Cinque devastanti soliloqui. Interessanti per il biografo, deprimenti per il lettore. Per un autobiografismo tanto disperato quanto, purtroppo, estraniante. Appena ingentiliti dalla breve presentazione che dà il titolo alla raccolta, del molto più tardo 1997, nella quale la scrittrice ritrova la sua cifra, uscendo con i Calasso e Adelphi dalla disperante solitudine.
L’autobiografia si spalma su un quadro terribile dell’esistenza, dell’Italia. Che non si saprebbe contraddire, tanto è attuale benché già remoto. L’alimento della cultura “resta la ragione, è nella ragione; sta nel suo rapporto con la Legge. Distrutta la Legge, o processata la ragione, la cultura tace per sempre”. Questo Anna Maria Ortese annota nel 1997, mettendo assieme i cinque scritti. Ma i prodromi ne ha rilevato ben prima. È tra il 1980 e il 1989 che, sola, disgraziata come sempre si considera, scrive i testi qui raccolti, alcuni in forma d’intervista immaginaria, altri come intervento a un convegno di un Istituto di Cultura italiano in Scandinavia che poi non ci fu.
Una mezza pagina del primo scritto, del 1980, sembra perfino di oggi: “Di colpo, come da una falla, la vita senza aggettivi, la vita come pura esaltazione di momenti fisici e dittatura della fisicità assoluta, è entrata nella vita delle università, di ogni tipo di scuole, ha allagato la stampa. Il momento – della fisicità – è tutto. La parola viene rimandata al grido. Chiunque dica o scriva riferendosi a qualcosa che era prima – una legge per esempio, una inclinazione alla pietà – non è udito. La sua voce di perde nel fragore generale. La grammatica non c’è più. La sintassi è casuale. Il vocabolario è stato invaso e distrutto. Da tutte le finestre e le porte del millenario edificio si affacciano i volti distorti e ottusi della beffa, del turpiloquio. La degradazione è la dea del momento”.
Sembra di oggi anche il capitoletto “Come diventammo America”, circa il 1960: “Ricordo come un giorno, a seguito di una banale operazione commerciale fra una casa editrice di qui e una straniera, sparirono da un notissimo settimanale tutti i nomi di autori italiani, e tutti gli argomenti di vita e ambiente italiano. In blocco, un intero paese di ombre venne ad abitare su queste sponde…”. Ortese allude alla Rizzoli, dove il cambio di gestione nel 1975 l’aveva messa fuori commercio (“Il porto di Toledo”, appena pubblicato dalla Rizzoli vecchia gestione, rimase in magazzino e dopo tre anni andò ai Remainders), ma ogni lettore ci può mettere qualsiasi casa editrice o giornale..
E tuttavia la dolente storia personale è scostante. Fatta salva la comune componente personale, i lutti, le malattie, i pochi mezzi, quanto diversa da quella di Cristina Campo, che pure ha lo stesso approccio tragico all’attualità e alla povera vita – la vita di ognuno è sempre povera, anche non in solitudine. Identico l’orrore del materialismo – l’economico, la fisicità, la reificazione -, identica la radicalità, la sofferenza, ma diverse le pezze giustificative, ben diversamente comunicativa questa, se non attraente. Senza speranza quella, al contrario della Campo, e senza volontà, un masochismo morale che sempre è repulsivo. O dalla storia personale di Alda Merini, che i lutti, la disgrazia, il disagio della vita tradusse in efficacissima inquietudine.
Le tre scrittrici, tutt’e tre silfidi giovanissime quando “emersero”, si possono anche tranquillamente immaginare vittime del maschilismo allora d’obbligo, che le considerava poco più che belle guaglione, da portare a letto. Ma Alda Merini, che con Ortese condivise anche l’angelo benevolente della scoperta, Angioletti, nomen omen, lo nomina spesso riconoscente e lo e loda, Ortese no. E forse non è solo per il politicamente corretto, Angioletti non essendo del Partito. Ortese si compiace di “non esistere” nel mondo delle lettere, lei che è stata “portata” da Bontempelli, dopo Angioletti, premiata col Viareggio nel 1955 e lo Strega nel 1967, onorata e aiutata da Luigi Einaudi, Adriano Olivetti, Raffaele Mattioli, assegnataria con la dovuta discrezione della legge Bacchelli, insignita di una ricca bibliografia critica. Si compiace di dirsi semianalfabeta, per aver frequentato solo la sesta, quando le elementari finivano in sesta (“Si pensi che allora io non conoscevo l’apostrofo”, quando pubblicò i primi racconti). Sempre in angustia per la povertà in agguato. “Dal 1975 vivo molto sola” - sempre per la storia del “Porto di Toledo”? “Guardando nella nostra letteratura”, dice anche nel primo saggio, quello che avrebbe preparato per l’Istituto italiano di cultura di Oslo o Stoccolma, “vedevo un deserto d’anima”. Forse è questo solipsismo che respinge, cupo, non di un destino tragico, ma di una mediocre vita letteraria, che si fa tra mugugni e insofferenze.
Anna Maria Ortese, Corpo celeste
venerdì 16 aprile 2010
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