astolfo
Compagnia - Oggi si dice in inglese, public company, ma il nome parla chiaro. Compagnia di ventura, certo, sempre meno richiesta nell'era della guerra elettronica. Compagnia della buona morte anche, per confortare i condannati, che il diritto finalmente elimina insieme con la funzione per la quale era nata. E poi Compagnia delle Indie, del Levante, dei Royal Adventurers, dei Mari del Sud, le innumerevoli copie dei Mercanti avventurieri britannici, che dal 1507 per tre secoli dominarono i commerci del Nord Europa. Che a loro volta si erano modellati sulle maone genovesi del Trecento, le associazioni private con cui la Superba faceva i colpi di mano più rischiosi, per esempio la conquista della Corsica.
Queste compagnie commerciali, con privilegio di conquista e di governo di territori remoti, si sono portate presto molto lontano dall'originario significato del termine, cum-panis, comunanza di interessi dei soci. Cum-panis la compagnia lo fu brevemente, alla sua prima apparizione nell'armamentario giuridico, nel secolo XI a Genova, e nel grande mercato veneziano il secolo successivo. Nel Sei-Settecento le compagnie assicurarono all'Europa il dominio del mondo. Surrettiziamente, con la pazienza dei mercanti, e con la coscienza di un primato tecnico e spirituale, ma con determinazione.
Fu Joseph François Dupleix, amministratore della Compagnia francese delle Indie, a individuare per primo nel 1748 la possibilità di creare un impero europeo sulle rovine della monarchia del Gran Mogol in India, e a riuscire quasi a realizzarlo in pochi mesi e con un centinaio di soldati. “Quasi”, perché l'idea gli fu rubata da un ventiquattrenne impiegato della Compagnia britannica, Robert Clive, che si improvvisò stratega politico e militare, e dieci anni dopo, a trentaquattro anni, con poche mosse, combattute sopratutto contro i francesi dell'India e contro gli olandesi di Batavia, aveva assicurato alla regina Vittoria un impero diciotto volte più grande delle isole britanniche, e a Londra due secoli o poco meno di supremazia mondiale.
La Compagnia delle Indie è il caso più noto. Ma anche le altre compagnie con interessi atlantici costruirono imperi. Non tutte, considerando che tutti i paesi del Nord Europa costituirono nel Sei-Settecento almeno una compagnia, e alla fine ne tentarono una l'Austria di Maria Teresa e Giuseppe II, e un’altra la Prussia di Federico II. Create per commerciare, trascuravano spesso gli utili dei finanziatori e partecipanti, ma mai il dominio - i cui costi comunque assorbivano i profitti quando c'erano.
Già nel Seicento, prima quindi di Dupleix e Clive, la Compagnia olandese delle Indie aveva messo insieme un vero e proprio impero, anche se non dichiarato, con sede a Batavia. Con calvinista intransigenza, espropriò gli indigeni di Giava, Malesia e Indonesia, li ridusse ai lavori forzati e, introducendo la monocultura dei prodotti di esportazione, li obbligò ad asservirsi completamente per procurarsi di che mangiare. Ma visse quasi tutto il Settecento, fra le malversazioni dei funzionari e le spese militari, dei prestiti del governo olandese, che essa stessa esprimeva.
Thomas Babington Macaulay, lo storico inglese della conquista dell'India, apre la vita di Lord Clive chiedendosi come mai, mentre si fa un gran parlare delle imprese di Pizarro e Cortes, che distrussero molto e produssero poco, nessun interesse viene portato alle imprese dei piccoli grandi uomini delle Compagnie. Sono loro, in effetti, che hanno creato l'imperialismo moderno, l'imperialismo economico.
Sulle compagnie si è anzi modellato il cuore del capitalismo moderno, la proprietà suddivisa e anonima. La Compagnia olandese nasce nel 1602 con un capitale ripartito in quote uguali e cedibili, denominate per la prima volta azioni, gestite in forma anonima, joint stock si dirà nella Compagnia inglese a partire dal 1612, anche se con soci nominativi. Jean Baptiste Colbert, ministro delle finanze di Luigi XIV e rivoluzionatore delle regole dell'economia, completerà l'innovazione nel 1664, dotando la costituenda Compagnia francese delle Indie della responsabilità limitata dei soci, e quindi dell'anonimità dei titoli. E adesso rieccole: senza apparato militare, ma con eguale determinazione, le public companies vanno all'assalto dei risparmi di tutti e ognuno, aprendo orizzonti misteriosi e invitanti, dopo l’epoca pantofolaia dei Bot, i titoli di Stato mangiainflazione esentasse.
Un filo c'è, dal privato, anzi dal personale, al pubblico. Che poi, in inglese, vuol dire privato. E non per il destino perverso delle parole: public vuol dire privato alla luce del sole, a disposizione di tutti. Almeno nelle intenzioni - perché il capitale è la cosa che più si pubblicizza per nascondersi. Il miglior privato, insomma, sarebbe nel pubblico. Ma non è facile fare il punto. La navigazione torna a vista. Torna l'avventura.
Élite – Ha funzione pedagogica. Se la classe dirigente è specchio del paese la teoria dell’élite non ha fondamento. Ma con essa allora anche la democrazia: la classe dirigente deve dare buoni insegnamenti e indicare buone strade, se è il popolo bue non ha senso e alcuna legittimità.
Il problema è sempre aperto della classe dirigente in democrazia. Ma il voto non basta come selettore: senza classe dirigente sicuramente non c’è alcuna forma di democrazia.
È pure vero che la funzione pedagogica può essere negativa, nel senso del disordine, dela crisi, e anche della illegalità. Ma è solo qui che il voto è decisivo, come sanzione.
Legge - È nomos, cioè pascolo. Con le derivate: nemesis, la giustizia, nomisma, la moneta.
Medio Evo – È oscuro perché le fonti sono oscure. Si sa tutto fino ai regni barbarici e bizantini, e dal Duecento in poi, dalle Crociate, con un buco di quattro-cinque secoli. È l’Oriente che accende l’Occidente?
L’impero carolingio resta silenzioso benché sia opera intellettuale, di gente che pensa e parla, chierici, cavalieri, cortigiani, più che di soldati bruti. E tuttavia non dice molto. Soprattutto è un mondo senza scritture, questa creazione di dotti. La scrittura naturalmente è praticata. Non diffusamente, se l’imperatore è analfabeta. Ma abbastanza da tramandare cion profulivo di codici la storia, il pensiero e la letteratura dei mille anni precedenti. Né mancano i documenti, notarili, vescovili, etc.
Perché l’epoca rimane oscura? Serviva ai monaci e ai chierici una società incolta come il suo re? La scrittura come privilegio è in effetti caratteristica del Medio Evo. Oppure gli intellettuali non avevano occhio per i fatti, né sociali né naturali, ma solo per le idee, l’impero, il diritto, l’onore, i rituali. Mancano d’altra parte i Plutarco, i Tito Livio, i Tacito, i Boezio: la storia non è disciplina in auge, e comunque non è annalistica, né fattuale, né politica, ma agiografica e pedagogia. In termini moderni si direbbe da mattinale, seppure di polizia.
Il meraviglioso, il bizzarro, il fantastico, questo è invece genere tipicamente medievale, che irrompe col Medio Evo e occupa stabilmente saldi presidi. Ma all’eopoca è esercizio freddo, di repertorio. È successivamente che diventa trabordante ricchezza immaginativa, e repertorio popolare, quando nella trama storica la natura prevalente cede alla società. Nel Medio Evo l’immaginario è la novità, ma ripetitiva, cioè pedagogica e all’apparenza incerta, poiché conviene lasciare l’autorità a Dio – giudizio di dio, tregua di Dio, streghe, demoni, etc. Di questo meraviglio fanno parte soprattutto i vescovi santi, le vergini, i cavalieri monaci.
Non è una pausa della storia, oscurantista, è un’organizzazione oscurantista della storia. A opera di intellettuali.
astolfo@antiit.eu
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