Messo nel mirino dai suoi banchieri, in preparazione dell’attacco al debito italiano, Draghi si difende attaccando lui stesso il debito? È possibile, il governatore è troppo dipendente dai suoi banchieri anglosassoni. Non c’è altra spiegazione alla sceneggiata che ha improvvisato sullo scudo fiscale.
Nel week-end fonti bancarie fanno circolare sul “New York Times”, nientemeno, la voce che Mario Draghi, quand’era direttore generale del Tesoro e poi alla Goldman Sachs, autorizzasse e praticasse vendite avventurose, se non fraudolente, di derivati. Subito l’agenzia bancaria Bloomberg intervista il Nobel Mundell, giusto per dire l’Italia un “paese a rischio”. Rilanciando così la campagna, tenuta in caldo da “Economist”, “Financial Times” e “Wall Street Journal”, le vestali della speculazione, per colpire eventualmente l’Italia, una volta messa in cascina l’operazione Grecia.
Draghi replica al “New York Times”, debolmente. Anche perché il “New York Times” non lo ha nominato. In un articolo circostanziato, opera di tre specialisti, ha descritto alcune operazioni, di derivati venduti alla Grecia, e di swaps con cui la Grecia e l’Italia hanno potuto mascherare parte dell’indebitamento, un paio delle quali riconducibili a Draghi. Come? Attraverso Gustavo Piga, l’unica fonte citata nell’articolo. Economista a Roma Tor Vergata, dopo un’esperienza alla Columbia e a Macerata, con ottimi rapporti nel Council on Foreign Relations di New York, dieci anni fa Piga aveva denunciato Draghi per un’operazione di swap nel 1996, come direttore generale del Tesoro, con la banca JP Morgan, per garantire surrettiziamente liquidità al governo. Il governo era quello di Prodi, e Piga, nipote dell’ex presidente della Consob Franco Piga, è amico ed è stato collaboratore di Mario Baldassarri, l’economista che fu viceministro dell’Economia nel secondo governo Berlusconi. Ma, poi, Piga è uno a cui piace stare su Facebook, e non ha mai fatto il nome di Draghi, anzi non ha nemmeno citato l’Italia per lo swap 1996, il suo studio era “ipotetico”.
Col governo invece Draghi fa sul serio. Mercoledì 17 febbraio ha egli stesso pronto, un calcolo che rilancia il rischio Italia. Approntato in 24 ore, “sui dati al 15 febbraio” dei rientri dello scudo fiscale, lo studio afferma che è rientrato appena un terzo di quanto il governo dice, 34 miliardi. I giornali non capiscono, compresa “Repubblica”, e l’indomani si limitano a dire che la Banca d’Italia calcola un rientro di 85 miliardi invece dei 98 pretesi dal governo, non mettendo nel conto alcune poste (rientri per cifre piccole, preziosi, opere d’arte, e altre voci). Il 19 ci pensa allora Maria Cecilia Guerra, sintonizzata da Roma, a richiamare l’attenzione: la Banca d’Italia stima a soli 34,8 miliardi i rientri, invece che a 98. Subito rilanciata dal fastidioso Bragantini, the man of the party. Anche “Repubblica” il giorno dopo corregge il tiro: “Bankitalia «corregge» il Tesoro sui rientri effettivi: il 60 per cento resta all’estero”. Dopo “Repubblica” interverrà il direttore generale delle Entrate Befera, per confermare i dati del governo.
Tempesta rientrata? No, è un assaggio. Che uno studio vecchio di dieci anni, che non cita l'Italia, un case study, opera di un economista italiano, ricicci sul più influente giornale americano non è casuale. Tutto fa brodo quando si prepara un'offensiva, gli archivi hanno memoria lunga, e anche un caso ipotetico, di uno svagato professore allora di Macerata, viene utile. Ben più incisivo è il tiro sul debito di una banca centrale seppure ex, come la Banca d'Italia. Poiché di un tiro si è trattato e non di una difesa, come sarebbe stato opportuno.
Befera si difende con le metodologie, e non può fare altro, essendo un burocrate. Anche Guerra, economista a Modena, consulente dell’Economia prima di Tremonti, nemica dichiarata dello scudo fiscale, si è cautelata con le metodologie, ma forse non ha capito di cosa si sta parlando. Tutt’e due, insomma, hanno ragione: Befera aveva incassato, a fine dicembre, per il 5 per cento d’imposta sui rientri, 4.75 miliardi. Quindi i rientri sono quanto dice lui. Diverso è il conto della disponibilità, in Italia, dei capitali rientrati: ridomiciliati in Italia, possono essere liberamente investiti nella Ue. Una tempesta in un bicchier d'acqua. Per di più, chi legge Guerra lo vede, in chiave elettorale.
Ma per la tempistica e la pretestuosità del calcolo l'intervento della Banca d'Italia, segnalato e spiegato alla professoressa Guerra e a un paio di giornalisti, ha uno scopo chiaro: mettere in difficoltà i conti pubblici. È una schermaglia, forse un avvertimento. Ma è un avvertimento che vede la Banca d’Italia impegnata a indebolire la posizione di relativa fiducia di cui i conti pubblici italiani temporaneamente beneficiano. A che scopo? Un altro Sansone avrebbe risposto al ricatto dei banchieri facendo traballare il loro tempio. Draghi, essendo andato a scuola dai gesuiti, evidentemente no - loro ne sanno sempre di più.
Probabilmente sanno che la speculazione non è un complotto in armi, ma una serie ben congegnata di voci. Anche amichevoli. Ora dovrebbe essere un'agenzia di rating a mettere sotto osservazione l'Italia, è così che si fa. Anzi, si può pure scommettere che lo farà. Se Tremonti non si muoverà in contropiede - un ministro dell'Economia ha molte offe, per le banche e per le loro agenzie di rating. Prima della bufera il rating del debito greco era lo stesso dell'Italia. Anzi, per Standard & Poor's è stato lo stesso fino a metà gennaio. Il che può voler dire che Tremonti è riuscito a mantenere saldo il timone, almeno fino a quella data. Oppure che niente è scontato.
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