astolfo
Aiuti – S’intendono allo sviluppo, e non ne hanno mai prodotto una briciola. Residuo del terzomondismo, che da scienza dell’imperialismo e della dipendenza, si è trasformato, all’Onu, nelle cancellerie e nei Parlamenti, in propositi di buona volontà, inerti. Il terzomondismo è da tempo un residuo, ma non abbastanza, un fatto di buoni sentimenti sviati, che non hanno apportato alcuno sviluppo ai poveri del mondo, a parte le critiche: ha effetti che si prolungano, anzi, devastanti, in quanto si surrogano alle soluzioni produttive poi sperimentate. In Africa per prima, il continente del,a vergogna del mondo. Forse perché “Africa semper aliquid novi apportat”, uno degli “adagia” di Erasmo, i proverbi, ripreso da Rabelais, dal “Gargantua”: la scoperta dell’Africa è un fatto dei posteri, è recente, ed è molto approssimativa. All’incirca è il posto delle vacanze dei volontari di ogni cooperazione. Ancora fino a qualche tempo fa era diffuso il mal d’Africa, tra quelli che avevano due e tre mogli, e tra i froci a Nord, ma ora anche gli africani hanno scoperto i loro diritti, a Sud e a Nord del Sahara, e il mal d’Africa non conviene più, il continente è rimasta terra di preda degli aiuti allo sviluppo, e questo la sta stremando: c’è chi vuole riempirla di preghiere, chi di vaccini, anche non scaduti, e chi di macchine dismesse, ma nessuno che le compri qualcosa o le dia lavoro. L’immigrato africano, nero o anche bianco, è anzi il tipico animale da lavoro libero, da utilizzare a piacimento. E l’Africa non è tutto.
Sono vent’anni che c’è la globalizzazione, da Tienanmen, ma il terzomondismo non è morto per le buone coscienze. La cooperazione, gli aiuti. Che sono la proiezione della nostra buona volontà, dei problemi della nostra buona volontà, ma sono anche un handicap. Il problema centrale del Terzo mondo è non più contestabile, è la marginalità nella rete produttiva mondiale. Si può anche dire l’arretratezza. Che dopo cinquant’anni di indipendenza, centocinquanta per l’America Latina, ognuno avendo la responsabilità di se stesso, è colpa propria, dei propri governi, dell’incapacità, l’avidità, la violenza. Per la persistenza, in Africa, in molte zone dell’Asia, in alcune dell’America Latina, dello stato di natura hobbesiano, con un senso del sociale poco sviluppato, distorto nell’interesse familiare o tribale. Ma per noi il Terzo mondo è il problema del che fare, dell’aiuto che ad esso possiamo dare. Che non è l’“aiuto”: la colonia, la scuola ridipinta, le magliette del foot-ball, il posto di medicazione.
Perché tanto impegno, e anche tanti capitali, sono stati inefficaci, e talvolta controproducenti? La Somalia indipendente ha fagocitato molti più capitali italiani, prestati a titolo gratuito, di quanti non ne avesse spese il colonialismo della stessa Italia, per piombare in una barbarie senza fine, senza aver mai nemmeno eretto un sasso. Un programma d’azione è un fatto quasi tecnico: date certe condizioni ottenerne la migliore combinazione. Ma il nostro che fare nasce da un'esigenza morale e ha una finalità morale. Nasce da un bisogno di riparazione ai secoli della conquista, dello schiavismo, del colonialismo, e vuole salvare il Terzo mondo insieme con noi stessi. Il Terzo mondo è diventato il terreno della catarsi: tutti coloro che hanno una rivoluzione incompiuta, politica (comunista), etica, sociale, culturale, individuale, e talvolta tutt’e cinque insieme, si sono rovesciati sul Terzo mondo. Hanno cominciato le sinistre francesi, accasciando l’Algeria sotto l'accusa di non aver realizzato quel socialismo di cui la Francia non voleva sentir parlare, e si arriva ai volontari che si rodono il fegato perché gli africani musulmani si mangiano l’agnello grasso per la fine del Ramadan, invece di destinarlo alla riproduzione e al miglioramento delle greggi, o perché i costosi medicinali vengono buttati tra i rifiuti, oppure si insabbiano al contrario nell’inerte elogio della medicina etnica.
Il Terzo mondo è il cassonetto dei nostri buoni sentimenti frustrati, del rimorso, dell’autocritica. Del rifiuto di se stessi. Ne erano avamposto i missionari, anche nelle nefaste conseguenze: che presentavano la croce passando da un eccesso all’opposto, dall’imposizione della rinuncia ai beni terreni all’imposizione del padrone, cristiano, raziocinante, costruttore. Così i cooperanti, vedono con terrore l’africano ambire alla casa in muratura, a due paia di scarpe, e perfino al posto e all’automobile, mentre la via della salvezza passa a loro avviso per l’austerità, l’uguaglianza, l’autenticità.
I buoni sentimenti non sono colpevoli in se stessi, ma portano a un vicolo cieco. L’aiuto non corrisponde alle aspettative del Terzo mondo, per cui si viene a creare quell’impasse tragicomico che vede i cooperanti trasformarsi in fustigatori dell’avidità e della violenza dei poveri. C’è un che di ridicolo nella tragedia somala, quando alla fine non si può non dire che se la gente muore e s’ammazza non è perché l’Italia non abbia aiutato il paese, perché al contrario lo ha aiutato, e continua ad aiutarlo nella carneficina tra le tribù, ma perché non c’è verso di fare dei predoni dei buoni cittadini. Ma sopratutto l’aiuto è inutile ai fini dello sviluppo, e impedisce anzi che questo s’instradi sul cammino giusto. Lo sviluppo ha bisogno di possibilità di lavoro. E il lavoro ha bisogno di sbocchi.
Germania – Ha l’esercito più pacifista del mondo. La carriera militare è stata sempre invisa nel dopoguerra. Di più ovviamente negli anni della contestazione, e poi del terrorismo. Le forze armate, a corto di quadri, dovettero aprirsi a chiunque avesse bisogno di un salario, a prescindere dagli studi o dalla specializzazione. Avvenne così che negli anni Ottanta assorbissero le migliaia di laureati in Lettere (Philologie) dei decenni precedenti, compresi i dottori, indipendentemente dall’età, che non trovavano alcun’altra occupazione, per ferme di 4-6 anni, in più casi raffermati.
Pensare tedesco è pensarle tutte. Che lo spirito è femmina (Schlegel), che lo spirito critico è l’irrazionale e Socrate è Empedocle (da Hölderlin a Nietzsche e a Heidegger), che lo spirito è il popolo (Hölderlin), tutte meno quelle sensate. L’ordinario tedesco vuole fuochi pirotecnici. La serie è infinita: lo spirito è lo Stato (Hegel), l’atto è tutto (Kant), per vincere bisogna perdere, per amare odiare, fare il male per fare il bene (Nietzsche e la cultura della crisi). Sbracare col Witz nelle cose serie, e stare serissimi nella trivialità quotidiana.
Prima si rideva in Germania. La Guerra dei Trent’anni, consolidando la Riforma, ne ha levato la voglia.
Il libretto del “Don Giovanni” è venduto come libretto di Mozart.
Guerra – Non si sa se può essere giusta. Ma non può essere umanitaria. Come non poteva essere popolare. E sempre è il fallimento della politica (Clausewitz).
Bobbio ha riparlato di guerra “giusta” nel senso della scolastica, della casuistica, di Bodin, della filosofia tedesca. Mentre la questione non è metafisica ma politica. E non di opinione pubblica ma di leadership: il popolo è portato a credere, anche a Scalfaro e D’Alema nella incredibile guerra alla Serbia. Cioè: la guerra “giusta” dev’essere regolata, è quella regolata.
Metafisicamente la guerra è bestiale: è la morte. L’unico rimedio è stata la regolazione: uniformi, campi di battaglia, codici d’onore e convenzionali, armamenti controllati. Anche, seppure in misura minore, nelle degenerazioni attuali: guerra totale e terrorismo. Giusto e ingiusto vengono per conseguenza: questione di regole (per esempio, non ammazzare tutti per la colpa di uno solo) e di diritto internazionale (trattati, convenzioni). Giusta può essere la guerra sulla base alle regole, altrimenti è l’odio.
Una volta, finita la guerra, ci si ritrovava vainqueur sans vanité, vaincu sans rancune (Rémy de Gourmont, “Le joujou patriotisme”, p. 60), senza superbia e senza odio. Lo Stato nazione e il patriottismo – lo Stato della borghesia – hanno introdotto l’odio perenne. La razionalità borghese vorrebbe giustificare la guerra, razionalmente ingiustificabile, con un ideale. Cioè metafisicamente. E ha rilanciato su grande scala le patrie greche, degli ideali di autorealizzazione e di primato, e delle guerre permanenti.
Il fatto è che il primo istinto della borghesia è battagliero. Fatta la rivoluzione nel 1789 non ha pensato che alla guerra. È per questo che il popolo nelle democrazie andrebbe tenuto fuori dalle deliberazioni sulla guerra. Con il consumismo (nelle borghesie mature) questa stessa società ha maturato l’assetto psicologico opposto, quello del lasciarsi vivere. Non è meglio, la qualità della leadership diventa decisiva.
astolfo@antiit.eu
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