martedì 2 marzo 2010

La felice lingua del dialetto

Il traino del ciclista non è possibile da parte dell’ammiraglia, troppo grande, poco agile, o anche di una semplice berlina. Non in salita, quando i polmoni sono spalancati. Non in discesa, quando il corridore non ne ha bisogno, la bici essendo peraltro più agile della quattro ruote nei tratti a molte curve. E neppure in piano: “Lo scappamento sparge un tossico potente e invisibile, che scende nel petto mescolato coll’odore acre delle gomme, dell’olio e della polvere; questo tossico si combina rapidamente cogli altri che sgorgano copiosi da ogni muscolo, e produce nell’intossicato un acuto sentimento di disgusto”. È vero, anche se qui il traino è una corriera e non una decappottabile. La polvere c’è sempre, anche sulla strada meglio asfaltata. E i polmoni si sono adattati: i gas di scarico sono molto più puliti di ottant’anni fa, ma anche noi lo siamo, l‘igiene ci ha resi più sensibili - l’evoluzione della specie dopo l’igiene è nel senso della minore resistenza, il virus meno crudele ci abbatte.
È in questa memoria onesta la tenuta di Meneghello, che parla solo d’infanzia, naturalmente perduta, e di e zii, e non ha storia se non quella di un paese da secoli addormentato e immutabile. L’essenza cioè del bozzettismo. Per di più con l’uso di una lingua che si vuole esclusiva, di Malo Centro, o Malo Alto, o Malo Basso, non si capisce bene, insomma del paese natale dell’autore, seppure rispettabile – la Garzantina gli assegna ancora 11 mila abitanti.
Il saggio di Cesare Segre, “L’ora del dialetto”, che introduce l’edizione della Bur da solo vale peraltro la lettura. Anche se non considera D’Arrigo e “Horcynus Orca”, che di quell’ora è l’esito migliore. Meneghello entra a metà del ventennio del dialetto o questione della lingua, tra “La malora” di Fenoglio e “Il dio di Roserio” di Testori, 1954, e la lunga gestazione di “Horcynus Orca”, pubblicato nel 1975. Una questione anticipata e imposta negli anni della guerra da Gadda, radicato nell’espressionismo lombardo. Ma curiosamente sparita in questa Italia lombarda e leghista.
L’arcaismo è venuto dal cinema, dove aveva lampi caravaggeschi, seppure mai altrettanto coraggiosi come in pittura – il neo realismo, che prescriveva il soggetto povero, lo limitava. Ma sulla carte resta invariabilmente freddo. Anche in Gadda, a rileggerlo, e certo in Pasolini. Un esercizio di testa. Falsamente cordiale, perché falso (artificioso, opportunista, riduttivo più che moltiplicativo) e politicante – il neo realismo era una politica e non una poetica, Togliatti lo sapeva per primo, che se ne serviva ma non lo prezzava, non c’è uno dei suoi innumerevoli scritti che lo elogi. Quello di Meneghello, che al dialetto assegna “accesso immediato e quasi automatico a una sfera della realtà che per qualche motivo gli adulti volevano mettere in parentesi”, è un approccio professorale, e quasi accademico. Un filino snob: non sa chi è Mike Bongiorno, o Claudia Cardinale. Ma da linguista, che si esercita in richiami, persistenze, stratificazioni, etimologie. Anche se gli adulti in realtà non si privano del dialetto e non lo censurano, e anzi sono quelli che lo dettano.
Il dialetto e l’infanzia si legano in Meneghello come nota Segre: “L’impressione infantile lega parola e cosa”. È così che restano entrambi spigliati e sempre vivi – “il dialetto è dunque per certi versi realtà e per altri versi follia”, dice poi Menghello. E si tengono fuori dal cul-de-sac di mezzo secolo di linguaggio dei linguaggi, esercitazioni solo apparentemente libere, in realtà didattiche. Ciò che ne risulta non è la “questione dialettale” ma l’illimitata felicità narrativa, la svagata profondità del viaggiatore Sterne. E di quando in Italia c’era la felicità del narrare – fino al “Pentamerone”? Con l’uso, certo, del dialetto, di una lingua che non respinge il parlato.
Luigi Meneghello, Libera nos a malo

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