Giuseppe Leuzzi
La Sicilia produce ottime arance. Che non vende. Israele ci fa mangiare il pompelmo, a caro prezzo, che è incommestibile e dannoso.
La povertà dell'abbondanza
Si esce dall’autostrada a Rosarno o Gioia Tauro per entrare nell’opulenza: agrumeti rigogliosi, oliveti giganti per diecine e centinaia di chilometri, orti, serre, il porto più grande del Mediterraneo. Nella polvere, i detriti, i rifiuti. Nella sporcizia, il disordine e un senso soverchiante d’indigenza. Non è povertà, la povertà è decorosa. I soldi ci sono, nelle automobili, i grandi magazzini, il motorino con telefonino per i pupi. Non è violenza: la rivolta contro gli immigrati è – indigente anch’esso – un botta e risposta politico. È una forma di trascuratezza figlia dell’abbondanza.
Il problema del Sud è lo spreco. È l’abbondanza delle risorse, non la mancanza. Specie nel Sud tirrenico, da Salerno a Reggio Calabria, che è un susseguirsi di ricchezze senza fondo, di campagna, mare, montagna. Sull’ambiente ereditato dai vituperati Borboni e baroni, pieno di chiese, palazzi, piazze. Con una natura ferace, di grano, vino, agrumi, olio, ortaggi, in Terra di lavoro, nel Cilento, le pianure di Castrovillari, Lamezia, Gioia Tauro. Il problema dello sviluppo è qui: come l’abbondanza non si è trasformata in ricchezza.
Milano
Di Manzoni la grandezza è spagnola, dice Anna Maria Ortese in un’intervista nel 1974, quando ancora non aveva accumulato il risentimento contro la capitale lombarda (intervista ora in “Corpo celeste”, p. 99): “Getta contro la storia e la sua grandezza la fine polvere della percezione tempo: nulla è vero, tutto passa, tutto cade, tutto muta. Una verità già raggiunta , con altra violenza o nudità, dal pensiero spagnolo (penso al De Quevedo dei Sonetti: “Ehi, della vita nessuno risponde?”).
Milano, come si sa, non è leghista, Bossi è figlio dello Spirito Santo – un caso eccezionale, un parto senza madre. Anche se ne ha avuto a sindaco un’escrescenza, non se ne ricorda.
A volte. Altre volte, è il caso dopo i due successi alle elezioni, se ne dice invece figlia. Elevando Bossi a erede di Francesco Giuseppe e Maria Teresa.
Il supplemento illustrato del “Corriere della sera” scopre infine dopo Pasqua che a Milano c’è un uso smodato di cocaina. Dopo qualche anno che il fatto è statistico negli annali internazionali.
Ne parla senza scandalo, quasi fosse un altro primato morale di Milano. Va a Milano metà della droga (cocaina, hashish, eroina) smerciata in Italia.
Per quattro secoli i lombardi sono stati scalpellini e usurai. Prestavano denaro da Cahors a Brno. Ancora nel Seicento erano attivi, seppure ghettizzati, come gli ebrei, nelle capitali del denaro, a Londra e Amsterdam.
Ci sono molti lombardi ancora in Sicilia, e in Calabria, e nei toponimi. Ci sono stati molti lombardi a Sud all’inizio dell’arte romanica, come maestranze, ma anche dopo.
Casanova ragazzo fu educato dal vescovo di Martirano in Calabria. Martirano Lombardo.
Ne ha combinate molte John Henry Woodcok, Procuratore della Repubblica a Potenza, impaziente con la sua Norton d’epoca di tornare a casa a Napoli. Ma quando ha intercettato il malaffare del grattacielo della Regione a Milano, zàcchete, i giudici milanesi gli invalidano tutte le intercettazioni. Non un giudice solo, si sono messi in due. Poi dice che non c’è giustizia.
La giustizia è anzi doppia. Le intercettazioni a Woodcock i giudici milanesi gliele hanno invalidate subito. Ora lo fanno sapere per dimostrare che non c’è bisogno di nessun decreto contro le intercettazioni abusive. Quando sono abusive (su Milano) i giudici (di Milano) tempestivamente lo dichiarano.
La giustizia a Milano la fanno soltanto i giudici di Milano. Magari napoletani come il centauro Woodcock, ma di Milano.
Napoli
La mazzetta era a Napoli l’onorario dell’avvocato.
L’efficienza del mercato napoletano
Domenica Rea in “Breve storia del contrabbando” (un elzeviro incluso nella raccolta “Gesù, fate luce”) documenta come i napoletani ricchi e poveri, abili e disabili, fortunati e sfortunati, riuscirono a creare un mercato nell’Italia divisa dalla guerra, nel 1943 e nel 1944, anche attraverso la linea gotica: “Su Napoli pioveva denaro”. Un mercato che poi svanì nella normalità: “Con la pace venne la Sconfitta”.
È senza dubbio efficientissimo il mercato dell’illegalità. Il romanzo di Astolfo “Vorrei andarmene, ma non so dove”, di imminente pubblicazione, ne dà uno spaccato alla p.39:
“All’entrata il crimine economico va nel senso comune; è l’impresa dei nullatenenti, nel senso che la posta che si scommette è un po’ di carcere. Ma è all’uscita che si caratterizza, per il raddoppio continuo della posta che non può non finire in catastrofe. Che non è l’atto gratuito famoso degli animi sensibili di fine Ottocento, è l’accumulo gratuito: una filosofia e non un gesto di libertà. Con la dissipazione di altre energie: la copia immediata della moda, la mimetizzazione, la capacità sempre rinnovata di essere un passo avanti al fisco, all’Inps, ai carabinieri. Lo studio di Napoli più della Sicilia porta a questo. In Sicilia è urgente il bisogno di apparire, cui pure il mafioso soggiace: di dimostrare che si è – Vittorini se lo fa dire da Calvino: “Ha l’istinto delle scelte vitali, dei tanti siciliani diventati milanesi con entusiasmo”. Mentre Napoli va nel senso opposto, di cancellarsi. Il camorrista in sé non è niente, è spagnolo e significa litigioso. È diverso volerlo essere, non per carattere ma per scelta, industriarsi di esserlo.
“Incomparabile è l’organizzazione del mercato parallelo, di beni copiati o rubati, altrettanto dettagliato, se non di più, del mercato legale. Con filosofie manageriali flessibili: integrazione verticale, orizzontale, a stel-la, per contiguità, monopolismo. E una rete d’incroci, marciapiedi, ponti, spiagge, uffici, stazioni, sottopassaggi, per un esercito di ambulanti clandestini, senza identità o senza licenza, che sono tanto più difficili da occultare in quanto il magazzino si portano dietro in sacchi e borsoni. Un mercato senza deposito e senza rese è il sogno di ogni mercante, ma tutto è più arduo e gravoso nel mercato illegale. È una fatica cui si sottostà non tanto per il guadagno, che è sempre poco, benché esentasse, quanto per il bisogno di creare e distruggere in umbra, anche la propria vita.
“Il fatto è assodato, e bisogna rifletterci. È la riprova o una smentita della dottrina liberista della società, che la democrazia e la ricchezza vede incrementarsi nello scambio? Ci sono dei residui: se il capitalista è il rivoluzionario, il rivoluzionario sarebbe un mafioso, e ciò non è possibile, crollano un paio di secoli e molta storia. Per quanto, la scomparsa di Napoli è anch’essa una forma di clandestinità, compatta, costante, decisa, e quindi di resistenza. La stessa organizzazione del crimine, la riservatezza, la struttura cellulare, i linguaggi criptici, le parole d’ordine, ricalca l’impianto della guerra partigiana. Analoga e fino alla morte è la reciproca lealtà tra gli affiliati. Analogo è il bisogno ricorrente di eventi eroicizzanti, la sfida, l’imboscata, l’amore delle guaglione, il silenzio sotto tortura. Un semiologo avrebbe problemi a non finire in una cosca piuttosto che in un fronte di liberazione. La differenza sta nella legge, ma è tenue: qualsiasi giudice lo sa, ministro della legge. È un capitalismo che, anch’esso, si nega. E anzi si ammanta del bisogno. Di disoccupazione e soprusi. Un capitalismo anticapitalista, che capitalizza cioè pure sulle ragioni dell’anticapitalismo. Da qui il nimbo di resistenza che corona la latitanza”.
leuzzi@antiit.eu
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