercitata. E all’uso dei pentiti, i criminali che diventano paladini della giustizia.
Hillary Clinton è stata perdonata perché può darsi che non sappia dov’è la Bosnia. Non c’è ignoranza invece per i pentiti e i loro giudici.
Fiat iustitia et pereat mundus!, il fondamentalismo della giustizia originò con gli Asburgo, per interessi dinastici dunque, che Lutero si appropriò con frequenza. Bisognerà aspettare Hegel per ristabilire la verità: Fiat iustitia ne pereat mundus, si faccia giustizia affinché il mondo non perisca. Ma Hegel è di ardua lettura.
Il corteo palermitano a Torino in onore di Spatuzza è una coppa del mondo data vinta alla mafia, alla mafia mafiosa degli Spatuzza e dei Graviano, i killer e i boss. Un mago del marketing mafioso non avrebbe saputo inventare di meglio. E tutto gratis, a spese dello Stato, cioè degli onesti. La Corte d’Assise d’Appello, completa di giuria, che viaggia da Palermo a Torino per ascoltare il gran pentito Spatuzza, alla presenza di duecento giornalisti, che c’entra con la mafia? Che c’entra con il Sud? È una guerra tra De Benedetti e Berlusconi, tra Bazoli e Berlusconi, cui i giudici siciliani si prestano proni per loro particolari ragioni, e anzi in contrasto con i loro doveri istituzionali. Una scaramuccia in realtà, lupo non mangia lupo: non ci libereremo di Berlusconi, il padrone dei nostri voti, né di De Benedetti o Bazoli, i padroni della nostra opinione e dei nostri soldi.
Spatuzza è un killer brutto quanto spietato, l’emblema anche fisico della stupidità assassina. Lo proteggono venti agenti addetti alla sua protezione personale, venticinque agenti in vario modo incaricati del trasporto, e settanta tra poliziotti e carabinieri addetti alla sorveglianza…
Uno che denunciasse un sopruso di mafia, un danneggiamento, un’estorsione, Libero Grassi per esempio, non avrebbe, non ha mai avuto, neanche un millesimo di questa sollecitudine. Bisogna arguirne che lo Stato è mafioso? No.
Il pentito Spatuzza è un caso abnorme. Uno che da tempo studia teologia in carcere, ma si ricorda dopo quindici anni. E dopo che da ben sette anni i suoi (ex?) capi mafiosi gli chiedono di ricordare. Capi in isolamento, che però lo possono incontrare nel supercarcere di Tolmezzo, per distesi dialoghi – Spatuzza è uno che è lento a capire.
Ma più del colloquio boss-killer a Tolmezzo, è mafiosissimo il colloquio tra Procuratore e boss, il giudice Alessandro Crini e uno dei fratelli Graviano, Filippo, a proposito del convitato di pietra Berlusconi, qui riportato nella redazione del “Corriere della sera” del 29 novembre: http://www.corriere.it/cronache/09_novembre_29/pm-domande-spatuzza-berlusconi-bianconi_c286a9a4-dcbf-11de-8223-00144f02aabc.shtml
Procuratore: «Con lei si parla bene, un italiano consapevole, queste cose le capisce al volo... Noi pensiamo che Spatuzza abbia capito bene, e pensiamo che lei si sia difeso molto bene, con un’interpretazione molto saggia, che però secondo noi non è quella giusta».
Graviano risponde che lui non dice bugie; semmai non dice. E ribadisce di «non avere cognizione, né diretta né indiretta, di questi impegni, accordi, o come si possono chiamare; ma quella risposta articolata che vi ho dato è per aprirvi un sentiero, diciamo... ».
Pier Luigi Vigna è il giudice fiorentino che è stato a capo della Procura nazionale antimafia. Al “Corriere della sera” del 29 novembre ricorda di avere incontrato un paio di volte Spatuzza, “nel 1999 o nel 2000”. Lo ricorda “intenso”, e “assai tormentato”. Un killer di mafia. Sotto l’ìncubo del 41 bis. E uno dice: chi ci protegge? Non dai mafiosi.
Spatuzza in carcere diventa teologo. Un killer volpino (qui lo dico, qui lo nego) nella foto dell’arresto. Il suo boss Graviano diventa economista. Tutti con buoni voti. Bene assistiti dai tutor. È il carcere una buona università, o viceversa?
La storia dei pentiti è tutta disonorevole. Il pentito negli Usa si deve pentire “tutto insieme”: deve dire tutto quello che sa, dopo essersi preparato, a tutti gli inquirenti che possano essere interessati alle sue confessioni, magistrati o poliziotti. Non all’orecchio di questo o quell’inquirente, magari suo sodale. Non a rate. Il nemico, seppure retribuito, in America è sempre un criminale. Roba da sbirri, che sempre hanno avuto da fare con confidenti e mezzani. Solo nella giustizia italiana diventano martiri, per sbugiardare la giustizia.
Buscetta, a parlarci, era un evidente bugiardo. E tuttavia scrittori molto apprezzati e molto pieni della propria onestà, Biagi, Bocca, i sicilianisti, ne hanno fatto un monumento: di correttezza, onestà, coraggio. Un criminale che ha vissuto magnificamente metà della sua vita, protetto come un capo di Stato e con lauti rimborsi spese dello Stato. Era pronto anche a chiamare in causa Andreotti, dopo avere negato questo favore a Falcone, quando i nuovi procuratori ebbero bisogno della sua collaborazione.
Ci impogono la mafia, e le fanno un monumento - non c'erano eroi di mafia vent'anni fa, prima dell'avvento di Milano.
Pagare un vitalizio ai pentiti, che pena! È come pensionare la mafia.
L’antimafia è l’invenzione della mafia. Per essere ha bisogno di una mafia. Anzi, più cresce la mafia più essa si rafforza. In sé è solo naturale: è la naturale onestà degli uomini. Come politica è l’“invenzione” della mafia.
Il pentitismo è l’ultimo regalo alla mafia: l’ordine imposto nella forma inquisitoriale. Confidenti ce ne sono sempre stati, ma senza status giuridico privilegiato. Il pentitismo è il veleno inoculato nell’antimafia – un artificio di polizia all’origine (Dalla Chiesa), con le cautele note imposte dall’esperienza, che ne è diventato la legge e l’anima. Senza più le cautele è solo una suppressio veri attraverso la suggestio falsi.
Ci sono anche fatti precisi. Come le stragi contro i giudici Falcone e Borsellino da addebitare allo Stato anti-Stato. Cioè a Berlusconi. Con la memoria incerta di un pentito falso, Spatuzza. E quella, anch’essa incerta ma più scopertamente ricattatrice, di un non pentito, Ciancimino figlio.
Qui c’è un delitto minore e uno maggiore. Il minore è che un giudice faccia carriera con l’antiberlusconismo. La politica è un’ottima cosa, anche per i giudici, ma nel tempo libero. Mentre ci sono giudici a Palermo, città gonfia di mafia (di droga, appalti, pizzo e mazzette), che aspettano di colpirla quando avranno dimostrato che Berlusconi ne è il capo.
Il delitto maggiore è che addebitare allo Stato, sia pure sotto le spoglie di Berlusconi, senza alcuna prova né indizio, gli assassinii di Falcone, Borsellino, la moglie di Falcone e tanti agenti, è l’assoluzione massima di Brusca, Cancemi, Riina e le altre belve. Ne è la glorificazione: la mafia, e non la giustizia, che dimostra in tribunale che la vera mafia è l’antimafia, cioè l’apparato repressivo dello Stato, agli ordini di alcuni imprenditori.
La Sicilia preesisteva a Berlusconi, queste “traggedie” non sono nuove, né purtroppo anomale. Ma tanta applicazione è solo spaventosa.
Che la mafia sia stata creata dall’antimafia è affermazione all’apparenza ridicola oltre che brutale. Ma è vera. Dopo l’antimafia radicale le popolazioni del Sud sono meno difese. Non c’è più rappresentanza politica d’opposizione. Non c’è nemmeno il sindacato. I professionisti, avvocati e magistrati compresi, hanno precisa la nozione che la loro frontiera è arretrata. I carabinieri si limitato a controllare il territorio, cioè a fare le multe, oggi ai ragazzi in motoretta senza casco come ieri agli impiegati pubblici che andavano al caffè. Non ci sono più controlli sugli appalti e gli affari. Un velo di opacità consapevole si è steso su tutti i rapporti. Prima la società era combattiva.
Lo Stato c’è, quando vuole. Protegge benissimo i pentiti, per esempio. Non è mai riuscito a proteggere un qualsiasi cittadino che denunci la mafia. Cioè non si è impegnato. Il grande pentito Buscetta andava per esempio al ristorante in centro a Roma, e in crociera, per incontrare i giornalisti. Uno che è taglieggiato dalla mafia è invece finito, lui e i suoi familiari: vite da incubo.
Dalla criminalità ci si può difendere. Soccombere è una di cinque possibilità: ci sono i carabinieri, si può farla franca, si può fare un compromesso, e si può anche battere il nemico con le sue armi. La criminalizzazione invece toglie il respiro. Ogni individuo, anche povero, che sia vittima della mafia sarà sempre sospettato e accusato di correità, dal favoreggiamento all’associazione esterna e al traffico d’influenze. E l’amministratore pubblico, che per un appalto da cinquecento euro, un gabinetto di una scuola, dovrà garantire la certificazione anti-mafia estesa a tutti i lavoratori dell’azienda appaltatrice: basta che un qualsiasi manovale abbia avuto condanne, o abbia carichi pendenti, per subire l’infamante accusa, o un muratore che non ha vinto la gara e faccia ricorso in giustizia.
La mafia è in buona misura l’antimafia soprattutto in quanto questa ne magnifica la consistenza, gli interessi, il potere. Chi vive in area di mafia lo sa bene: i brutti, sporchi e cattivi sono divenuti con l’antimafia politici, banchieri, filantropi, divi del cinema. Questo era impensabile trent’anni fa. È come se l’antimafia generasse una tossina, certo contro ogni intenzione, che distrugge ogni difesa: inietta sfiducia erodendo ogni residua energia, accentua il lato patogeno delle società colpite dalla mafia, la passività e l’attesa del miracolo esterno, le disorganizza e disloca. Ne accentua cioè la sudditanza: perché, questo è il punto, l’antimafia è un coagente esterno. È un altro programma inteso a tenere il Sud a distanza, un aggiornamento della ricetta unionista che volta a volta si è chiamata brigantaggio, coscrizione, dazi doganali, Cassa del Mezzogiorno.
Lo specchio è la riduzione della politica a mafia nelle aree che ne sono colpite. Prima ancora di diventare la polpetta avvelenata dell’Italia, l’antipolitica lo è stata, per generazioni, al Sud. L’antimafia toglie in realtà ai non mafiosi, che sono il novantanove virgola qualcosa per cento delle aree a presenza mafiosa, la legittimazione a reagire se non nel suo ambito, cioè come portatori di voti o piccoli apparati di partito. Non è un’azione liberatrice ma di monopolio del potere. Anche nei confronti della mafia, che sappia chi comanda.
Gli stessi dossier dei carabinieri, con diagrammi, genealogie, ramificazioni e perfino patti internazionali (i cartelli), expertise, collusioni, interne e esterne, al municipio, al governo, all’università, all’ospedale, in chiesa perfino e all’asilo, ne fanno un fenomeno imbattibile – moderno, organizzato, flessibile, pervasivo - invece di stroncarlo prendendo i mafiosi.
Si scrive che la ‘ndrangheta, la mafia calabrese, controlla il mercato della droga in Europa e in Sud America, e non pare possibile. Come quando lo diceva della camorra lo scrittore Saviano in “Gomorra”, tre anni fa - o sono due? Gli arresti a raffica dei capi di questi “superstati” confermano l’irrealtà, perché è gente da poco, se si toglie la crudeltà. I trascorsi sono inquietanti, in quanto a sopravvalutazione delle mafie.
Passata la prima sorpresa, la terribile strage di Duisburg era rientrata presto, prima ancora degli arresti, in una strana normalità. Una “normalità” che voleva l’attentato monitorato dalle forze dell’ordine (forse dai carabinieri). Non proprio “quello”, ma sempre un attentato per il quale si cercavano armi a tiro rapido. In una triangolazione tra la Germania, Roma e la Germania. Tra una serie di persone di cui si sono detti i nomi e le colpe, e che stranamente sono rimaste a piede libero.
Questo può essere un caso di millantato credito. Non sarebbe la prima volta che la forza di polizia esclusa da una certa indagine faccia dire in giro che sapeva tutto. O può essere stato un caso d’informazione drogata: quando non si ha nulla da dire e non si sa che fare, ci si può giovare del credito accumulato presso i giornalisti. Ma la sensazione è fastidiosa di un già visto e vissuto. Della giustizia e della repressione vissute come una partita, un calcio tu, uno io. Non come un obbligo giuridico e morale, di bloccare o reprimere ogni manifestazione delittuosa. Ma di una partita tra apparato repressivo e mafie confidenti, confidenti di polizia. Che talvolta eccedono, come è successo a Duisburg, e allora devono pagare: fare qualche nome, dare qualche traccia, lasciare qualche morto.
È la sensazione netta della famosa Anonima Sequestri dell’Aspromonte. Per vent’anni si è saputo di un’Anonima imprendibile, capace di colpire e eludere le migliori forze dell’Italia, manageriali, economiche, repressive. Che poi si è rivelata misera cosa, di quasi balordi, tutti a vario titolo confidenti. Lo stesso nella Nuova Camorra terribile di Alfieri e Galasso, di cui tutto invece si sapeva, e che si sono pentiti all’arresto. Oggi, vent’anni più tardi, sappiamo che i capi-mafiosi M. di Castellace, gli stessi che hanno organizzato l’esproprio dei (piccoli) proprietari, erano confidenti dei carabinieri.
Non è una partita truccata, non può esserlo, nessun dirigente dello Stato sottoscriverebbe il patto col diavolo, perché “conosce la legge”. Ma ci sono troppe azioni non riconducibili a responsabilità, addebitabili con precisione, la cosiddetta zona grigia, dove troppe impunità circolano. In molti paesini della Sicilia, della Calabria, del casertano, si ha l’impressione fisica dell’impunità dei cosiddetti mafiosi. Balordi o guappi, prevaricatori, violenti a volte, minacciosi sempre, e invisi a tutti, ma non ai carabinieri. Se non alla sommatoria di troppi anni e troppe violenze. Allora interviene l’arresto e la condanna, ma dopo pentimento. Erano persone utili? Per quale repressione, se non per la giustizia?
leuzzi@antiit.eu
domenica 6 dicembre 2009
La sterile "linea lombarda" del "Verri"
“Questi lunghissimi\infelicissimi versi” lo sono per più di un aspetto, anche se la raccolta in edizione economica attesta una domanda ancora viva. Si comincia a leggere, una poesia discorsiva, dalla “Brevi lettere” in poi: “Sto abbandonando Roma”, “Seguendo le anse del fiume Meno”, l’ultimo decennio di una scrittura quarantennale. La dottrina dell’avanguardia ha fatto molte vittime, la "linea lombarda" di Luciano Anceschi, specie tra i discepoli del “Verri”, la rivista di Anceschi, ridotto alla sterilità sotto forma d'invenzione. Un modernismo che ha prodotto solo macerie, l'antipoesia e l'antiromanzo, le avanguardie dei gruppi, dal 47 al 63, venti anni di letteratura a bassa intensità di genio e di razionalità. dunque di storia letteraria. Leo Paolazzi merita più rispetto di Balestrini, che ancora venticinquenne già aveva dato segni di febbrile attività, creativa e editoriale – sarà dirigente di alcune delle maggiori case editrici, creatore di “Alfabeta” e “La Gola”. E si trasforma in “Antonio Porta” in omaggio a Milano, la città del “Verri”, su suggerimento dello stesso Anceschi. Ma non più di tanto.
Si apra “Zero”, una plaquette del 1963-64 , che è forse l’esempio più stimato di avanguardia. Ma allora per l’informalità dell’inutilità: perché sprecare fogli di carta? Per quale fungo? Per quale deriva, “senza concezione, senza misura, senza forma,\senza metro, senza progetto”? Senza neppure la vecchia scrittura automatica. Gli oggetti sono inerti. Tanto più sotto l’occhio del poeta. Un corpus che la curatrice non riesce a rianimare, né le poetiche di Porta, né la copiosa letteratura in appendice. “L’albero di cocco è stato scrollato a fondo”, rimarca crudele Maria Corti. Le strutture sono dissociate, il ritmo confuso, il “disagio della civiltà” inerte. Non si può nemmeno dire una poesia di poetica, di progetto: le poetiche sono deboli. E curiosamente Porta ne è cosciente nelle sue note qui in appendice (“Poesia e poetica”, “Il grado zero della poesia”): non c’è una poetica, non riconoscibile – una poetica dev’essere didascalica.
La poesia d’avanguardia si vuole di ricerca. Critica, è essa stessa più spesso una poetica. Poesia in cui il poeta non si fa facendo ma secondo un progetto. Secondo una teorica che si sviene svolgendo di solito di corsa, in superficie, oggi sbrogliando e riannodando la matassa appena composta ieri. Tanto dottrinale (totalitaria) cioè quanto caduca. Di poeti che dicono quello che stanno scrivendo. Cosa resta di Porta poeta d’avanguardia? La passione è in lui costante, ogni componimento è accuratamente datato, ma la scrittura è di passioni posticce, il fascismo, la madre, l’amante, il freudismo d’accatto, e il consumismo. In sterili dibattiti tra storia e utopia, e utopia e ideologia, di cui nulla rimane. Se non, oggi, come bagaglio dei “compagni di strada”, anche nolenti: le ideologie residue date in pasto da una sordida dottrina del potere, depotenziate della loro verità, quando non apertamente propaganda, uno stallatico. Di cui Porta ha ancora una volta l’intuizione: “ma adesso perché scatta tutto in sovratono,\perché l’orrore, e lo stesso orrore è orribile”. Una piccola sordida pornografia, censoria, di cui i migliori sono vittime, ma niente di più.
La prima metà del volume è una summa delle avanguardie di cui nulla rimane, a parte qualche elenco, in “Metropolis” e altrove, neppure tanto nuovi, Rabelais se ne dilettava, o i “modelli di linguaggio”, che hanno un che di onomatopeico, o qualche filastrocca genere cabaret, alla Gaber\Jannacci. Nemmeno gli interlocutori le animano, “Scardanelli”, Arbasino, Dossena, Tadini. L’esito è sempre una narrativa oscura, oscuramente detta anche civile, che riproduce il vizio dell’ermetismo, ma senza più giustificazione formale, una sorta di salvacondotto “politico”, di rifugio dell’autocensura. La sperimentazione è un passepartout, in uso libero ai poeti come ai portieri, senza “tecnica”, applicazione, ingegneria.
La lettura cambia dalle “Brevi lettere”, e quindi per una buona metà del volume. La poesia vi si fa discorsiva e anzi alluvionale, tutto al contrario della avanguardia ermetica. Questo è un altro “Porta”, confinato al suo ultimo decennio. Talvolta vivace, ma con sorprese minime, più spesso è incontinente - su Melusina,la Nigeria, lo socpo fuori di sé... Fuori dalle avanguardie c'è solo il lombardo birignao?
Antonio Porta, Tutte le poesie, Garzanti, pp.662, € 20
Si apra “Zero”, una plaquette del 1963-64 , che è forse l’esempio più stimato di avanguardia. Ma allora per l’informalità dell’inutilità: perché sprecare fogli di carta? Per quale fungo? Per quale deriva, “senza concezione, senza misura, senza forma,\senza metro, senza progetto”? Senza neppure la vecchia scrittura automatica. Gli oggetti sono inerti. Tanto più sotto l’occhio del poeta. Un corpus che la curatrice non riesce a rianimare, né le poetiche di Porta, né la copiosa letteratura in appendice. “L’albero di cocco è stato scrollato a fondo”, rimarca crudele Maria Corti. Le strutture sono dissociate, il ritmo confuso, il “disagio della civiltà” inerte. Non si può nemmeno dire una poesia di poetica, di progetto: le poetiche sono deboli. E curiosamente Porta ne è cosciente nelle sue note qui in appendice (“Poesia e poetica”, “Il grado zero della poesia”): non c’è una poetica, non riconoscibile – una poetica dev’essere didascalica.
La poesia d’avanguardia si vuole di ricerca. Critica, è essa stessa più spesso una poetica. Poesia in cui il poeta non si fa facendo ma secondo un progetto. Secondo una teorica che si sviene svolgendo di solito di corsa, in superficie, oggi sbrogliando e riannodando la matassa appena composta ieri. Tanto dottrinale (totalitaria) cioè quanto caduca. Di poeti che dicono quello che stanno scrivendo. Cosa resta di Porta poeta d’avanguardia? La passione è in lui costante, ogni componimento è accuratamente datato, ma la scrittura è di passioni posticce, il fascismo, la madre, l’amante, il freudismo d’accatto, e il consumismo. In sterili dibattiti tra storia e utopia, e utopia e ideologia, di cui nulla rimane. Se non, oggi, come bagaglio dei “compagni di strada”, anche nolenti: le ideologie residue date in pasto da una sordida dottrina del potere, depotenziate della loro verità, quando non apertamente propaganda, uno stallatico. Di cui Porta ha ancora una volta l’intuizione: “ma adesso perché scatta tutto in sovratono,\perché l’orrore, e lo stesso orrore è orribile”. Una piccola sordida pornografia, censoria, di cui i migliori sono vittime, ma niente di più.
La prima metà del volume è una summa delle avanguardie di cui nulla rimane, a parte qualche elenco, in “Metropolis” e altrove, neppure tanto nuovi, Rabelais se ne dilettava, o i “modelli di linguaggio”, che hanno un che di onomatopeico, o qualche filastrocca genere cabaret, alla Gaber\Jannacci. Nemmeno gli interlocutori le animano, “Scardanelli”, Arbasino, Dossena, Tadini. L’esito è sempre una narrativa oscura, oscuramente detta anche civile, che riproduce il vizio dell’ermetismo, ma senza più giustificazione formale, una sorta di salvacondotto “politico”, di rifugio dell’autocensura. La sperimentazione è un passepartout, in uso libero ai poeti come ai portieri, senza “tecnica”, applicazione, ingegneria.
La lettura cambia dalle “Brevi lettere”, e quindi per una buona metà del volume. La poesia vi si fa discorsiva e anzi alluvionale, tutto al contrario della avanguardia ermetica. Questo è un altro “Porta”, confinato al suo ultimo decennio. Talvolta vivace, ma con sorprese minime, più spesso è incontinente - su Melusina,la Nigeria, lo socpo fuori di sé... Fuori dalle avanguardie c'è solo il lombardo birignao?
Antonio Porta, Tutte le poesie, Garzanti, pp.662, € 20
Berlusconi debole indebolisce Bersani
Il passo è ancora prematuro. Ma Bersani, o comunque il Pd, dovrà prendere atto del potenziale distruttivo illimitato della (ex) Dc: hanno ucciso Fanfani e Moro, si sono uccisi nel 1992-94, figurarsi se arretrano di fronte a un Bersani. Non ci sono solo Bindi e Franceschini, contro Bersani lavorano anche i vescovi di partito, operosi a disinnescare ogni novità in fatto di diritti delle coppie di fatto e di bioetica. Con la parola d’ordine, neanche mascherata, di “tornare al centro”. Da intendersi: tornare a Casini, senza neppure dover passare da Rutelli.
Le riforme passano attraverso la non Dc. Attraverso le varie sinistre, cioè, e quel che c’è di socialista, liberale, radicale nel partito di Berlusconi. Escludendo da questo partito gli ex Dc, e Fini e i suoi colonnelli, la generazione politica più incredibilmente improduttiva nella storia del Parlamento repubblicano. Una o due riforme basterebbero, quella parlamentare e quella della giustizia. Ma il punto è: si possono fare con questa maggioranza e in questo Parlamento, di cui Bersani ha assoluto bisogno per tutt’e tre anni e mezzo restanti? La debolezza di Berlusconi è paradossalmente la debolezza maggiore di Bersani.
Le riforme passano attraverso la non Dc. Attraverso le varie sinistre, cioè, e quel che c’è di socialista, liberale, radicale nel partito di Berlusconi. Escludendo da questo partito gli ex Dc, e Fini e i suoi colonnelli, la generazione politica più incredibilmente improduttiva nella storia del Parlamento repubblicano. Una o due riforme basterebbero, quella parlamentare e quella della giustizia. Ma il punto è: si possono fare con questa maggioranza e in questo Parlamento, di cui Bersani ha assoluto bisogno per tutt’e tre anni e mezzo restanti? La debolezza di Berlusconi è paradossalmente la debolezza maggiore di Bersani.
La mafia delle mafie
Un anticlimax, la deposizione di Spatuzza? L’Italia colpevolista, e con essa i giudici, spaventati? No, ci vuole ben altro, dice bene la nota “Spatuzza spaventa”. Ma lascia intendere che qualcosa è cambiato, e invece nulla cambia, l’Italia è sempre dei pentiti: Spatuzza è uno che parla come i suoi giudici, svirgolato, allusivo, distruttivo in ogni fibra, e il linguaggio è spia sempre veritiera. La sua esibizione in processo è parte dello squallido braccio di ferro tra Berlusconi e i giudici sulla cosiddetta riforma della giustizia, ma non intacca la sostanza della cosa.
La controprova è oggi, nell’arresto a Milano e Palermo di grandi ricercati che prosperavano ai bordi dell’indimenticato stalliere di Arcore, seppure morto ormai da dieci anni. Figurativamente, beninteso, è inutile stare a fare di Berlusconi un affiliato alla mafia, che stupidaggine. I mafiosi sono sempre stallieri, siano pure proprietari di bar, ristoranti e condomini, magari in forma di cooperativa. Gli affari veri, quelli non si curano dei mafiosi, seppure killer pluriomicidi incalliti. Per la mafia basta un agente della squadra mobile in borghese, in giro per la città nello shopping dell’Avvento.
La sostanza della cosa resta che questi giudici e questo berlusconismo si tengono insieme: è tutta qui la mafia politica, la mafia delle mafie che dal 1992 non per caso, dopo gli assassini di Falcone e di Borsellino, ci ingombra l’orizzonte.La Corte d’Assise d’Appello, completa di giuria, che viaggia da Palermo a Torino per ascoltare il gran pentito Spatuzza alla presenza di duecento giornalisti non c’entra con la mafia. È una guerra tra De Benedetti e Berlusconi, tra Bazoli e Berlusconi, cui i giudici siciliani si prestano proni per loro particolari ragione, e anzi in contrasto con i loro doveri istituzionali. Una scaramuccia in realtà, lupo non mangia lupo: non ci libereremo di Berlusconi, il padrone dei nostri voti, né di De Benedetti o Bazoli, i padroni della nostra opinione e dei nostri soldi.
È il sistema “Milano”, un certo governo della cosa pubblica, opinione e affari, che distrae l’attenzione su aspetti marginali, quali la mafia a Milano, per lasciare liberi gli interessi veri o sostanziali. La domanda da farsi sarebbe: è arrivato il momento per i giudici di scaricare Berlusconi, o per Berlusconi di liberarci di questi giudici? E la risposta è no, ognuno lo vede. “La fine dell’egemonia” titolava ieri Dario Di Vico sul “Corriere della sera”. Ma “Milano” non molla: in cambio di che? Di Casini? Di Fini?
La controprova è oggi, nell’arresto a Milano e Palermo di grandi ricercati che prosperavano ai bordi dell’indimenticato stalliere di Arcore, seppure morto ormai da dieci anni. Figurativamente, beninteso, è inutile stare a fare di Berlusconi un affiliato alla mafia, che stupidaggine. I mafiosi sono sempre stallieri, siano pure proprietari di bar, ristoranti e condomini, magari in forma di cooperativa. Gli affari veri, quelli non si curano dei mafiosi, seppure killer pluriomicidi incalliti. Per la mafia basta un agente della squadra mobile in borghese, in giro per la città nello shopping dell’Avvento.
La sostanza della cosa resta che questi giudici e questo berlusconismo si tengono insieme: è tutta qui la mafia politica, la mafia delle mafie che dal 1992 non per caso, dopo gli assassini di Falcone e di Borsellino, ci ingombra l’orizzonte.La Corte d’Assise d’Appello, completa di giuria, che viaggia da Palermo a Torino per ascoltare il gran pentito Spatuzza alla presenza di duecento giornalisti non c’entra con la mafia. È una guerra tra De Benedetti e Berlusconi, tra Bazoli e Berlusconi, cui i giudici siciliani si prestano proni per loro particolari ragione, e anzi in contrasto con i loro doveri istituzionali. Una scaramuccia in realtà, lupo non mangia lupo: non ci libereremo di Berlusconi, il padrone dei nostri voti, né di De Benedetti o Bazoli, i padroni della nostra opinione e dei nostri soldi.
È il sistema “Milano”, un certo governo della cosa pubblica, opinione e affari, che distrae l’attenzione su aspetti marginali, quali la mafia a Milano, per lasciare liberi gli interessi veri o sostanziali. La domanda da farsi sarebbe: è arrivato il momento per i giudici di scaricare Berlusconi, o per Berlusconi di liberarci di questi giudici? E la risposta è no, ognuno lo vede. “La fine dell’egemonia” titolava ieri Dario Di Vico sul “Corriere della sera”. Ma “Milano” non molla: in cambio di che? Di Casini? Di Fini?
Fini e il partito del nulla
Sono stati fascisti, poi liberali, ora sono buoni cattolici un po’ sociali, e sono stati e sono ministri, vice presidente del consiglio, e ora presidenti della Camera, e non sono nulla. Non è un indovinello, è il partito di Fini. Portato al governo da Berlusconi nel 1994 per esigenze di legge elettorale, e lì attaccato inutilmente(ora si scopre democristiano e non sa che l’area è abbondantemente presidiata da migliori di lui, democristiani da generazioni). Invano si cercano in questi quindici anni di vita politica dopo lo sdoganamento una traccia di Fini e dei suoi colonnelli, una legge, una personalità, un indirizzo. Qualcosa che dica: sono un partito utile, se non necessario.
C’è la legge Bossi Fini. Che però Fini dice che non è quello che si dice, una legge che rende difficile l’immigrazione clandestina, o comunque indesiderata. Ed è peraltro, in tutta evidenza, inefficace. C’è una legge Fini sul consumo delle droghe, inutilmente coercitiva, che la maggioranza berlusconiana si vide imporre dall’allora leader di An, che non ha fermato il mercato delle droghe e ha introdotto tante inutili sofferenze, anche alle forse dell’ordine e agli operatori sociali. E ci fu il capolavoro dello stesso delfino di Almirante contro Tremonti, quando bloccò la vendita degli immobili pubblici di servizio a Roma per non dispiacere ai sottufficiali dell'aeronauticalea (è vero!).
Ora Fini si propone come garante dei pentiti di mafia alla Spatuzza, e questo sarebbe giù un fatto. Un uomo d’ordine che propone un partito o un patto della legge e l’ordine. Di destra pura e dura. Contro ogni tentazione viziosa della politica. A partire dalla incredibili collusioni che Berlusconi si è visto imporre per aver dato lavoro a un mafioso. Per non aver reagito quando il mafioso stalliere è stato denunciato. Ma sicuramente dirà che no, lui non ha nessun piano di legge e ordine.
C’è la legge Bossi Fini. Che però Fini dice che non è quello che si dice, una legge che rende difficile l’immigrazione clandestina, o comunque indesiderata. Ed è peraltro, in tutta evidenza, inefficace. C’è una legge Fini sul consumo delle droghe, inutilmente coercitiva, che la maggioranza berlusconiana si vide imporre dall’allora leader di An, che non ha fermato il mercato delle droghe e ha introdotto tante inutili sofferenze, anche alle forse dell’ordine e agli operatori sociali. E ci fu il capolavoro dello stesso delfino di Almirante contro Tremonti, quando bloccò la vendita degli immobili pubblici di servizio a Roma per non dispiacere ai sottufficiali dell'aeronauticalea (è vero!).
Ora Fini si propone come garante dei pentiti di mafia alla Spatuzza, e questo sarebbe giù un fatto. Un uomo d’ordine che propone un partito o un patto della legge e l’ordine. Di destra pura e dura. Contro ogni tentazione viziosa della politica. A partire dalla incredibili collusioni che Berlusconi si è visto imporre per aver dato lavoro a un mafioso. Per non aver reagito quando il mafioso stalliere è stato denunciato. Ma sicuramente dirà che no, lui non ha nessun piano di legge e ordine.
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