Di Irène Némirovsky non si mette abbastanza in luce il lato “selvaggio” o istintuale: la crescita e formazione isolata, senza scuola ma anche senza amicizie, in una famiglia sgangherata e sradicata, essenzialmente autodidatta, su letture occasionali, quasi tutte di romanzi. Insofferente della Sorbona nei suoi vari tentativi. Una che è cresciuta in Russia e non ne sa nulla, nemmeno la lingua: ai pochi esami che passò alla Sorbona, professori compiacenti la interrogarono sul romanticismo russo e Pushkin, ma non poterono darle più di 11 e 13 su 20. Scrisse i primi racconti come divagazioni sulla fanciulla che era stata, “Nonoche”, sventata e svaporata, tra Biarritz e Nizza, balli e privé, cioè casinò. Giunse al successo con “David Golder” radicalizzando la dissipazione, dalla leggerezza all’avidità, in linea col diffusissimo pregiudizio antibolscevico antisemita di quegli anni. Un tratto che sarà sempre in lei prevalente, dicono i biografi, la derisione, fino all’autoderisione. Insieme però con la sventatezza. Al fondo della deiezione, alla vigilia della deportazione, le istruzioni alla governante delle bambine si centrano sulle pellicce: "Quando il denaro sarà finito, cominciate a vendere le pellicce che troverete nelle nostre valigie e che certamente riconoscerete".
La biografia si presenta documentatissima. Piena di fatti e fatterelli. Irène ai vent’anni diventa coinquilina di Léautaud, vicina di Henri de Regnier. Il nome, Némirovsly, è “che non conosce la paura”, dopo il terribile pogrom cosacco del 1648. Tra le sue amicizie di ragazza solo industriali o banchieri, figli d’industriali o banchieri, o emigrate russe fidanzate di principi. È anzi troppo piena, e confusa, la lettura è legnosa. Tanto più per essere rimandati continuamente in nota.
Andiamo avanti molto con Tatiana Morosova prima di sapere chi è – è, si presume, una biscugina di Irène, nipote della sua amata zia Victoria. Le prime cento pagine viaggiano tra Odessa e Kiev come se fossero la stessa città. Gi ebrei a fine Ottocento sono “un terzo della popolazione dell’Ucraina”… Sono ebrei più spirituali che etnici, discendenti dei Khazari… Gli ebrei sono a Odessa “quasi un terzo delle città”, di 400 mila abitanti… Mentre restano poco sviluppati gli ambienti, in Russia e a Parigi. E le amicizie personali, maschili e femminili, se non per le poche tracce residue nella corrispondenza. Gli stessi rapporti familiari sono frastagliati e poco afferrabili. Soprattutto la figura del padre, che potrebbe anche essere più importante di quella dell’odiosa madre – sulla nonna si riversa giustamente lo stupito rancore delle nipoti, le figlie di Irène che ne hanno propiziato il revival, la nonna che nel 1945 le rifiutò, benché orfane e sole, ma la madre ci convisse per oltre vent’anni. Della scrittrice alla fine sappiamo che era alta un metro e mezzo, quindi minuta, e figlia di un banchiere dalla dubbia reputazione. Non molto. A parte le centinaia di pagine, ma ripetitive, sull’odio di Irène per la madre.
La biografia esibisce però quello che non dice: una bambina viziata, di una coppia senza senso, di veri arricchiti, un padre affezionato ma assente, la madre divorante. Una donna giovane e poi adulta lettrice costante di Katherine Mansfield, fino agli altimi giorni - la scrittrice che ebbe sempre vent’anni, e per una notte d’amore con Francis Carco nell’altra guerra (Francis Carco...) fece un viaggio da Londra a Parigi e poi al fronte. Impaurita ma non molto alle avvisaglie della tragica fine, la morte a Auschwitz (di tifo), arrestata dai francesi e consegnata ai tedeschi, che per un paio d’anni l’avevano protetta, per “fare” un carico – ogni trasporto ferroviario nella logistica eichmanniana doveva essere di mille ebrei. Interdetta dalla pubblicazioni dalle leggi antisemite del 1940, Irène aveva continuato a pubblicare sotto pseudonimo, nella Francia occupata, fino al giorno prima dell’arresto. La lettura di Katherine Mansfield, che i biografi dicono l’abbia seguita tutta la vita, ne connota la psicologia, capricciosa, e la scrittura, di superficie: non c’è scavo né coerenza, la scrittura brilla della caleidoscopica sorpresa, e l’apparente futilità. Solo la materia è più dura, rispetto alla Mansfield: l’avidità, la violenza, l’indigenza. E i sentimenti, che sono bassi più spesso che lievi o elevati. La stessa “Vie de Tchékov” può non essere occasionale, un lavoro “alimentare”, di un autore che visse 43 anni, 4 più di Irène, con la stessa febbre d’Irène e della Mansfield, che ne visse 34, tutt’e tre negli ultimi anni duramente provati.
L’argomento principale delle cinquecento pagine è l’odio per la madre. Il secondo è l’antisemitismo. Di Irène compresa, con il “David Golder” e altre rappresentazioni poco dignitose, se non caricaturali, di personaggi e ambienti ebrei, dell’Oriente e dell’Occidente, in quasi tutti i suoi romanzi e racconti. Poliakov l’aveva inclusa tra gli antisemiti nel 1977, nella sua “Storia dell’antisemitismo” – riferimento che eliminò nella riedizione del 1981. Ma su questo la biografia è innovativa e interessante, rilevando e documentando due fatti storici trascurati. Uno è incontestabile, ora che il bolscevismo non c’è più: la sindrome antibolscevica, acuta e insieme cronica, in Francia negli anni 1920 (ma anche in Germania, in Inghilterra, in Germania), diffusissima, persistente. Che ai bolscevichi accomunava gli ebrei, ritenuti gli artefici e animatori della rivoluzione: di ogni personaggio del bolscevismo, Lenin incluso, si trovavano nomi e passati ebraici. Di questa sindrome erano tanto più infetti i russi emigrati. E tra essi i tanti ebrei. Una sindrome persistente anche negli anni 1930, sebbene contrastata dalla grande inventiva del Comintern, dell’apparato propagandistico di Willi Münzeberg.
“Fantasio”, il periodico satirico cui Irène si rivolse per pubblicare i racconti di Nonoche, i suoi primi abbozzi, era specializzato nell’antibolscevismo, con corteo di maschere antisemite. Le quali in Némirovsky sono anche calchi dei fratelli Tharaud, scrittori ora dimenticati che lei privilegiava quali esponenti dello “spirito francese”, o delle “buffonerie” allora in voga di Paul Morand, “Lewis e Irene”, e “Je brûle Moscou”. Sul tema, come lo sintetizzò Albert Londres, lo scrittore di viaggi, che pure era progressista, dell’invasione degli ebrei, o meglio degli Orientali, il Siberiano, il Mongolo, l’Armeno, l’Asiatico, e l’Ebreo, cacciati dalla rivoluzione, puzzolenti, e inassimilabili.
In subordine, un’argomentazione dei biografi più sottile, meno evidente di questa, ma non meno vera: i russi ebrei emigrati, specie quelli ricchi (ma non solo: Bove, Legrand, Elsa Triolet…), come del resto molti russi poveri non ebrei, tra essi Berberova, s’identificavano immediatamente con la Francia, e la Francia non discriminava l’“ebreo francese”. Per scrivere il “Golder”, Irène Némirovsky si è molto documentata, i biografi sono anche troppo precisi su questo, sui contratti di Borsa, il mercato del petrolio, i traffici finanziari col regime bolscevico. Ma anche, volendo delineare dei personaggi ebrei, sulle abitudini religiose e alimentari ebraiche, e sul quartiere allora ebraico del Marais a Parigi. Come una qualsiasi anatomista, cresciuta per caso in una famiglia di ebrei, sposi ed ebrei peraltro per caso.
Il materiale d’invenzione stesso si trovava nelle cronache, ricche di avventure di uomini d’affari ebrei. Del padrone della Shell Henry Deterding, su cui David Golder è modellato, ben più che sul proprio padre di Irène. O del banchiere belga Alfred Loewenstein, stella di Biarritz negli anni in cui la giovane Irène vi folleggiava con la non amata mamma: partito da Londra sul suo Fokker, Loewenstein non vi si trovò più all’atterraggio a Bruxelles – Golder sparirà anche lui, ma durante un traversata in mare, come poi scomparirà, negli anni 1980, il magnate britannico Maxwell.
Il secondo fatto storico che si trascura, e i biografi invece tratteggiano, è la crescita dell’antiparlamentarismo – forme variegate di fascismo – nella Francia del decennio successivo, gli anni 1930. Che anch’esso rinfocola l’antisemitismo. La Grande Crisi americana fu seguita a Parigi dal collasso di alcune banche di uomini d’affari ebrei – il caso più famoso è Stavisky ma molti patrimoni sparirono in altre disavventure. I due pregiudizi, antibolscevico e antiparlamentare, si risolsero in antisemitismo acuto nel 1936 del Fronte Popolare socialcomunista, guidato da Léon Blum, ebreo eminente.
Ciò nonostante, è pur vero che alla sua uscita nel 1930 il “Golder” era stato uno scandalo per molti. Con la figlia Denise, che cura la memoria della madre, Philipponnat e Lienhardt dicono la novella “una variante dell’Ecclesiaste nel campo della grande finanza”. Insistono sullo spirito di derisione “più forte di lei”, fino all’autoderisione. E cercano le solite pezze d’appoggio. Nell’occasione i due critici molto autorevoli Benjamin Crémiux e André Maurois, che ne segnalarono “la profondità morale”. I quali, aggiungono i biografi, anch’essi erano ebrei. Ciò non toglie che il libro apparve ai più antisemita, ha una durezza che mantiene. E sarà leitmotiv per la gran parte dei suoi romanzi e racconti.
Il tema ha due risvolti. Uno è il rapporto di Irène con la famiglia e la tribù. Il secondo è la rappresentazione che ne fa. Entrambi sono negativi, ma il secondo deriva dal primo. E dalla indigenza estrema, materiale e morale, degli ebrei di Russia. Aborre cioè un certo tipo di ebraismo, storicizzato, che non si può non condannare, seppure non col linguaggio della propaganda razzista. Joseph Roth farà negli stessi anni una rappresentazione più criticamente - storicamente - accettabile della stessa realtà ebraica. Na, a questo punto, entra in gioco la ragazza irène, ricca, viziata, che è il suo proprio.
Come tutti, Irène è condizionata dal sangue, dal padre, dalla madre, e tuttavia come loro è senza radici. Prende radici col francese, la lingua della sua governante e vice mamma, e col marito Michel Epstein, che ha un fondo di tradizione se non di religiosità, e una parentela socialmente stabilizzata - una “parente” è la moglie di Alfred Adler a Vienna, uno zio, si presume, il produttore di Feyder, L’Herbier, Clair, Renoir. L’atavismo, se c’è, è limitato al sangue, e alla convivenza certo, fino al matrimonio e oltre. Più “freddamente crudele”, come di lei disse l’intervistatrice Nina Gourfinkel, della “Nouvelle Rvue Juive” che compassionevole, come appare ai più a posteriori. In fatto di ebraismo è essa stessa l’intreccio di quei due decenni, da una parte e dall’altra, due parti che non sono così nette come Hitler le semplificherà.
In una nota al progetto “L’ebreo” che non scriverà (su Léon Blum, Stavisky e Trockij) appunta nervosa: “Dopotutto, io gli ebrei li amo come cavie”. La “Revue des deux Mondes”, del cui gruppo era ormai parte stabile, le rifiutò nel 1936 la pubblicazione del racconto “Fraternité” per antisemitismo. Ce si può dire costante e sempre vivo, come l’odio della madre, oggetto di un’infinita serie di romanzi e racconti. Dei cui genitori, vecchi ebrei di Odessa, si occupò però premurosa, amabile, fino alla fine – mentre la figlia-madre faceva finta di niente. I biografi richiamano Virginia Woolf, la sua “freedom from unreal loyalties”. Non sembra opportuno: per Irène Némirovsky l’ebraismo è una realtà durissima, di cui fu testimone da bambina, di sofferenza, indigenza, sconsideratezza.
Il rifiuto dell'atavismo, sofferto, è anche un un atto di liberazione. L'atavismo contro cui Irène si dibatte è quello che Hitler le imporrà, e dunque a un primo esamela sua lotta è positiva. L'atavismo non ha senso e necessità morali, se non sotto le forme della tradizione e delle radici, quando vi ci si riconosce. Ma allora come fodnamento della libertà. Sappiamo dal Medio Evo che la religione non può più essere camicia di contenzione. E meno di essa, non dispiaccia a Hitler, la razza: che cos'è la razza, la mamma? La purezza della mamma, certo il mito è forte, ma chi la mamma non ce l'ha? Specie dove le altre forme di condizionamento tribale, il matrimonio, la parentela, la scuola, gli usi e le interdizioni alimentari sono irrilevanti o svanite. Le genealogie e le stirpi possono essere sordide, come la psicologia sociale. Oggi sono in auge e per molti un arricchimento, ma al tempo di Irène Némirovsky e per lei personalmente un handicap.
Ma di lei non c’è da salvare questo o quello, si salva da sola come scrittrice. C’è solo da presentarla per quello che era, e resta ancora opera da fare, non rifocalizzando la sua vicenda da Auschwitz e dall’Olocausto. Anche “Suite francese”, che le ha ridato nuova vita, va vista col cannocchiale degli anni di prima e non con quello di dopo. Di “Suite francese” Irène Némirovsky è in certo modo vittima, lei era un’altra, come persona e come scrittrice. Con molte paure, certo: quella dell’ebraismo povero (del ghetto, della shtètl), doppiandosi con quella della povertà tout court. Che non ne fa una scrittrice da condannare doppiamente, anzi per questo diversa e con un suo spessore, una cifra riconoscibile nel garbuglio letterario del Novecento: dello sradicamento totale, linguistico, storico, culturale, familiare, nazionale, e di un ancoraggio, se ancora esiste la parola, unicamente umano. Per tentativi ed errori. Lo stesso rapporto con la madre, seppure certamente di reciproco odio, andrebbe rivisto. Della madre si sa solo ciò che ne dice Irène. I biografi riducono a curioso aneddoto una storia di pellicce della madre che Irène ha venduto dopo essersi introdotta in casa sua in sua assenza. E a una ragazzata l’incursione della dodicenne Denise con la governante a Parigi nella primavera del 1942, per "svaligiare" la casa della nonna.
O.Philipponnat-P.Lienhardt, La vita d’Irène Némirovsky, Adelphi, pp. 518, € 23
martedì 5 gennaio 2010
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