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Alvaro – I libri di viaggio, in Turchia, in Russia, nelle Paludi Pontine, ancora leggibili, le corrispondenze da Parigi e Berlino, dove vede, annota, segnala tutto ciò che popolerà quegli anni, da Proust a Grosz, Piscator e Benjamin, fanno di Alvaro uno degli scrittori più colti del suo tempo, in grado di sapere cosa stava succedendo nel mondo. Remo Ceserani lo ritiene “molto più colto e informato di gran parte degli scrittori italiani dei suoi anni e consapevole degli esperimenti e problemi affrontati dalla contemporanea letteratura europea, compresa quella russa”. Ma si vuole nei racconti, in troppi racconti, diverso: un meridionale. Benché incongruo (insignificante), l’aggettivo è in lui ricorrente – nel racconto “Mezzogiorno” lo collega addirittura alla fame, giocando sul doppio significato del termine. Alvaro più di tutti, più forse di Verga, ha fissato (cristallizzato) il meridionale. Che qualche volta vive la natura, ma quasi sempre è triste, sfuggente, inaffidabile, collerico, violento. Gianfranco Contini ha potuto così delineare un tema caratteristico, se non centrale, di Alvaro: “Che cos’è un uomo, un meridionale, di fronte alla donna”. Una donna che invece è instancabilmente nordica.
In “Nasce un villaggio”, uno degli abbozzi raccolti da Ceserani in “La signora dell’isola”, c’è tra i tanti meridionali di Alvaro anche un settentrionale: “Un tipo di settentrionale piccolo e gramo”. L’odio-di-sé-meridionale, che nella stessa raccolta ritorna nel racconto “Mezzogiorno”, l’unico concluso, è insomma temperato insomma da un residuo di orgoglio. Perché è, al fondo, un disadattamento: con se stessi e con il resto – il Nord: che nasce dalla delusione, dall’identificazione impossibile con il Nord, in quel quadro unitario che il Nord ha imposto senza crederci.
Best-seller - Capita spesso d’imbattersi in best-seller, ma senza mai una rivelazione. Si è diffusa da alcuni anni la pratica di offrire il primo capitolo di molti best-seller in lettura gratuita. Sulla rete, o spillati con i settimanali. La curiosità c’è sempre di vedere cose dicono. Anche perché la primizia è sempre presentata da due o tre persone autorevoli, della televisione, dei giornali, in termini estremamente invitanti. Si sa anche che il primo capitolo è fatto apposta per invitare alla lettura. Ma di nessuno ancora è successo. Non sarà best-seller un bestseller? Cioè, bestseller si nasce: c’è un’eugenetica del libro.
Dialetto – In uno scritto del 1945 sul “Ponte” Giani Stuparich rievoca le ore passate al caffè Garibaldi, poi al caffè Nazionale, a Trieste, con gli amici artisti, e Umberto Saba, “Bobi” Bazlen, Giorgio Fano e altri letterati meno noti. Il dominus della compagnia era Vigilio Giotti, scrive Stuparich, il poeta dialettale, che conosceva la città e i suoi aneddoti e sapeva raccontarli: “Era come se disegnasse e dipingesse, e tutti l’ascoltavano e «vedevano». Gustosissimo narratore questo poeta”. Ma, “più strano”, scrive ancora Stuparich, è che “mentre nei suoi versi adopera il dialetto, parlando s’esprime in lingua: il poeta «dialettale» (tanto poco dialettale nel senso comune della parola) era il solo che in messo a noi parlasse in lingua, una sobria lingua toscana, rimastagli dal suo lungo soggiorno tra Firenze e Pisa”. Tanto più strano in quanto di nome tedesco, all’anagrafe Giotti faceva Schönbeck: “La madre di Giotti era d’origine veneta e il padre, un curioso tipo di mistico svedenborghiano, figlio d’un ufficiale austriaco e d’una mantovana, era venuto a Trieste dalla Boemia”. Prima della prima guerra, Giotti aveva completato la sua educazione italiana in Toscana.
Stuparich ipostatizza in breve la “questione del dialetto”. Che non può essere il bilinguismo forzoso che la Lega introduce dove amministra, specialmente ridicolo in Veneto, dove la toponomastica italiana viene doppiata da una pronuncia dialettale. Il dialetto è la lingua identitaria di una città, Trieste. Mentre l’identità di Giotti era italiana, e non poteva che esserlo.
Giallo – In”Raffles e Miss Blandish” Orwell, sopraffatto dall’abilità di James Hadley Chase, ne fa un caso di letteratura di borgata: “L’emancipazione è completata, Freud e Machiavelli hanno raggiunto le periferie”. Quel libro “è puro fascismo” si è fatto dire da un amico di “Niente orchidee per Miss Blandish”. Una storiaccia in cui ha contato otto assassinii, un numero incalcolabile di assassinii e e ferimenti casuali, la flagellazione ripetuta di Miss Blandish per eccitare il suo violentatore, una tortura con sigarette incandescenti, un’esumazione, un orgasmo da accoltellamento, l’identificazione della vittima col suo violentatore.
Roba di repertorio sadomasochista e una storia implausibile prima che orrenda. Che Hadley Chase riesce a farci leggere, e questo non sarebbe da sottovalutare. Ma che c’entrano le borgate? Il giallo non è letteratura popolare. Hadley Chase si sarebbe sorpreso di fare letteratura popolare, un inglese che sa così bene far parlare gli slang americani.
Manzoni - Il suo catalogo è impressionante: mafia, stupro, aborto, anche in convento, gli sciacalli nella peste, la corruzione della giustizia e della religione, morte, puzza, idiozia. Non c’è altro romanzo, gotico, nero, che accumuli così tanta turpitudine. Tanto più per un’anima pia, che si assolve nella Provvidenza, e proprio perché si assolve. Pretendendo che Dio lo ascolti e lo aiuti.
In un luogo non evocativo, come sono Otranto o Saragozza, ma reale, storico, normale, Milano e dintorni.
Proust – Gli album Proust sono atroci. È goffo lui in ogni situazione, che si faceva beffe di tutti. Sono impresentabili le donne, le grandi dame come le ragazze, ordinarie e più spesso brutte – di un brutto non bello. Solo gli uomini sono bellissimi, ma allora di un genere non proustiano, molto romantici, e con lo sguardo assente e vuoto. L’opera è un miracolo a parte. Ma nel caso di Proust non si fare a meno del vissuto, ogni lettura ne è bacata, tanto è forte il “marcellismo”, come dice Barthes.
Scrivere – Oggi si scrive troppo, si dice: scrivono tutti. Si scrive molto perché si legge molto. Insoddisfatti. Robetta, che il lettore pensa di poter scrivere meglio. È vero che il lettore è un po’ partecipe dell’opera. Ma quando c’erano gli scrittori, il lettore non si avventurava nella scrittura, si accontentava d’interpretare (leggere) ciò che leggeva.
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