Quattro milioni di piccole imprese e otto milioni di partite Iva sono “un patrimonio vitale” ma non rappresentano niente. Non da ora, dalla Costituente. Dove a Fanfani riuscì di fondare la Repubblica sul lavoro (sua la formulazione dell’art.1, “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”). Ma sul lavoro artigiano, per il quale chiedeva una menzione speciale, ricevette solo compatimenti: il lavoro era la Fiat, la Montecatini, e il sindacato.
Dario Di Vico, che dedica ai pro.pro il suo blog sul “Corriere della sera” (li diremo professionisti proletari?), e li ha seguiti per un anno ovunque al Nord, a Varese, Como, Cuneo, Torino, Mantova, Milano, Treviso, sul Piave, e anche a Roma, lo dice alla prima riga di questo resoconto dei loro sfoghi: i Piccoli sono anche Invisibili. Se ne parla. C’è ora un sociologia consolidata della microimpresa, De Rita, De Masi, Becattini, Diamanti. La politica li corteggia: gli spezzoni della Dc, la Lega, Berlusconi (con una o due eccezioni, nei distretti industriali, comprese le cittadelle rosse, Sassuolo, Carpi, Lumezzane, si vota centro-destra). Sono un mondo anche affascinante da raccontare, da Meneghello a Edoardo Nesi. E sono alla moda: “L’uomo artigiano” è l’ultimo grido nell’area anglo-americana, a opera di Richard Sennett, già teorico de “L’uomo flessibile”. Ma non hanno status, a sessanta e passa anni dalla Costituente. Il solo capitolo leggibile di “Gomorra”, quello dell’asta al ribasso per le forniture ai grandi couturier, li fa perfino camorristi: nel libro più letto dagli italiani il lavoro à façon, rapido e inappuntabile, che è il vanto della tradizione sartoriale napoletana, è presentato come un’organizzazione di camorra. E potrebbero non avere futuro.
Sono una società aperta ma in un mercato ancora post-sovietico, ingessato nei privilegi. Di cui le Autorità di garanzia del mercato sono il suggello, che garantiscono solo tariffe crescenti alle utilities, con servizi per lo più scadenti. Mentre è diventata monopolista la banca. L’Italia ha la più alta concentrazione del credito in Europa: poco meno del 60 per cento degli attivi fa capo a cinque gruppi. È finito o minoritario il ruolo delle casse di risparmio, delle banche popolari e del credito cooperativo, interfaccia classici della microimpresa. La Cariplo di Giordano Dell’Amore vantava la creazione di 350 mila aziende, in trent’anni nel dopoguerra. La medio-grande impresa resta privilegiata. Si dice che è tempo di “rompere il dualismo del mercato del lavoro” (Pietro Ichino), ma senza convinzione. Il dualismo è già rotto, il mercato del lavoro è individuale e privatistico, ma i privilegi restano ai garantiti.
I Piccoli non hanno leggi, se non vessatorie, non hanno pensione né cassa mutua. E nella crisi sono i primi “tagliati”. Stretti fra incassi sempre più ritardati e l’obbligo di ridurre ogni anno il costo unitario del prodotto fornito. Migliorandone la tecnologia, cioè con investimenti continui. Il ritardo medio degli incassi è di sei-otto mesi, a Napoli anche di due anni e mezzo. Detto così, sembra un miracolo che sopravvivano. Ma è così, ed è anzi questa “pancia” operosamente ruminante che tiene a galla l’Italia.
Il mercato è d’altra parte globale anche per i Piccoli. I distretti industriali sono superati: le economie sui servizi non bastano più. E la globalizzazione è nella fase più dura: Asia e America Latina hanno standard produttivi di qualità, e costi ancora dimezzati. Mentre la crisi finanziaria colpisce di più l’Euro-America. I Bric d’altra parte, Brasile, Russia, India, Cina, sono già un grande mercato. E fra dieci anni, quando anche il costo della vita in Asia e America Latina si sarà livellato verso l’alto, si potrà competere senza intaccare il capitale. Ma bisogna sopravvivere.
Il rischio è qui la confusione. La percezione del mercato globale non manca. Ma se è quella che Di Vico registra è il solito teatro di grande combattività e di velleità. È come se i Piccoli non sapessero uscire dal complesso della Maggioranza Silenziosa, della rivalsa. Da una realtà bozzettistica quando è simpatetica. Ma grigia o nera sul versante del fisco, col quale non riescono a venire a patti, dei salari minimi, dei contributi sociali. Si discute molto di rappresentanza, com’è giusto, ma nel senso di “chi va a Roma”.
Dario Di Vico, Piccoli. La pancia del Paese, Marsilio, pp. 175, € 15
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