Tre saggi di Ranajit Guha, di cui uno ampio, “La prosa della contro-insurrezione”, con un intervento critico di Gayatri Chakravorty Spivak (già tradotto nel 1995 in “Altre storie. La critica femminista della storia”, a cura di Paola Di Cori), e un’introduzione di Edward Said, non fermano la rapida obsolescenza della raccolta e dei Subaltern Studies. Una metodologia e un gruppo di storici indiani degli anni 1980, che rilessero la storia dell’India dal punto di vista della “subalternità”, un concetto accennato da Gramsci nelle “Note sulla storia d’Italia”. Un concetto che poteva – potrà – essere fertile, ma è stato ridotto a uno dei tanti circoli viziosi dell’ex terzomondismo, il dominio, le élites, e appunto il neo colonialismo.
Partendo dal concetto di egemonia moderata dominante e subalternità nel periodo risorgimentale, che è solo ovvio, Gramsci lo ha arricchito col riconoscimento della capacità di dominio culturale e politico dimostrata da Cavour e dai moderati. Che anch’esso è ovvio ma è l’inizio della semantica del dominio, del fatto che il padrone ha e dà le parole. Di questo i Subaltern Studies hanno preso negli anni 1980, via Edward Said, con gli attrezzi della semiologia francese del potere, Foucault, Derrida e Barthes, conoscenza e possesso solo per la prima parte, che il padrone vince sempre, anche perché racconta la storia. Con la coscienza maliziosa, da parte di Spivak: “Io scrivo, naturalmente, all’interno di un luogo nel quale si lavora per la produzione ideologica del neo colonialismo anche se sotto l’influenza di pensatori come Foucault”. Mentre Guha giunge alla conclusione che “la storiografia svela la propria natura di conoscenza colonialista”. Ma nel colonialismo tutto è colonialista, non lo dice la retorica stessa? Spivak, alla fine, si dà il compito di “mostrare le complicità tra il soggetto e l’oggetto della ricerca – tra il gruppo dei Subaltern Studies e la subalternità”. È una buona cosa?
Di questa storia rimane poco (il ruolo della religione, la comunicazione orale) o nulla: nulla di più sulla storia dell’India, a parte l’adattamento della retorica francese, qui chiamata anti-umanesimo, ai tradizionali criteri storiografici. Resta inalterata l’esigenza di Gramsci: “Le classi inferiori” deovono “conquistare l’autocoscienza attraverso una serie di negazioni”. La destrutturazione e il sospetto non sono novità, e se usate esclusivamente non sono buona cosa. Tutto poteva essere successo nelle cantine o fra i dottorandi della Sorbona che assimilano i loro maestri. Il solo merito del saggio centrale (anch’esso ferocemente formalistico: si articola su eventi storici arcani, senza una nota esplicativa) è di sottolineare, involontariamente, l’inutilità della linguistica.
L’analisi di come opera la dipendenza nella mentalità e la cultura, o anche soltanto nei consumi, alimentari, tessili, negli stili di vita e il linguaggio, resta da fare. Di come la subalternità è introiettata, la dipendenza che non è più imperiale e obbligata ma ricercata e comportamentale. In tutto il Sud, da Latina, o Frosinone, a Capo Dondra e Bali. La subalternità, già in Gramsci, è l’introiezione della dipendenza.
R. Guha, G.C.Spivak, Subaltern Studies, Ombre Corte, pp. 144, €12,50
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