C’erano anche delle mulierculae publicanae, stando all’enciclopedico atto d’accusa di Cicerone “Contro Verre” nel 70 a.C., delle donne cioè che acquisivano gli appalti pubblici a letto. E fu, quello di Cicerone, il periodo di massima propagazione della categoria. O almeno così si direbbe stando al gran numero di deprecazioni che essa suscitava: esattori sopratutto del fisco, i pubblicani non erano fatti per essere popolari. Ma dureranno ancora a lungo, e sempre più prosperi.
La questione morale non salvò la repubblica romana. Anzi, esercitata come fu, anche da Cicerone, contro i nemici politici e a favore degli amici, ne affrettò la caduta: l’etica ridotta a fine particolare è la fine dell’etica, e quindi della politica. Mentre i pubblicani tornarono attivi e potenti, seppure avevano avuto realmente un momento di crisi.
I pubblicani erano a Roma i percettori di pecunia publica ex aerario erogata, di denaro dello Stato erogato come appalto di opere. Compreso il servizio di riscossione delle imposte, per il quale veniva corrisposto un aggio, in genere sotto forma d’interesse fisso. In cambio l’appaltatore doveva fornire un’opera o un servizio, definito da un apposito contratto – il capitolato. Stava quindi alla sua abilità risparmiare sulle opere da realizzare, oppure farsi corrispondere le imposte, impresa universalmente avversata.
Il compito degli esattori era particolarmente difficile perché le tasse le pagavano le province, i territori cioè della repubblica, e poi dell’impero, al di fuori della penisola italiana. In linea di diritto questi territori erano proprietà dello stato romano, praedium populi romani (dove il praedium evoca un qualsiasi terreno in proprietà), di cui gli abitanti, i provinciali, avevano soltanto l’usufrutto. Da qui la base giuridica dei numerosi tributi di cui erano gravati. Tutte le province pagavano un tributo fisso, stipendium. Ma c’erano anche tasse sulla produzione, cioè sul reddito, molto articolate: sul grano, sull’olio, sui profumi, sui trasporti marittimi, eccetera. Quelle sul pascolo si chiamavano scriptura.
Il diritto discendeva dalla ragione vera dell’espansione di Roma, lo sfruttamento delle regioni conquistate. Il dominio romano apportò ovunque grandi benefici, per la pacificazione degli stessi territori annessi, e per il loro sviluppo, grazie alle comunicazioni e altri lavori pubblici, ai commerci, al miglioramento dell’agricoltura, alla cultura in generale. Era anche flessibile, poiché veniva adattato alle condizioni di ogni regione, e regolato da un sistema giudiziario abbastanza efficiente. Ma gli abusi erano frequenti, e quelli di Verre, il governatore della Sicilia, rientravano fra i tanti. Del resto, era un sistema di dominio. E il vincolo tributario, la sua cinghia di trasmissione normale, fu esercitato sempre con durezza.
Negli anni del processo a Verre le esazioni fiscali furono tali in Sicilia da espellere dalla terra tanti piccoli coltivatori - i loro prezzi non erano più concorrenziali con quelli dei produttori africani - che una buona metà delle superfici coltivabili fu abbandonata: la Sicilia cessò di essere il granaio d’Italia, e si posero le condizioni per la sua piaga bimillenaria, il latifondo. Gabellotto, voce analoga a gabelliere, o esattore, sarà chiamato in Sicilia dopo il Medioevo chi gestisce il latifondo subaffittando ai coltivatori contro un canone fisso.
La riscossione delle imposte aveva un posto centrale nel sistema di dominio romano, anche se veniva relegata tra le funzioni di diritto privato, e appaltata a privati cittadini. Richiedeva inoltre capitali ingenti, a garanzia contro i rischi dell’esazione. Si costituirono quindi delle società finanziarie, che furono anche il terreno e lo strumento per l’ascesa di una nuova classe, quella dei cavalieri, poiché gli affari non erano consentiti ai senatori, la forza politica della repubblica. Ogni appalto dava luogo alla costituzione di un apposito ufficio locale, retto da un vice-direttore, pro magistro, sotto un direttore, magister, che invece risiedeva a Roma, dov’era il potere politico. Gli appaltatori si costituirono inoltre in un albo, ordo publicanorum, che ne rappresentava gli interessi.
L’ascesa degli imprenditori-cavalieri si accompagnò alla decadenza della repubblica. Ebbero fama di disonesti e esosi - e non occasionalmente, per trovarsi in combutta con questo o quel governatore avido. Erano la parte visibile del potere, nient’affatto eroica, anzi vischiosa e ingiusta, e presto ne furono lo strumento principale, insieme con i pretoriani dell’imperatore. Erano gli homines novi, oggi si direbbe la borghesia, che prosperavano non sul sangue o sulle armi ma sull’ingegno e sul lavoro. Il loro ruolo politico è riconosciuto nelle orazioni “Contro Verre” dallo stesso Cicerone, che nella sua tormentata politica ebbe come costante il riconoscimento della potenza finanziaria dell’ordine equestre, e del suo peso crescente nella vita pubblica - il processo a Verre sostenne in favore di Pompeo, e della classe equestre che lo appoggiava, dei pubblicani cioè - seppure attento a non inimicarsi il Senato.
La dislocazione dell’impero, e il sospetto in cui la Chiesa tenne a lungo il pagamento degli interessi provocarono una lunga eclisse della categoria. La funzione naturalmente non andò perduta: frantumato lo stato, ognuno era padrone, e il più forte imponeva i suoi tributi, anche i più stravaganti, comprese le prestazioni sessuali, esigendoli da se stesso. Ma i soggetti subirono un’eclisse di circa un millennio. Tanto ci impiegò la chiesa a riconoscere la liceità dell’economia monetaria. Il ripensamento fu facilitato dopo il Duecento, dopo cioè l’invenzione del Purgatorio, con la possibilità della redenzione dal peccato. Ma si dovette ricorrere all’arabo per introdurre il concetto di esattore, ora chiamato gabelliere.
La diffidenza della chiesa è ben espressa da san Girolamo, autore della traduzione vulgata dei vangeli in latino, al quale si deve l’ignominia in cui il pubblicano venne a cadere. La categoria era temuta e disprezzata in Israele come altrove. Ma fu nella trasposizione latina del vangelo che la parola divenne sinonimo di vituperio, di solito in abbinamento con le meretrici. Pubblicani saranno anche degli eretici manichei, confusi con gli albigesi, così denominati perché plebei, appartenenti agli strati infimi della società.
Ma le vie del Signore essendo infinite, si deve al Gesù dei Vangeli uno dei rovesciamenti più vertiginosi della realtà, nella parabola del fariseo e pubblicano che ripone le ragioni dell’etica nel profondo dell’animo. Il fariseo era l’interprete purista della Legge. Gesù così immagina i due al tempio: “Il fariseo, ritto in piedi, prega dentro di sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come tutti gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano». Il pubblicano, in disparte, senza ardire di levare gli occhi al cielo, si percuote invece il petto dicendo: «O Dio, sii propizio verso di me che sono un peccatore»”. Per dire di qualcuno che è pieno di se stesso e ipocrita, si dice adesso fariseo. Gesù non preferiva i peccatori, evidentemente, ma diffidava di chi accusa gli altri e si assolve.
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