In un’intervista del 1992 Bossi spiegava che il suo obiettivo era porsi al posto della Dc: al centro, la parola non gli faceva paura, “dove c’è il vuoto”. Poi il centro gli fu rubato da Berlusconi, e lui si spostò a destra, razzista, antitaliano, padano. Bagaglio con cui passò a sinistra… Rischiò per questo di sparire nel 1996. E da allora si tiene saldamente legato a Berlusconi: buona amministrazione e, nei limiti del possibile, qualche riforma. Non molto, ma abbastanza, tra i tanti nani del centrodestra, per riportarlo all’8 per cento del voto nazionale da cui era partito in Lombardia, e ora qualcosa di più.
È d’uopo, nel cerchiobottismo della commentatorìa politica, assimilare Bossi a Di Pietro: la spina nel fianco, l’imprevedibilità, eccetera, l’uno a destra, l’altro a sinistra. Invece Bossi è uomo di governo. Là dove governa: in Lombardia e nelle Venezie, i suoi assessori hanno la stessa capacità amministrativa dei vecchi assessori Dc (una parte della Dc aveva grande competenza e capacità), e talvolta sono le stesse persone. Ed è uno che si confronta col nuovo. Il termine di paragone per valutare lo spessore politico di Bossi non è Di Pietro o Grillo, gli antipolitica, ma i suoi concorrenti nel centro-destra: Casini e Fini. Un abisso. Se Fini fece una crisi di governo per le case dei sottufficiali dell’aeronautica, Casini la pretese per dare la vice-presidenza del consiglio a Marco Follini, che nessuno sa chi sia. E questo è stato il top della loro politica. Bossi ha tentato l’antipolitica, con la triplice virata ideologica, razzista, antitaliana, padana. Ha capito che non funziona, e il tutto ha stemperato nella tradizione. Rapidamente collocandosi nel buon governo, là “dove c’è il vuoto”.
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