Non c’è guerra umanitaria. Non c’è un diritto d’intervento. “La guerra preventiva non è giustificabile, la forza preventiva sì”. Sotto forma di embarghi, divieti, controlli. E ancora: “Il ricorso alla forza «fuori guerra» è ammissibile a due condizioni”: la cooperazione di numerose nazioni, cosa purtroppo impossibile per le renitenze europee, e un intervento circoscritto.
Si ripubblica con la prefazione post-Iraq questo testo ormai classico sulla guerra giusta del 1977. Ma eliminando quella ben più preziosa della riedizione 1991, sulla guerra del Golfo, successiva alla prima traduzione italiana, uscita nel 1990 presso Liguori. Nel saggio in tempo reale sulla guerra del Golfo, il filosofo di Princeton arguiva, contro il pacifismo, soprattutto delle chiese, che anche una guerra moderna può essere giusta. A condizione che abbia una base giuridica, che sia di “ultimo ricorso”, e che sia proporzionata all’offesa. Benché più massiccia, può essere meno distruttiva che un assedio di mille o duemila anni fa, che mirava a sterminare la popolazione. Non c’è invece un diritto di liberazione degli Stati. Non c’è un “diritto d’intervento” come è stato richiesto da Clinton (guerra alla Serbia) e anche da papa Giovanni Paolo II, in difesa dei diritti umani. Un regime di libertà ha bisogno di uomini e donne che lo apprezzino tanto da rischiare la vita per crearlo e difenderlo, ora come ai tempi di John Stuart Mill: “La forza «fuori guerra» non permette la democratizzazione forzata”.
Walzer ammette la guerra (la guerra giusta) in più casi. Ma per un caso come quello iracheno, e domani chissà iraniano, auspica “una politica non coercitiva che riposi sul lavoro di organizzazioni non governative come Human Rights Watch o Amnesty International”. Come dire che la filosofia è di poco aiuto contro la guerra.
Michael Walzer, Guerre giuste e ingiuste, Laterza, pp. XX-427, € 24
giovedì 25 marzo 2010
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