“Il caso Franza”, l’inedito postumo di vent’anni fa, è qui raddoppiato di volume. Con molta filologia, di Reitani e dei curatori dell’edizione originaria. Indigesto quello, la paranoia di un rapporto di coppia (quello della stessa Bachmann con Max Frisch, che ne ha dato la sua versione nel non esaltante “Il mio nome sia Gantenbein”), questo lo è al quadrato. E per il pezzo più ripetuto, il viaggio turistico in Egitto, a potenza insostenibile – Ingeborg ci tenta pure con un’“orgia” di “amore arabo, o amore greco”, di una bianca con tre arabi, ma proprio non riesce a rappezzarlo. E perché, dopo il femminismo della prima edizione, acculare ora Ingeborg Bachmann al vieto terzomondismo - per di più nella forma del membruto?
Questo testo è uno dei più rifiniti dei diecimila fogli lasciati inediti da Ingeborg. Rivisto e riorganizzato dalla sua casa editrice, il lascito è stato pubblicato quindici anni fa con titolo funerario “Todesarten”: cinque volumi, 2.900 pagine a stampa, di modi di morire. Per dire quanto ha pesato sugli ultimi suoi dieci anni di vita la relazione infelice con Max Frisch. Ma Ingeborg è d’ingegno critico superiore: i filologi dovrebbero frugare meglio tra gli inediti.
Magari l’Egitto è quello di Celan. “In Aegypten”, la poesia del
loro amore, Paul Celan invita Ingeborg a cercarlo laggiù, nel servaggio, lui non ne è mai uscito. Ma lei si immagina liberata con tre uomini nel deserto,
un’altra prigione, la prigione d’amore, un amore non corrisposto, l’autoesilio - anche se, si sa, nella compagnia redentrice di Adolf Opel, finalmente un austriaco. Questa lettura sarebbe già qualcosa.
Ingeborg Bachmann, Il libro Franza, a cura di Luigi Reitani, Adelphi, pp. 379, € 24
Nessun commento:
Posta un commento