giovedì 18 marzo 2010

Il "Che" perduto in Africa

La spedizione del “Che” Guevara in Africa nel 1965 è così narrata in “Non c’è anarchico felice”, l’ultimo romanzo di Astolfo (Lampi di stampa, pp. 678, € 21 - si compra online, si ordina in libreria), dal protagonista che ne sa come di fatto notorio, solo qualche anno dopo:
“Njonjo è chiamato Dik Dik, dal personaggio dei fumetti. Con cui Heidegger farebbe bene a rimpinguare la nota tripla dichten, denken, danken, poetare, pensare, ringraziare. Si faceva chiamare Yoni in Congo col Che:
- Ero mitragliatorista, in coppia con un ruandese, Alexis, che maneggiava l’arma a occhi chiusi. Aveva imparato a smontarla, oliarla e rimontarla da un prigioniero. I ruandesi odiano i congolesi, Alexis era venuto per ammazzarne il più possibile. Gli africani non obbedivano ai cubani, li criticavano. – Odiano anche i nobili watussi, i ruandesi hutu, ne hanno massacrato un buon numero nel 1956, anno di molte stragi, quelli di “Siamo i watussi” di Edoardo Vianello, e di “ci sta un popolo di negri”, verso immortale. - Il Che era solo pure tra i cubani, era bianco. Anche il Chino l’ha abbandonato, l’attendente: un giorno si tolse la divisa, la buttò per terra, pistola compresa, e sparì. L’hanno trovato seduto contro una palma, ma gli hanno fatto fare il viaggio attraverso il lago, fino a Kigoma e Dar es Salaam, i cubani erano trattati bene. Al Che hanno dato un attendente nero, che poi s’è portato a Cuba riconoscente e l’ha fatto diventare medico: era l’unico africano che gli obbedisse. I cubani erano neri, ma ci chiamavano negri. Il Che faceva discorsi, sia ai soldati che ai civili. S’infuriava, per l’indisciplina, gli accoppamenti, i furti. E scriveva alla lavagna, cose indecifrabili, comunque non sapevamo leggere. Una tribù di selvaggi si rifiutò di rifornirci perché il Che scriveva. Vicino a Ujiji, dove c’era il mercato degli schiavi: il Che dovette spazzare la lava-gna, fu l’unica volta che rise. Quando i congolesi addestrati in Cina e Bulgaria sono tornati, hanno chiesto al Che due settimane di ferie, l’hanno insolentito, pretendendo alti gradi, e hanno litigato tra di loro, minacciandosi la morte. Avevano la camicia candida. Il Che leggeva o scriveva. Il tè prendeva senza zucchero. Non si lavava, raramente entrava nel fiume. Soffriva di diarrea. – La libertà non arriva da fuori: ci si libera, non si è liberati, e c’è chi vuol’essere liberato, è pronto, e chi no. Se arriva deve portare doni, la libertà s’intende munifica, non pensieri, la rivoluzione è un movimento del cuore. È voglia oltre il pensabile di vivere.
Le stesse cose narra l’ambasciatore, che ha modi spicci. È curioso scoprire che succedeva nel 1965 di cui non si sa a Dar Es Salaam:
- C’è stato sette mesi, mica sette giorni. Quando è uscito si è fotografato, stava all’ambasciata, sbarbato come un ragazzotto, col dopobarba bene in vista. Nyerere ha accettati i cubani per non farsi schiacciare tra gli imperialismi rossi, i cinesi che aveva chiamato, e i russi di cui non poteva liberarsi. I cubani erano centoventi, non uno, due compagnie. Il Che i congolesi se lo sono trovato tra le palle senza preavviso. Kabila era al Cairo. Laurent Kabila è apparso una sola volta nei sette mesi, con una scorta di mulatte, ha detto “armiamoci e partite” e di notte se n’è andato.
L’ambasciatore non sorride all’Ente - è di destra - ma è realista:
- È il roccioso Fidel, non il fringuello Che, che ha sconfitto l’America dei Kennedy alla Baia dei Porci. E Castro lavora per i russi. Su richiesta e spesato. Non lo nasconde. Si è preso la Tricontinental alla morte di Ben Barka, e nell’ottobre 1965, alla fondazione del partito Comunista cubano, ha reso pubblica la lettera del Che: “Altre terre nel mondo reclamano il contributo dei miei modesti sforzi”. Del Che clandestino in Africa. Sarà stato un’anima candida. L’uomo è la leggenda, certo, ma Congo e Bolivia sono stati programmati a Praga. I cubani sono entrati in Tanzania via Praga-Algeri-Cairo, piazzeforti sovietiche, all’improvviso e in fretta, per tagliare la strada ai cinesi. Guevara ha scritto delle sue intenzioni a Ciu-En-Lai solo per coprirsi con le fazioni congolesi. Per poter esibire in giro la rassegnata risposta del capo cinese: Ciu lo consigliava di non fare nulla, e di non abbandonare il Congo. Bersaglio per un sicario? Guevara è morto appena due anni dopo in Bolivia, denunciato dal partito Comunista boliviano, dal capo del partito in persona, Mario Monje.
L’ambasciatore non esclude il complotto:
- Guevara è arrivato con una truppa di cubani neri, mercenari. Lui solo era bianco, Dio manifesto, e il capitano Martìnez Tamayo. A sostegno di un fronte rivoluzionario che invece era da guerra civile, fra gruppi feroci. Castro aveva appena aperto un’ambasciata qui, mandandoci il comandante Rivalta, che aveva creato una rete informativa a Kigoma in appoggio all’arrivo del Che, in contatto con “Papito” Serguera a Algeri e Guitart al Cairo. Rivalta non si trattenne dal flirtare col primo golpicchio contro Nyerere, di Babu e altri compagni formati a Praga e Cuba. Finché i soldati di Nyerere non misero sotto tiro Benitez, l’assistente di Rivalta, che teneva i contatti coi golpisti. Benitez sparì, si disse rimpatriato. E il fronte antimperialista si è ricompattato, seppure a mezzadria con Pechino, Nyerere mai più si fiderà dei sovietici e dei loro agenti.
Ma è deluso:
- Non bisogna prendere i rivoluzionari in parola, sono tutti figli di puttana. I capi, certo. La rivoluzione è in Africa una professione, una attività lucrativa e comoda, con alberghi, automobili, donne e liquori. Kigoma era un villaggio di campagna, ora è il West. La sovversione è una ndustria, finanziata dai blocchi. Hanno anche i cannoni, ma non l’adde-stramento al tiro indiretto: se ne servono per la pirotecnica, li affascina il botto. Non c’è succo in queste rivoluzioni, Guevara è simpatico ma in sette mesi al Congo le ha fallite tutte: gli ascari di Ciombé erano migliori dei suoi cubani. Mobutu è più furbo: mentre il Che annaspava ha tolto di mezzo Ciombè tramite Kasavubu, e poi Kasavubu. E ha inventato l’amnistia: a uno a uno li ha attirati e li ha fatti fuori. I sovietici usano i cubani come diversivo, sanno che sono inoffensivi, incapaci anche”.

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