Quanto deve essere bello-e-buono l’emigrante? È una risposta che ci dobbiamo, perché la Lega e il governo stanno rompendo ogni diga, del diritto alla vita se non dell’intelligenza – con la scusa della legge e l’ordine, altra diga che invece fanno di tutto per infrangere. Dev'essere giovane e robusto, comunque pieno di coraggio: gliene servirà una riserva inesauribile per superare il trauma di un'altra lingua, un altro clima, altre abitudini alimentari, dell'estraneità, e della povertà inevitabile. L'emigrante infatti, che parte per fare fortuna, sa che deve passare attraverso la miseria morale e la solitudine, se non anche l'indigenza economica. Ci vuole tempra per venirne a capo, e forse per questo l'emigrazione di massa ha fatto e fa la fortuna di alcuni dei paesi più ricchi dell'Europa, dell'America, dell'Oceania. Per gli emigranti la storia è diversa.
Nei primi trent’anni della Repubblica, dal 1946 al 1976, calcola Andreina De Clementi, storica del socialismo e dell’emigrazione, sono emigrati sette milioni e mezzo d’italiani. Poco meno di un terzo di essi sono emigrati dal Triveneto, che ora alimenta il pregiudizio anti-immigrati. Fino agli anni Sessanta c'erano gli italiani, la domenica pomeriggio, alla stazione delle ferrovie di Colonia o di Monaco di Baviera, per passare qualche ora a parlare la propria lingua, anche se in compagnia di estranei. Così come ora ci sono i filippini o i pachistani davanti alla stazione Termini a Roma. Andreina De Clementi analizza il fenomeno dal loro punto di vista, anche se con la documentazione ufficiale, ora pubblica fino al 1956 – che è poi il pregio della sua ricerca, l’analisi dei documenti dei ministeri degli Esteri e del Lavoro da poco accessibili. E ne ricava una storia di trappole e pregiudizi. Tanto più per essere stata quell’emigrazione regolata da accordi bilaterali e non selvaggia.
C’è stata anche un’emigrazione clandestina, ma in situazioni specifiche, in periodi circoscritti. Soprattutto verso la Francia, attraverso i valichi alpini. Ravanusa, nell’agrigentino, perse ottomila abitanti in cinque anni, la metà dei quali per canali clandestini. Normalmente l’emigrazione era regolata con minuzia e controllata. Tra l'Italia e i paesi di destinazione, ma un po' ovunque tra i paesi europei e con le Americhe: era un'emigrazione r egolata, senza prostituzione né droga, né merci contraffatte per il mercato parallelo. E tuttavia non c’è stato impegno internazionale che tenesse. Per la fortissima, costante, inderogabile opposizione dei sindacati nazionali in Francia, Gran Bretagna, Australia, Canada. In Gran Bretagna si arrivò all’espulsione di migliaia di minatori italiani regolarmente ingaggiati e già in attività. Per pregiudizi di tutti i tipi: politici (italiani fascisti, traditori,sconfitti), religiosi, razziali.
C'erano già le Leghe. Con le note schizofrenie a cascata, tipiche del "razzismo a pelle" - per esempio: ciò che è razzismo a Rosarno (Stoke-on-Trent, Peterborough, Greta, Bonegilla, Alta Savoia) non lo è a Milano (Londra, Sidney, Parigi), "noi siamo civili". E c'erano giài trafficanti di schiavi - dei viti d'ingresso, i permessi di soggiorno, le rimesse. In Alsazia e Nord-Pas de Calais in Francia, migliaia di emigrati chiesero il rimpatrio ai consolati subito dopo l’arrivo, per le terribili condizioni cui erano destinati, di lavoro e di mantenimento. Gli emigranti furono anche vittime di pestaggi in più luoghi, senza protezione legale. L’Australia non voleva italiani “di pelle scura”. L’Argentina progettò di escludere i meridionali. Il Canada lo fece. I dieci anni dell’emigrazione postbellica, per quanto protetta, fanno solo una storia di sfruttamento. Ovunque in Europa, compresa la Cecoslovacchia, nel Commonwealth e in Sud America – con l’eccezione del Venezuela.
E dunque, che segno dare all'emigrazione? Non se ne può farne una colpa agli emigranti, soprattutto se richiesti e provvisti di tutti i timbri. Non si può fare una colpa al genere umano del nomadismo risorgente, richiamo duro a morire di una tradizione ancestrale - se non è un istinto, o addirittura una passione, benché non sia registrata dai grandi classificatori, né da Aristotele e San Tommaso, e neppure dai gesuiti, Cartesio, Spinoza, Fourier. A lungo nella storia si è viaggiato per curiosità, per spirito d’avventura, o in esilio, forzato o volontario (quanti delinquenti hanno fatto fortuna in California o in Australia!). Da un secolo e mezzo, treni, autotreni, gommoni e bastimenti hanno dato vita al cosiddetto viaggio della speranza. Da metà Ottocento intere popolazioni si sono spostate, alla ricerca di un salario, che è la forma moderna della riserva di pascolo o di caccia della preistoria: tedeschi o irlandesi che sfuggivano alla carestia per il mancato raccolto delle patate, polacchi stretti fra austriaci, russi e prussiani, italiani del Sud immiseriti dalle politiche doganali anti-agricole, e ora gli africani e gli asiatici.
Attualizzata, questa ricerca si presta a due considerazioni. Quattro milioni di italiani con una specializzazione o un diploma lavorano oggi stabilmente all’estero, cinque-sei con le famiglie. Cinque-sei milioni di africani, asiatici e latino americani fanno in Italia i lavori umili. È in atto, grazie alla mobilità, una sorta di specializzazione ricardiana della merce lavoro, su cui forse non si può intervenire. Che però dice che il sistema produttivo e di governo è in Italia al di sotto delle aspettative della società italiana. C’è anche una tragica ironia nel fatto che il minatore italiano veniva “scambiato” nel primo dopoguerra quella tonnellata di carbone che aveva troncato il Risorgimento, l’Italia riducendo a Italietta, “un paese senza carbone”, domandola con la dipendenza energetica: tra il 1870 e il 1900 la tonnellata di carbone britannico o tedesco costava all’Italia tre e quattro volte più che nella Ruhr o nelle miniere gallesi. Ora comunque non c'è più nulla da fare, per un governo e per un paese, se non adattarsi al meglio a una situazione che in nessun modo può regolare d'imperio: il mercato internazionale del lavoro è un fatto.
Il mercato del lavoro è internazionale
Ci sono una cinquantina di milioni d'immigrati oggi in Europa, dalla Turchia, dall’Asia, dall’Africa, dal Perù e altri paesi latinoamericani. Di che fare un continente, a un tasso di fertilità medio, tra un paio di generazioni. Venticinque milioni di italiani sono emigrati in un secolo, fino agli anni Settanta. Di che procreare, a un tasso di fertilità medio, tre Italie nell'arco di quattro generazioni. E quattro milioni sono emigrati nell'ultimo decennio, in questoterzo millennio, che hanno ancora la cittadinanza italiana, tutti specializzati, diplomati, laureati, dottorati.
È una condizione antropologicamente debole. Emigrazione vuole dire scambio di ricchezza: un salario contro un apporto d'ingegnosità e applicazione. E un incontro: la civiltà si rianima con il meticciato, langue nell'endogamia. L'emigrazione moltiplica le opportunità. Non sempre però, non necessariamente. Anzi in questo secolo e mezzo sono perlopiù, i viaggiatori della speranza, l'esercito di riserva del lavoro, braccia a buon mercato usa e getta secondo le convenienze. E per questo tenuti separati, in punta di bastone, diversi. Quand’anche i governi li accolgano e proteggano come ogni altro buon lavoratore nazionale, come avviene in Germania, in Olanda, in Gran Bretagna, anche in Francia, restano separati nella riserva dell'odio: il gene dell'antisocialità originaria, della violenza, è sempre integro e in agguato, e la tendenza all'esclusione è una delle sue forme.
Si può capire il pregiudizio, senza naturalmente scusarlo: gelosia e orgoglio discendono dall'insicurezza. Abbiamo sempre paura di qualcuno o di qualcosa. Ma l'emigrato resta straniero anche alla sua patria, lontano, indifferente, se non ridicolizzato o criticato, e questo è più triste. Perché è vero: ogni emigrante porta in se stesso, nella sua carica di dignità, le vere radici nazionali. E dunque, perché emigrare in queste condizioni? Perché emigrare da clandestini, a costi astronomici, in condizioni di semi schiavitù, come usa nella civile Europa?
Perché l’indigenza in altri mondi è insopportabile. E non si sopporta più, la globalizzazione ha questo effetto: ha sempre meno esclusi, introducendo alla produzione e al consumo le masse asiatiche e latinoamericane, e per l’egualizzazione dell’informazione. “Il prezzo della ricostruzione” documenta un governo dell’emigrazione, seppure a fini perversi. Ora niente è più governabile, non dall’Europa, non dall’Occidente, per quanto si affanni e faccia la faccia feroce: sfuggono gli scacchieri bellici, sfuggono le merci, si ha voglia di marchiarle, e sfugge in massa l’immigrazione. Che è, sarà, un fattore di egualizzazione. Sarà, è già, la "grande trasformazione" del millennio - se in questi termini la globalizzazione è accetta, se ancora c'è un'ortodossia cui obbedire, seppure solo terminologica.
Andreina De Clementi, Il prezzo della ricostruzione. L’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra, Laterza, pp.216, € 20
sabato 13 febbraio 2010
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