Un raptus linguistico, con utilizzazione libera di gerghi anche privati ma significanti, che ha molto di “Morte a credito”. È uno dei pochi prodotti del neo realismo applicato alla letteratura che ancora reggono, con Meneghello e poco altro. Benché confinato dall’editore ai franchi narratori, autori casuali di un’opera. E tagliato nella sua prevedibile fluvialità, che è ingrediente base di questa forma. Per ragioni editoriali, di costo, maneggevolezza e lettura. Ma forse c’è il dispetto del Sud: l’autore è un prete di paese, colto (professore al seminario) ma di Oppido Mamertina.
Il romanzo è uscito in un momento in cui il Pci liquidava il meridionalismo. Ma la diffidenza è più profonda: “Asprea” ha girato per quindici anni a vuoto col suo manoscritto. Cordero parla, nell’agnostica presentazione, di opera “mediterranea”, per non dire “meridionale”. Ma la stanchezza si vede uguale, l’insofferenza, l’irritazione: è una pubblicazione che è quasi una purga. E fastidio ne viene al lettore. Perché l’editore (Feltrinelli) automaticamente associa a un’editoria populista. E perché l’opra di un prete di provincia meridionale non può valere per la felicità (gaudio) espressiva, come è il caso del “Previtocciolo”, ma per le tematiche trite dei vinti. Nemmeno la “mediterraneità” peraltro viene sfruttata: Savinio le aveva trovato tanti attraenti connotati, nella “Vita di Vincenzo Gemito”.
Luca Asprea, Il previtocciolo
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