Enrico Brignano si meraviglia di essere il secondo nella graduatoria dei best-seller: “Il libro l’ho scritto in venti giorni, tra un lavoro e un altro”. E ne incolpa i critici: “I critici sono degli sfigati destinati a morire soli, senza famiglia”. Il comico sembra confuso, ma sulla solitudine dei critici no. Ora, cominciare con l’autorevolezza di un comico una recensione di Pedullà, il principe dei critici militanti, sembra irrispettoso. Ma non lo è: il critico ha voluto come sottotitolo “Scampoli illustrati di politica e letteratura degli Anni Zero”. Gli anni zero, matematicamente inconcepibili, sono quelli del calendario: dopo i millenni c’è sempre un secolo di semivuoto. Ma, figurativamente, in questo millennio gli anni sono zero per i critici: un millennio che non ha opere che se ne fa dei critici?
Il lutto c’è tutto, volendo fasciarsi la testa. Quante cose non accaddero nel 1957, per il critico Pedullà agli esordi e per il lettore? E quante invece non accaddero nel 2007. O nel 2005, o nel 2009. Ma, come a ogni commiato, il critico si diverte, e si narra le sue storie: la sinistra del Carlomignolo, esilarante, lo sciopero dei ministri, dovendosi decidere se andare in pensione a 58 anni invece che a 56, “I soldi svaniscono”, parola del papa, o “Non c’è alternativa al ridicolo in Italia?”. Insomma, la storia breve di dieci anni: con Arbasino e Magris, anche Pedullà emerge come migliore political scientist della contemporaneità. Inoltre ha risolto - caso non infrequente fra i critici del Novecento, bisogna riconoscere - il dilemma del "Piacere del testo": "Come prendere piacere a un piacere riferito ? Come leggere la critica?" Sì, se il critico si fa voyeur per noi, ci fa entrare in scena ("il commento diviene allora ai miei occhi un testo, una fiction, una busta fessurata"). “Impariamo l’elezione” è da antologia: “Abbiamo perso, ma abbiamo anche vinto. Siamo stati sconfitti alla Camera ma anche al Senato…”. Scoìppiettante, come vuole le sue recensioni: il critico come un “precario che sogna di scoprire autori di qualità perpetua”. O: “Il pluralismo post-moderno fu come il Giubileo che si replica ogni giorno. Cancellò i peccati, mandando tutti in paradiso”.
E tuttavia è anche lui sperduto nel Millennio, come ogni critico letterario. Si pubblica meravigliosamente di tutto, ma il critico militante, che ha bisogno ogni giorno del nuovo libro da mettere sotto i denti, è perfino in crisi d’astinenza. Pedullà, che dei critici militanti è un po’ il decano, deve sentirsi particolarmente in crisi, anche se prova a reagire. “Col vecchio si avanza?”, si chiede e chiede: “Non si avanza solo col nuovo? È morto il nuovo e non il vecchio?” Grazie al sarcasmo lieve, o non sarà cinismo, si diverte ancora. Ma la domanda è triste già prima della risposta per chi ha operato cinquant’anni di recensioni a caccia del nuovo.
Libro di favole
Pedullà s’è fatto un libro all’antica, ampiamente marginato, con belle illustrazioni, corretto, per dire che il critico, malgrado tutto, si diverte. Chi segue il “Caffè illustrato”, la costola pedulliana del vecchio “Caffè” di G.B.Vicari, internazionale e trasgressivo, ci troverà molte cose che ha già gustato. Ma con un sorriso amaro - si fa anche il caso “in cui servisse scrivere male”, non l’ornato da scuola di scrittura cioè. E, sempre all’antica, questo “Vecchio che avanza” sarebbe propriamente un libro di favole. Vi si parla di orfani che non diventeranno mai padri. Ed è un po’ una maledizione, un ripudio. Ma è vero che c’è una pausa nel ciclo naturale, un mancamento, come se la letteratura da qualche tempo si fosse fermata. Non all’improvviso, frenando come giusto: da un paio di decenni fanno ottima narrativa i filologi, gli storici, i critici letterari. Se non che, come sempre, anche in letteratura non c’è futuro perché il passato è svanito. Il fatto è che il critico si è dissolto, la sua immagine e il suo ruolo (l’autorevolezza, l’insight, il coraggio). È per questo che il giornale, come l’editore, non gli dà più spazio – e la stessa accademia lo tollera, a vantaggio di altre discipline, paraletterarie. E il critico militante, senza giornale, non è.
A un certo punto Pedullà scopre che il Novecento, il suo secolo, non esiste. Lo scopre a Palermo, a un convegno di giovani al quale è stato invitato – da giovane? I giovani cioè non lo dicono: tacciono. Sono critici e autori che scrivono ma non leggono, e quindi non leggeranno il Novecento. Le loro opere nascono come i funghi, non ci sono più parentele, tematiche, stilistiche, somiglianze, rinvii. Chi vuole scrivere può imparare senza dover leggere. L’unica cosa che deve fare è avere un buon promotore-trice: agente, direttore della scuola di scrittura, editore. E scrivere il libro nel linguaggio corrente, nel filone corrente, le caste, le antimafie, i vaffa, Berlusconi, il genere internazionale, l’esotico, e il noir.
Ora, Walter tutto questo lo sa bene, e non lo sa. A Palermo li ha anche visti e li ha ascoltati, a lungo, non visto e non ascoltato benché sia di figura massiccia e voce suadente, ma pensa che si siano distratti. E immagina che la vecchia critica e la vecchia scrittura siano tornate e abbiano ingombrato il campo. Non è tornato niente. Impera, anche col mercato, il conformismo che oscura la Repubblica, specie nelle lettere e soprattutto nella critica, Pedullà dovrebbe saperlo, che dopo cinquant’anni di “professione” è ancora l’enfant terrible della categoria. Un circuito sempre vieto di falso modernismo, e molto baronale, anzi partitico - per cui c’è “la morte della critica” solo dal 20 dicembre 2009, quando ne ha parlato Asor Rosa. Il critico, insomma, molto è vittima di se stesso.
Anche per avere preteso molto da se stesso, perché no, seppure non se ne possa fare una colpa. Curtius apre la “Letteratura europea e Medio Evo Latino”, che è del 1948, proclamando: “L’odierna scienza delle letteratura, quella degli ultimi cinquant’anni, è un fantasma”. Che forse è vero, ma non sembra. Quella dei cinquant’anni seguenti, però, è sicuramente stata padrona, facendo aggio sulla letteratura stessa. La critica viene, insomma, da un privilegio insostenibile.
La cinesizzazione
Sulla cosa in sé c'è poco da ridire, l’editoria è infine americana, si paga e vende i libri, ha imparato a venderli. È “la cinesisazzione della letteratura”, anche qui Pedullà non si fa mancare il lampo: costi minimi, tempi stretti, e manufatti di rapida usura. È “il mercato delle copie”, che “sono diverse solo se fallate”. Ma questa è una novità vera: l’editore studia il mercato, inventa la clientela, impone il prodotto – si fanno investimenti nella promozione dei libri che a volte eguagliano quelle dei film. Le librerie sono affollate come i supermercati. I libri si vendono a milioni - anche se non è possibile, non è vero, che tutti abbiamo a casa Faletti, Ammanniti, Brown, Saviano, e un Camilleri al mese. Il mass market non è una cattiva novità, uno, neppure se critico, non saprebbe dolersene. Se non che, come si sa, ogni volta la cattiva moneta scaccia la buona. Dice: è la letteratura industriale. No, anche i prosciutti sono industriali, anche i vini,ma sono saporiti. È il conformismo del denaro, del potere.
La novità peraltro è duplice: gli autori firmano quello che devono scrivere, da “Gomorra” a Giordano e Vitali, presto e bene. Scuole di scrittura insegnano a scrivere anche a chi non ha fatto le scuole, e probabilmente meglio delle scuole. Sono per questo il tipo di corsi per adulti più frequentato, benché care – ma ne è stata fatta nel 2004 anche una fortunata seria a dispense. Abili redazioni comunque rimediano a tutto rapidamente, anche a costo di lasciare le correzioni al malvagio correttore automatico – “Gomorra”, il più grande best-seller italiano, è stato confezionato in sei settimane, con Fofi, Viareggio e tutto, e nessuna possibilità di critica, l’antimafia è più spietata del mitra. Viene da dire che le redazioni editoriali sono migliori di quelle giornalistiche, cui il critico militante fa capo. più rapide, più vispe, più smart. Oppure che nulla è cambiato, ma i soldi e le copie vendute sono importanti.
“È bello che in una società dove è serio solo chi persegue l’utile garantito dal mercato migliaia di scrittori dedichino il loro tempo a un’attività inutile quanto la poesia, la narrativa e la critica”, lo stesso Pedullà se ne fa una ragione. È la tirannia dell’epoca, inafferrabile è incontestabile: dopo un secolo vale sempre Kafka, quello dell’uomo circondato e circuito. Da impenetrabili burocrazie, che se si dicono alfiere di libertà non possiamo nemmeno criticare, con servi remunerati e arbitri devoti. Il rapporto del resto è biunivoco: se gli editori moltiplicano i libri copiando dalla televisione, la critica ha abbandonato l’autore e il piacere del testo, l’oggetto della sua applicazione, se non del suo desiderio. Trasferendosi nel migliore dei casi nelle plaghe sterili del testo (intertesto, pretesto, etc.), per un’esibizione d’intellettualità – la più sterile di tutti sarà stata la filosofia del linguaggio.
Pedullà si vuole diverso. Giustamente è convinto, e non per il suo speciale punto di vista, che anche in letteratura, come nella musica e nelle arti visive, la tradizione principale debba essere la tradizione del nuovo: non è la vita qualcosa che si rinnova? Invece si trova a fronteggiare, sfrontata e prosperosa, prospera come non mai, la tradizione del vecchio: i libri sono l’unico settore che non risente la crisi in Italia (la domenica prima di Natale il “Sole 24 Ore” rimbeccava uno scrittore americano che aveva osato dubitarne, schierando una paginata d’indignati autori e editori italiani). Ma il peggio, va ridetto, non è questo, non sembra. È forse che il critico si trova a scoprire che tanto del vecchio nuovo era vecchio – insensato, manierato, di bottega, perfino di bottega politica. Mentre c’era di più e di meglio nel vecchio vecchio, considerato, argomentato, narrato.
Di nuovo, dice Pedullà, c’è Silvio D’Arzo, che ha il più lungo saggio del volume, ma è morto nel 1952. D’Arzo è nuovo perché non si poteva pubblicare in vita, c’era il neorealismo. Anche il Novecento, quando se ne farà la storia, sembrerà strano. Qui si vede del resto l’altro Novecento, che Pedullà non ha frequentato, se non nelle recensioni d’obbligo: Brancati, Sciascia, Landolfi, Fenoglio, che è poi il Novecento che resta, perfino Campanile e, purtroppo, un Vittorini narratore. Tornano gli amatissimi D’Arrigo, Volponi, Bonaviri. E c’è La Cava, un ritratto finalmente in rilievo di questo remotissimo autore, anche se nella solita dimensione regionale, anzi paesana. Mancano ancora Malaparte e Primo Levi, che forse sono i migliori, quelli che “tengono”, Soldati, un altro che si fa leggere anche nelle scampagnate tra le vigne, ma aveva il torto in vita di essere socialista senza essere stato comunista, o Arbasino, che è addirittura liberale.
È così che il critico militante, rifiutato dalla democratizzazione della letteratura, non c’è peggior equalizzatore del business, è ristretto alla ridotta: al notabilare “noi e loro”, gli happy few, i venticinque lettori, eccetera. Che è in realtà una tebaide, seppure col telefonino. Con una forte riserva cammelliera, nel caso di Pedullà, in questa traversata del deserto: la sua origine calabrese. Incancellabile, specie per il sentimento di offesa verso il mondo che non ci riconosce - un altro calabrese illustre, Corrado Alvaro, lo sapeva e rifiutava alla radice il rifiuto, facendosi cosmopolita, ben italiano, e molto romano. Ma con un distacco naturale dalle cose che può essere feroce. In senso buono, per narrare, e per narrare il narrato, o criticare: l’ironia che sorregge lo sdegno è anche una sorta di occhio di lince sulla realtà, di cui vede fulmineamente le connessioni intime, le debolezze. Il critico può sempre consolarsi, è la sua funzione. Che può ancora dire la sua, seppure in edizione limitata, e sa farlo.
Walter Pedullà, Il vecchio che avanza, Ponte Sisto, pp. 224, € 18
mercoledì 13 gennaio 2010
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