Obama negozia, ma per venire incontro alle banche. Il discorso di sfida di un mese e mezzo fa si starebbe risolvendo in un compromesso. La situazione è sempre quella che il capo dei suoi consiglieri economici, Larry Summers, descriveva a Davos nelle stesse ora: “Ripresa statistica, recessione umana”. La constatazione dell’ultimo ministro del Tesoro di Clinton, nonché rettore per molti anni di Harvard, nipote dei Nobel Samuelson e Arrow, è sempre vera: i disoccupati continuano ad aumentare. Ma il tono belligerante del presidente contro le banche ha lasciato subito il posto al compromesso. Chiedendo una tassa sui superprofitti delle stesse banche, e un limite ai supernobus dei banchieri, Obama aveva prospettato un duplice divieto: alla banca universale, e alla monopolizzazione in atto del credito, ponendo un tetto agli attivi di ogni gruppo bancario. Questo tetto ci sarà, ormai la stagione del consolidamento dei maggiori gruppi è conclusa, e comunque sarà elevato e non rigido (sarà variamente parametrato). La banca universale invece resterà, commerciale e d’investimento.
Ha prevalso il “troppo grandi per fallire” del presidente di Deutsche Bank, Josef Ackermann, e dell’Institute of International Finance, che rappredenta i 380 maggiori gruppi bancari, assicurativi e finanziari del mondo. Era la massima di Cefis, con cui Montedison è andata al fallimento, trascinando nel gorgo anche la politica. Ma è su questa base che Obama avrebbe accettato di discutere. Accontentandosi di una tassa sui superprofitti, che una tantum non disturba. E di nuovi codici etici sui bonus degli amministratori. Il 21 gennaio il presidente Obama aveva detto alla televisione, con modi bruschi facendo il viso dell’arme: “Allora. Se questa gente vuole la guerra, è una guerra a cui sono pronto. E la mia determinazione è solo rafforzata quando vedo un ritorno ai vecchi vizi in alcune delle stesse banche che combattono la riforma. E quando vedo superprofitti e osceni superbonus…”. Ma il Congresso non lo ha seguito, e Obama si appresterebbe a scendere a patti.
Dalla crisi bancaria esce dunque un maggior grado di monopolizzazione del credito negli Stati Uniti. L’ex economista del Fmi Simon Johnson, ora alla Slogane School of Management del Mit, ha calcolato sul “New York Times” a metà febbraio che le grandi banche si sono allargate nella crisi, “avvicinandosi pericolosamente a una situazione di tipo europeo, dove singole banche possono essere grandi come l’intiera economia”. Non è un’iperbole. Johnson, che ha in uscita un libro su “The Wall Street takeover”, calcola che le sei maggiori banche sono arrivate nel 2009 a controllare il 63 per cento del pil, dal 17 per cento del 1995. Le prime tre controllano due collocamenti in Borsa su cinque. Le prime quattro controllano la metà del mercato ipotecario e due terzi delle carte di credito. Le prime cinque controllano quasi tutto il mercato dei derivati che si trattano fuori Borsa.
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