Cinque lezioni di poetica all’università Johann Wolfgang di Francoforte nell’inverno del 1959, e un contributo a delineare Ingeborg Bachmann: un’intelligenza, in più della sensibilità, da vera “poetessa pensante”, e una formazione critica che non si adattano alla mediocrità delle esperienze che vive, a Amburgo e Berlino, ma sapendo di non potersi ribellare – è qui la scelta di Roma, dove Ingeborg morirà accidentalmente nel 1973, come un rifugio, dove è presente e assente, in compagnia di altri insoddisfatti, Frisch prima, poi Henze, confuso e amaro l’uno, in creativo recupero il secondo. È sperimentatrice con strumentazione molto solida: “Tutte le opere veramente grandi di questi ultimi cinquant’anni, quelle che hanno reso visibile una nuova letteratura, non sono nate dalla volontà di sperimentare nuovi stili, né dal tentativo di esprimersi ora in un modo ora in un altro, né dal desiderio di essere moderni, esse sono nate sempre laddove, prima di ogni conoscenza, un pensiero nuovo, con la sua forza dirompente, ha dato il primo impulso, cioè dove, prima ancora di ogni formulabile etica, la spinta morale è stata abbastanza grande da concepire e progettare una nuova possibile etica” (pp.22-23). E tuttavia, o per questo, già di sensibilità retrò: “La realtà acquista un linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé… Se ci si limita a manipolare langua per darle una patina di modernità, ben presto essa si vendica e mette a nudo le intenzioni dei manipolatori”. Stanca evidentemente di sperimentalismi fini a se stessi.
E tuttavia, o per questo, sono saggi svogliati. Con pagine buone, per esempio su Svevo. Belle intuizioni, anche perfide: “Ho pensato ai nomi leggendo Proust”. La nostalgia non è celata, anche se Ingeborg non sa di che. Perplessa tratta pure dell’io in letteratura, in un'epoca, il Novecento, quando non c’è altra letteratura nel Novecento, prima della conferenza e soprattutto durante e dopo, e nelle sue stesse opere narrative. Commesso con la deiezione del secolo: degli anni delle conferenze sono le “aletterature” parigine. Ma qualche volta no, l’io è impositivo, di Proust, Musil stesso. Un Io che ne fa un secolo asfittico. La “letteratura come utopia” è titolo di Musil, di alcune note dei “Diari”.
Ingeborg Bachmann, Letteratura come utopia
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