Formidabile, violenta trasposizione della vicenda dell'autore nel suo soggetto. Di Rahel Levin e August Varnhagen, persone per più aspetti stimabili, Hannah Arendt fa dei parvenu, lei perfino sciocca per essere ebrea, e quindi stretta tra assimilazione e rifiuto. Hannah Arendt non aveva avuto, e non avrà, problemi di rigetto della società cristiana e "occidentale" in cui ha vissuto, riconosciuta. Ma vive in questa biografia, che invece è un esame di coscienza, la stupidità ("banalità"? o è richiamo della traduttrice?) della sua relazione con Heidegger. Il cui rigetto ha ogni ragione - nel momento in cui scrive - di imputare al suo essere ebrea (dopo la guerra capirà invece che il suo amante, che ora dipende da lei per la riabilitazione, non è la Volpe che si credeva).
La trasposizione è talmente evidente che non si capisce come Lea Ritter Santini non la rilevi (e nemmeno Federica Sossi): sente che il testo è falsato, sia come saggio sia come biografia, ma non dice il perché. E' la despedida di Hannah, il canto dell'addio, nel momento in cui decide di pubblicarla. Non amabile.
Hannah Arendt, Rahel Varnhagen, storia di una donna ebrea
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