Ragionando di questa e altre riletture di storie familiari fasciste, Goffredo Fofi si dice sul “Sole 24 Ore” di Pasqua che “è questo, in definitiva, il labirinto in cui il paese si aggira, la sua non-chiarezza di oggi e di sempre sul proprio passato e sulle proprie colpe o vergogne”. Lorenzo Pavolini, mite funzionario editoriale e sceneggiatore, ritorna alla figura del nonno Alessandro, famigerata “ultima raffica” della repubblica di Salò, che sancì "la pietà l'è morta!". Non al personaggio, che fu peraltro, oltre che ragazzo e gerarca dal mitra facile, l’ultimo grande fiorentino: figlio del direttore del Vieusseux, al quale fu chiamato poi Montale, letterato di ottima sensibilità, autore di non brutti racconti, ripubblicati da Montanelli nel 1994, editore e direttore del “Bargello”, la rivista attorno alla quale riunì una buona metà della migliore letteratura del Novecento, promotore dei Littoriali della cultura, che fecero fiorire l’altra metà del Novecento, promotore del Maggio musicale, patrono di Nervi per il Comunale e di Michelucci per la Stazione. Lorenzo vuole rappresentare il disagio di convivere con tale personaggio, che quando fu fucilato e appeso nella civile Milano era più giovane dei suoi attuali quarantacinque anni. Il suo proprio padre, quando Alessandro fu giustiziato, aveva sette anni, e questo è tutto dire.
In casa non se ne parla. Lorenzo scopre tale nonno alle medie, a metà degli anni 1970, a trent’anni dalla sua fine. E da allora scopre anche i tormenti del padre. Ma, dice a “Repubblica-Firenze”, nel cupo sovietismo cioè dell’ex capitale del Rinascimento: “Per fortuna c’era già stato Luca Pavolini, nipote di Alessandro, direttore di «Rinascita»”. Cioè un’altra parte della famiglia in carriera col Pci. E questo finisce per essere il suo libro, per mettere in chiaro l’allusione di Fofi: una sorta di parte in causa, o testimonianza vivente delle “non-chiarezza”. Abbiamo i Pavolini, fiorentini, toscani, italiani, che sanno solo essere comunisti, dopo essere stati fascisti. O viceversa. Per cui abbiamo, in Italia, a vent’anni dalla caduta del comunismo, chi processa il fascismo che è morto da settant’anni, senza un cenno di autocritica e anzi con la solita buona-malafede ancora cominformista.
Le cose, volendolo, potrebbero essere chiare. Di Luca, prozio o biscugino di Lorenzo, altra persona peraltro mitissima, figlio del drammaturgo a suo tempo famoso Corrado, e di madre ebrea, che fu direttore de "L'Unità" dopo "Rinascita", il suo amico d'infanzia e compagno di scuola don Milani non aveva buona opinione. Perché "si era fatto" comunista. Quando Luca, vicedirettore di "Rinascita", sostenne nel 1965 il priore nell'insidioso procedimento penale sull'obiezione di coscienza, don Milani rifiutò di fare causa comune col settimanale del Pci e con il Pci. E ai suoi ex alunni all'estero lo spiegò in una lettera: "Vi accludo una copia di "Rinascita" con l'articolo di Luca Pavolini. Per me è molto esatto ed onesto. Non l'uomo naturalmente, ma l'articolo. Quando dice di pentirsi dell'indegno articolo che scrisse nel '58 e si rotola in terra per dirmi che io sì che ero un vero comunista lui invece un settario non so perché non fa punta commozione (come naturalmente fanno i pentiti). Il motivo è che sappiamo benissimo che nel '58 lui era perfettamente cosciente di stare ingannando i poveri lettori dell'Unità, sapeva benissimo che Saverio Tutino (amico di liceo di don Milani, ndr) aveva scritto un serio articolo sul mio libro in cui diceva che anche loro comunisti devono pentirsi delle case del Popolo prima di criticare i ricreatori parrocchiali. Sapeva benissimo che Togliatti aveva chiamato Saverio e gli aveva detto che l'interesse del partito era di non dire quella verità e aveva preferito lo sporco articolo di Luca. Il suo pentimento di oggi pare dunque non so perché un pentimento ordinato dal partito". Volendo, si capisce. Altrimenti è sempre il passato che non passa.
Lorenzo Pavolini, Accanto alla tigre, Fandango, pp.244, € 16,50
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