venerdì 26 febbraio 2010

Contro Verre, per Pompeo

“Il popolo romano, anche se è afflitto da molti rovesci e difficoltà, nulla reclama tanto nell’ordinamento dello Stato quanto la fermezza e la serietà dei tribunali”. È l’anno 70 avanti Cristo, Roma è nel mezzo di una decade di tumulti contro l’autorità e i poteri costituiti: l’agitazione provocata da Marco Emilio Lepido, la rivolta dei gladiatori guidati da Spartaco, la ribellione di Quinto Sertorio in Spagna, l’attacco dei barbari, dalla Tracia al Mar Nero, l’inconcludente campagna contro Mitridate in Asia, l’insidia dei pirati ai commerci marittimi, i conseguenti tumulti di popolo a Roma, per la difficoltà degli approvvigionamenti. Il giovane Cneo Pompeo, vincitore di Lepido e Sertorio, torna dalle province per dare la scalata al potere, e si candida al consolato per il 70 insieme con Marco Licinio Crasso. Adotta un programma democratico, appellandosi ai ceti nuovi, i cavalieri, contro la tradizione senatoriale.
La candidatura è già una mezza vittoria: per consentirgliela il Senato ha infatti dovuto abolire le disposizioni che impedivano il consolato ai generali in attività. Ma per mettere in riga gli ottimati ci vuole ancora qualcos’altro.
Ci pensò Cicerone. Marco Tullio aveva 36 anni, come il suo nuovo idolo, e una carriera solida di retore e giureconsulto. Non si era mai esercitato nell’accusa: nei dodici anni di attività si era distinto in numerose cause civili e penali sempre come difensore. Ma per quell’anno 70 aveva puntato anch’egli a una carica politica, quella di edile, e non ebbe remore ad assumere il ruolo che più di tutti, con le “Catilinarie” e le “Filippiche”, l’avrebbe reso famoso. Avviò quindi tempestivamente, ai primi di gennaio, un’azione penale, per corruzione, concussione e sacrilegio, contro Gaio Verre, reduce da tre anni di governatorato in Sicilia.
Verre era un uomo potentissimo ma un bersaglio facile. Di appena dieci anni più anziano di Cicerone, aveva avuto tempo di depredare ben quattro province nelle quali aveva rivestito incarichi pubblici a partire dall’84: nella Gallia Cisalpina, a Benevento, dove si era appropriato della cassa dell’esercito della Repubblica romana contro Silla, prima, e poi dei beni dei proscritti di Silla, in Cilicia, e da ultimo, dal 73 al 71, in Sicilia. Cicerone promosse l’azione penale, facendosi paladino dei Siciliani venuti a Roma a protestare, sicuro di vincerla.
Le leggi a Roma erano molto severe contro la concussione, o abuso delle cariche pubbliche per ottenere dei benefici privati, personali, familiari o per gli amici. Il reato di concussione è il primo per il quale si conosca l’istituzione di un apposito tribunale nella legislazione romana. Fra le pene c’era l’infamia o ignominia, la perdita cioè dei diritti politici, e forse anche l’aqua et igni interdictio, che aveva come conseguenza l’esilio. Peggio ancora per il peculato, quando cioè il funzionario si appropriava di un bene pubblico. Questi reati erano ritenuti tanto gravi da essere apparentati al sacrilegium: il furto di beni di culto poteva configurarsi come un delitto di lesa maestà, cioè di tradimento, e così quindi la concussione e il peculato.
I processi, però, erano tutt’altra cosa che le leggi. Si poteva ritardarli con varie procedure artificiose, o comunque comprare i nobili giurati, con voti o denaro, se si avevano un buon avvocato, influenza politica e disponibilità. Verre tentò dapprima di togliere l’azione a Cicerone, facendo candidare alla pubblica accusa tale Quinto Cecilio, che in qualità di siciliano e di perseguitato in prima persona avrebbe avuto più titoli dello stesso Cicerone.
È nella discussione preliminare contro questo uomo di paglia di Verre che Cicerone mise in guardia i giudici. Alle prime battute del “Discorso contro Quinto Cecilio” anticipò il tema dell’impazienza popolare, con cui avrebbe attaccato le “Catilinarie”. Ma sopratutto ebbe buon gioco perché il legislatore romano era durissimo contro gli accusatori che non si prendevano la responsabilità delle proprie accuse. Oggi il pregiudizio è favorevole agli accusatori. Tommaso Buscetta, capomafia e pluriomicida diventato accusatore, è stato perfino invitato a dare lezione di etica e di diritto in Parlamento. Il diritto romano non scoraggiava l’accusa, ma pretendeva che essa fosse provata, pena l’infamia e la bollatura a fuoco con una C calumniator sulla fronte. “Per lo stato”, così Cicerone concluse il suo breve intervento, “nessun mezzo di salvezza è più efficace di questo: chi accusa un altro tremi per il proprio prestigio, l’onore e la reputazione non meno di chi è accusato”. E Quinto Cecilio scomparve di scena.
In seconda battuta Verre fece iscrivere un altro procedimento d’accusa, presso la stessa giuria che avrebbe dovuto giudicarlo, un momento prima che Cicerone aprisse formalmente l’azione penale. Questo ritardò di tre mesi e mezzo il suo processo, in modo che si aprisse ai primi di agosto e poco dopo venisse aggiornato per poter onorare due serie di festività in calendario. Ma Cicerone non si preoccupò della tattica dilatoria di Verre. Impiegò buona parte del tempo in un lungo viaggio in Sicilia per approfondire la sua istruttoria. Ebbe una buona accoglienza e molte informazioni, sopratutto nella parte occidentale, dove il suo incarico di questore a Marsala nel 75 veniva ancora ricordato con gratitudine.
All’apertura del processo Cicerone si limitò a una brevissima orazione, e poi utilizzò i nove giorni a disposizione per far parlare i testimoni. L’orazione, venti paginette, gli servì a mettere in mora i giudici. Cicerone esordì affermando che Verre aveva comperato la data del suo processo. E concluse con un accenno al caso allora celebre di Cluenzio, che per subentrare nell’eredità aveva fatto condannare per veneficio il patrigno e altre due persone, comperandosi il tribunale, ma il cui intrigo era stato appena denunciato.
Verre seppe subito di non avere speranza, anche se il tribunale rinviò la sentenza a dopo le feste. Fece sparire i preziosi, vasi, statue, argenti, gioielli. E alla ripresa del dibattimento si fece trovare in volontario esilio. Con questa mosse ottenne anche la riduzione a una cifra irrisoria del risarcimento cui fu condannato. Visse ancora per ventisei anni in esilio dorato, lontano dai drammi delle guerre civili.
Cicerone non si privò del piacere di rendere pubblica la requisitoria in cui demoliva il malversatore. Nei cinque volumi “Contro Verre”, per 500 pagine c’è un campionario interminabile di nefandezze che l'imputato avrebbe commesso fin da ragazzo, ma c’è anche molta cura nell’appoggiare Pompeo e l’ordine equestre, gli homines novi, imprenditori, pubblicani, banchieri, senza rompere con il Senato - al quale Cicerone stesso apparteneva per essere stato questore. In particolare mise ogni cura ad allontanare i sospetti dai tanti cavalieri che operavano in Sicilia in quanto pubblicani - appaltatori di opere pubbliche e delle imposte - e come usurai.
Ma è il finale che dà il senso alla storia. Pochi mesi dopo, nel 69, Cicerone difese Marco Fonteio, ex governatore della Gallia, accusato come Verre de pecuniis repetundis (concussione). Ai Galli, a differenza che ai Siciliani, Cicerone contestò la facoltà di mettere in dubbio la buona fede di un cittadino romano. Il cittadino Fonteio fu naturalmente assolto. Era amico di Pompeo. Nel 66 Cicerone difese Cluenzio, venuto in giudizio come calunniatore per la storia del veneficio. Anche Cluenzio fu assolto.
Nel 43 Antonio, il nuovo padrone della repubblica, impose a Verre la consegna dei suoi preziosi vasi di Corinto. Verre si rifiutò. Condannato a morte. la affrontò con dignità a 72 anni, qualche giorno dopo aver saputo come Antonio avesse portato a ben più miseranda fine il suo accusatore Cicerone.

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