Si ascolta e si guarda Palamara, il segretario del sindacato dei giudici, e si piomba in un’assemblea del tardo Sessantotto, anzi del Sessantanove, quando la burocrazia prese il sopravvento sul movimento. In quelle interminabili, faticose elucubrazioni di “cioè”, “criteri”, “metodi”, con gli “evidenziando ed esplicitando” dei culi di pietra sindacali, alla Fiat come tra le toghe. Che organizzavano la rivoluzione: chi entra nel corteo, chi esce, chi sfila prima, chi dopo, chi canta che e a quale ora, e dieci, cento, mille rivendicazioni in una – più rivendicazioni, più rivoluzione (nel 1970 si arrivò a ventuno, non si sapeva per cosa si scioperava). Gli mancano i baffetti, la sicumera e la noia ci sono tutte, con l’embonpoint da figlio di mamma. E la cecità: non vedere, non sapere cosa accade (nel 1970 l’inflazione era al 25 per cento, l’anno), i processi di quindici e venti anni, a costi da mutui sub prime, da terza, quarta e quinta ipoteca, da indebitamento fino alla quarta generazione, e danni emergenti irrimediabili. Ma ha in più il Partito.
Questo effettivamente è straordinario. Quarant’anni fa i Palamara sarebbero rimasti confinati alla cellula, alla sezione, alla rsu, oggi sono gli Uomini da cui il Partito Pende, Longo o Berlinguer o Natta non l’avrebbero tollerato. E non si sa se è un bene o un male. Forse non è male che i partiti alla Palamara stiano fuori dal governo. Ma in alternativa, certo, c’è Berlusconi.
sabato 30 gennaio 2010
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento