C’è qui il primo, e solo vero, saggio letterario su Malaparte scrittore, che emerge infine dal formidabile conformismo novecentesco. E fa capire l’insistito riferimento a Breton. Fa capire Kundera, la passione congiunta per il romanzo e per la verità cose, la verità.
Il libro ha molti bianchi, forse la metà delle pagine (ed è per molti aspetti una riduzione in pillole, più assimilabile, dei saggi di quindici anni fa, "I testamenti traditi"), ma l’altra metà vale la spesa. Per il comico in Dostoevskij, “la comica assenza di comicità”. Per il “paradosso luciferino” della violenza, che tanto più si diffonde dove “non c’è” il male, non si concepisce o si trascura. E perché “i protagonisti dei grandi romanzi non hanno figli”? Per Garcia Marquez e derivati, che bisognerà leggere: i loro in realtà sono “personaggi senza storia”, piacciono per questo. Per Kafka: “L’opera di Kafka è inconcepibile senza Karl Barth, il creatore della teologia negativa”. Per l’emigrazione che non sempre è esilio: spesso si sta bene fuori. Per “il futuro anteriore della nostalgia” (Oscar Milosz). E per la diversa ottica, convincente, dei saggi che interpolano i testi brevi: Bacon il pittore, Anatole France, in proprio e come archetipo delle “liste nere”, Janáček, Malaparte. Con la recenti scoperte antillane di Kundera, Aimé Cèsaire, martinicano, e René Depestre, haitiano, quali prolungamenti di Breton (Césaire ricordato “giovane, vivace, piacevole” nel 1975, quando aveva 62 anni).
Kundera non si cura della squallida accusa in patria di spionaggio per la polizia che lo perseguitava, e non rinuncia all’humour. Anche al Comitato Centrale. Che nel gennaio 1968 decise di farsi “presiedere da uno sconosciuto Alexander Dubcek”. Senza illudersi: “Nell’epoca dei procuratori, che significa «la vita»? Una lunga sequenza di avvenimenti destinata a dissimulare, sotto un’ingannevole superficie, la Colpa”.
Milan Kundera, Un incontro, Adelphi, pp. 186, € 17
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