Un narratore fastidiosamente moltiplicato, bino o trino. Per associazione d’idee, il genere Bloom-Flower dell’“Ulisse” - ma già di Pirandello, si sa: “Ogni io che si esprime è una parte che si recita”, a p. 45, potrebbe essere di Pirandello. Con la stessa ironia ma senza la passione del gioco di parole. E per diacronia, il genere “L’urlo e il furore”, quando già il cinema ha popolarizzato e reso innocuo il flashbackf, l’avanti-indietro. Il narratore, la cui identità resta celata al lettore, un caso quindi dell’Io che si raddoppia infinitamente col suo Io segreto, è stato abbandonato da una donna molto amata. All’apparenza. La rottura è l’occasione per prospettare varie possibilità della rottura stessa. Non “vista dall’uno, vista dall’altro”, come si è già fatto. Prospettate dallo stesso trino protagonista: “Io mi provo addosso le storie come abiti”, è la frase del libro più famosa. Sulla base dell’acutismo: “Un uomo ha avuto un’esperienza, ora cerca la storia che le si attaglia”. Facendosene anche giudice, in quanto si propone egli stesso al lettore come caso di lettura multipla – una sorta di narrazione alla terza potenza, a tre livelli.
Insomma, il racconto come ipotesi, o popperiana falsificazione. Che poi è l’Ermes multiplo greco-latino, dice lo stesso Gantenbein. O la vecchia coscienza di Kant. La quale, diceva il filosofo, “è un’altra persona, in tribunale sarebbe il giudice”. Un’altra persona nel senso di un altro da sé, “una persona ideale, che la ragione si procura da se stessa”. O il successivo due in uno, di Nietzsche et al.. Una novantina di take, o scene, sono poi montate dallo stesso scrittore. Che così, negandosi, si ripropone Artefice Massimo. Tre anni prima, nel 1961, Raymond Queneau e Marc Saporta proponevano esempi ancora meno-ma-più autoriali di letteratura combinatoria, con i "Cent mille milliards de poèmes" e “Composizione n.1”, fornendo i testi su supporti intercambiabili, di cui lasciavano al lettore il montaggio, come con le carte da smazzare. Il risultato è alterno: il racconto ogni tanto è scorrevole (nelle parti che non riguardano l’assunto), ogni tanto no. Con qualche caduta: "Ibiza non è più quella", già cinquant'anni fa. La lettura è scorrevole soprattutto nella vena di Ippolito Pizzetti: il “pollice verde” ingentilisce molto nella traduzione l’irsuta prosa di Frisch. Di successo malgrado tutto, la traduzione italiana è alla quarta o quinta edizione, segno che la letteratura ha lettori.
L’amore a Roma
“Gantenbein” è famoso soprattutto per adombrare la relazione di Frisch, scanzonato ma non tanto, con Ingeborg Bachmann, che si consumò, letteralmente, a Roma, tra il 1958, l’anno in cui Frisch ebbe il premio Büchner, massimo riconoscimento tedesco, e il 1963. Anche se non si vede come: l’indecifrabile Lilla, l’unico personaggio femminile della triplice storia, potrà avere qualcosa in comune con Ingeborg, ma allora di molto intimo, che non si decifra. O Ingeborg andò in depressione perché Max era Gantenbein, tutto e niente. Lila, certo, ha “bellissimi occhi azzurri spalancati”. E Gantenbein, un marito che si finge cieco, la sospetta di tutto, anche di farsela una volta con “un pescatore italiano”. Nonché, nella vita reale, con Werner Henze, dirà il compositore, benché gay dichiarato. Insomma, Max-Gantenbein accecato dalla gelosia...
Certo, la relazione non era stata felice, Inge Feltrinelli ha in proposito note succose in un testo scritto per “Quel che ho visto e udito a Roma”, la raccolta delle corrispondenze giornalistiche di Ingeborg Bachmann a metà degli anni 1950. Inge Feltrinelli nei primi anni 1960 era spesso a Roma per lavoro, e abitava con Giangiacomo sullo stesso pianerottolo. Frisch si accompagnava volentieri a lei la mattina per il caffé. E si lamentata invariabilmente di Ingeborg: “Sono troppo svizzero, ma non riesco a capire perché non si alzi mai prima delle due del pomeriggio, perché non legga mai la sua posta e i cassetti della scrivania trabocchino di lettere ancora chiuse. Cosa posso fare? Viviamo nella città più bella del mondo, ma faccio fatica a capire l'italiano e lei”. A cena i Feltrinelli incontravano talvolta tutt’e due: “Ingeborg era triste, malinconica, vestiva solo di grigio scuro; ho sempre avuto l’impressione che fosse totalmente sottomessa a Max Frisch. La sua ipersensibilità si avvertiva in ogni gesto. Soffriva. I due erano troppo diversi”. Nel 1963 ci fu la separazione. Ingeborg fu per qualche tempo a Milano ospite dei Feltrinelli, i pomeriggi e la sera passando con Nani Filippini nei bar a bere. Quindi si trasferì a Berlino. “Nel dicembre 1963 ci ha scritto”, ricorda Inge Feltrinelli: «Sono stata molto malata per lungo tempo e solo in questi giorni ricomincio a scrivere lettere, a lavorare e a vivere un po'». L'ho ritrovata pochi anni dopo a Roma: era stupenda, con la minigonna, una bellissima camicia dorata, i capelli corti, biondi alla Marilyn. E senza Max Frisch. Sembrava felice”. Nel 1964 il premio Büchner era toccato a lei.
Prima ancora che il romanzo uscisse, Günter Grass e Uwe Johnson, allertati da chi?, si lamentarono che Frisch trattasse male Ingeborg. Frisch negò. In una lettera all’amico pittore Aerni Victor (pubblicata su “Repubblica”, 7 maggio 2002), prima delle polemiche, indirettamente si giustifica: “Ingeborg l’ha letto per intero e mi ha comunicato le sue impressioni: che abbia fatto questo dopo che ci siamo lasciati, è ammirevole da parte sua e di grande aiuto per me”. Aggiungendo premuroso: “L’inverno è stato molto difficile per lei. Non potevamo più aiutarci vicendevolmente. Quante altre sconfitte sarò capace di subire, non so. Per me è una sconfitta, anche se sono stato io a lasciarla”. In una lettera successiva allo stesso Victor, dopo le critiche, è invece indignato: “Ingeborg, sento, sta di nuovo meglio in salute. Grazie al cielo. Il resto sono chiacchiere da salotto senza misura, Grass e Johnson ed altri si atteggiano a suoi consiglieri e giudici sul mio conto senza sapere le cose, un mito basato su pure menzogne, che a volte mi rendono difficile tacere; ogni cane, quando passa, ci piscia sopra: tutto è pubblico, poco chiaro, una giungla di mezze verità, e anche se cerco di starne lontano, mi raggiunge. La povera Ingeborg, o meglio Solveig, che aspettava solo che la sposassi, e quasi tutti ne sanno più di quanto sapessi e tacessi io allora, quando tu eri a Roma. E tuttavia, la povera Ingeborg mi fa pure pena; tutto questo non è divertente”. Frisch veva ragione: in “Gantenbein” mostra solo di avere perduto il piacere di raccontare. A furia di guardarsi: come Gantenbein un po’ beone e truffaldino, come Enderlin curato e elegante com’era sempre stato, come Svoboda evanescente.
Max Frisch, Il mio nome sia Gantenbein
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