È il diario degli anni dell’occupazione di Parigi: Jünger vi è capitano di fanteria, addetto alla censura, ma la censura è assente, e la guerra pure. Il “Diario” comincia diciotto mesi dopo la vergogna della sconfitta fulminea ma i francesi sembrano aver dimenticato, buquinisti, antiquari, scrittori, donne di mondo. Della stessa dimenticanza si crogiola Jünger, che però filosofa: su falsità?
Un libro Jünger scrive proustiano d’eccellenza, accattivante e rivoltante. Non perché non sia un democratico, o uno del tempo, lo è, ha netto il senso della libertà perduta. Egli si sente “francese” come i suoi interlocutori abituali, Gallimard, Cocteau, Jouhandeau, Guitry, migliore di Merline (?), de Brinon, dello stesso Céline. Ma fa anche, proustianamente, un libro dell’Io, dallo snobismo esasperato. La serata è modello da Lady Orpington: aneddoti lievi, questioni di grammatica e di retorica, champagne del 1911, mentre la città trema sotto i bombardamenti, e dopo che Speidel ha spiegato gli “ordini criminosi” di Hitler (la “Soluzione Finale”), parlando profondamente della morte. Anche Picasso, comunista, pittore di “Guernica”, è libero e rispettato.
Come si vive dentro una guerra, sia pure allo Stato Maggiore? Le conversazioni di Jünger ripetono quelle di Malaparte, che Malaparte aveva pubblicato qualche anno prima in “Kaputt”, di persone che tutto sanno ma evitano di dirlo. Jünger evita di proposito, della Francia e del fronte orientale, i luoghi – noti – dove si macellano le persone. Legge la Bibbia in parallelo con lo sterminio degli ebrei – in comunione spirituale con le vittime. S’immerge in “cacce minime” d’insetti, e colleziona libri. Tra figure di donne molteplici e incerte.
Ernst Jünger, Diario
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