lunedì 17 maggio 2010

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (58)

Giuseppe Leuzzi 
Dai tempi dei romani nessun Sud ha occupato il Nord. Non in Europa né in Asia o in America - eccetto l’islam, e questo è un problema.

A un anno data si vede chiaro: Berlusconi è stato ferito a morte da due ragazze del Sud. Non dalla moglie, pure molto “donna lombarda”, e piena di avvocati e consigliori. Che sente la colpa di non aver saputo seguire il marito a Roma, incapace di spiaccicare parola nelle visite di Stato e coi politici, figurarsi fare gli onori di casa nei vertici. Berlusconi non potrà essere presidente della Repubblica, e ha difficoltà a fare il presidente del consiglio. Impedito, l’uomo più potente d’Italia e forse d’Europa, da due signorine del Sud, una di Napoli e una di Bari, nemmeno di grande virtù. Però: la donna settentrionale è libera, quella meridionale è asservita.

“L’Alta Velocità fino al Ponte sullo Stretto”. Non è vero, non c’è un progetto e nemmeno un disegno, ma il ministro può dirlo, il “Corriere della sera” non gliene chiede ragione, e in Calabria e Sicilia l’annuncio viene celebrato.

Una precisazione preoccupata e urgente apre la rubrica delle lettere del “Times Literary Supplement” del 30 aprile. Viene da un professore di Cambridge, John Casey, del Caius College: “Signori, nella recensione di Amartya Sen, “The Idea of Justice” (23 aprile), John Tasioulas dice che una nota nel libro rivela che il famoso aneddoto di Piero Sraffa che si spazzola il mento con le punta delle dita, in “un familiare gesto napoletano di scetticismo”, e che chiede a Wittgenstein: «Qual è la forma logica di questo?» può essere apocrifo. Circa quarant’anni fa, quando ero Junior Fellow, i Fellows del Trinity College vennero al Caius a pranzo e cena, come fanno ogni anno in occasione della vacanza del loro personale. Sraffa era tra essi. A cena feci in modo di sedermi accanto a lui con l’intenzione di chiedergli dell’aneddoto. Lui confermò che era vero. Credo di avergli anche domandato come un napoletano farebbe il gesto, sembra giusto impararlo, e lui lo fece. Ma disgraziatamente non riesco a ricordarmi come si fa”. Grattarsi il mento. Abbiamo perso pure il primato della gesticolazione.

Sudismi/sadismi - Eugenetica e sviluppo
Totò Settis s’è risentito, da calabrese, di un paio d’insolenze sul Sud. Una recente, una di cinquant’anni fa. E ne fa su “Repubblica” giovedì una brillantissima stroncatura. Di cui però, cessato il divertimento, ciò che resta è la sua tardiva scoperta: non lo sapeva?
La grande notizia sarà che “Repubblica” ha scoperto, sia pure per l’uzzolo di Settis, la squalifica artefatta del Sud. È difficile parlare del Sud perché quasi tutti i critici hanno ragione. Ma la “questione meridionale” è oggi essenzialmente la sua critica: il Sud non ha più critici benevolenti, e spesso li ha anche sprovveduti, non attira più da tempo le migliori intelligenze. Il professor Richard Lynn, dell’università dell’Ulster, specialista d’intelligenza, è l’uno e l’altro, sprovveduto e malevolente. Ma è anche peggio: il bersaglio della satira di Settis è infatti anche veritiero. Il suo saggio di un anno fa su “Intelligence”, sui quozienti d’intelligenza come motori dello sviluppo, cioè dell’intelligenza stessa, una tautologia che già definisce l’autore, è certamente razzista, anzi dichiaratamente, ma è pure vero.
Intanto Lynn è “uno dei nostri”, dei belli-e-buoni della Repubblica: la sua è la nostra cultura, l’eugenetica. E poi è vero che l’intelligenza conta. Settis, che da lungo tempo non dimora al Sud, può non saperlo, ma tutti al Sud lo sanno e se lo dicono, che il problema è “la testa”. La rassegnazione politica, l’inerzia burocratica, il guadagno immediato - quando non la corruzione, un esercizio in cui il Sud non è secondo. O l’incostanza, l’ignavia, l’abusivismo, sotto le specie insidiose del bisogno, che hanno soppiantato le vecchie doti, l’applicazione, la fatica, il rispetto. Malaticcio immaginario, a semplice beneficio di medici e farmacisti, spiega con dovizia la stessa “Repubblica” lo stesso giorno.
Il Sud espelle intelligenza, come Settis sa. Che, questo è il punto, quasi mai può tornare, in nessun caso il ritorno è bene accetto, e anzi non è consentito: dalla sua intelligenza il Sud si difende, come dalla probità e dalla legge. In qualsiasi assessorato, in qualsiasi centro di studi o d’iniziativa, in qualsiasi commercio, e perfino nelle pratiche quotidiane, sono più arcigni al Comune e alla Provincia.
Letto in originale, il saggio del professor Lynn, “In Italy, north–south differences in IQ predict differences in income, education, infant mortality, stature, and literacy”, è ancora più spassoso che nell’articolo di Settis. I quozienti d’intelligenza li lega alla statura: i più alti sono più intelligenti. E viceversa: chi è più intelligente è più alto. L’intelligenza va anche con i meridiani, come la ricchezza, dice il professore: non solo chi è più alto, ma chi sta più in alto è più intelligente e più ricco. Ovunque, dice il brillante irlandese. E in Germania, dove è più ricca la Baviera? O in Cina, dove la ricchezza si fa tutta a Sud, da Shangai a Hong Kong? All’Italia poi dà un IQ 102, nella media dell’Europa ricca. Ma a tutte le regioni assegna un IQ inferiore, con l’eccezione del Friuli-Venezia cui dà 103: due regioni hanno 101, tre 100, una 97, le altre attorno al 90
Di che indignarsi, insomma, ma con le molle. È un tipo di scientismo analogo a quello di Lombroso, che misurava l’intelligenza dai crani, e dal catalogo fisiognomico del mago Della Porta. Anche se corredato da una bibliografia lunga un centinaio di titoli. Richard Lynn, benché razzista dichiarato, è infatti rispettato: si dice “the Flynn Effect” il miglioramento secolare degli IQ. Il saggio sull’Italia è l’applicazione di una teoria che Lynn porta avanti dal 2002 col professor Tatu Vanhanen, dell’università di Helsinki. Hanno pubblicato insieme due libri, “Intelligence and the Wealth and Poverty of Nations” (2002) e “Intelligence and Global Inequality”, che sono stati ampiamente discussi nella comunità scientifica. Per la cattivante prosodia smithiana, ma soprattutto nel quadro dell’eugenetica, là dove essa rimane forte, negli Usa, in Svezia, in Germania e in Gran Bretagna. Già un secolo fa, prima e dopo la Grande Guerra, gli italiani, e i latini in genere, non erano immigrati graditi negli Stati Uniti perché avevano IQ bassi: la loro immigrazione fu bloccata per legge, e molti dei maschi che erano entrati furono autorevolmente consigliati di sterilizzarsi.

L’odio-di-sé-meridionale
I coniungi Raeli di Siracusa lasciano tutti i loro averi, un patrimonio immobiliare di 80 milioni, a un’università. All’università Tor Vergata. Per nessun altro motivo che perché è di Roma. Il patrimonio è costituito da alberghi nel centro di Roma, appartamenti e terreni in Sicilia e a Roma. I coniugi Raeli hanno anche istituito cento borse di studio l’anno, da cinquemila euro l’una, per i migliori laureati ogni anno, sempre a Tor Vergata. A Siracusa niente. 

I libri di viaggio di Corrado Alvaro, in Turchia, in Russia, nelle Paludi Pontine, ancora leggibili, le corrispondenze da Parigi e Berlino, dove vede, annota, segnala tutto ciò che popolerà quegli anni, da Proust a Grosz, Piscator e Benjamin, fanno di Alvaro uno degli scrittori più colti del suo tempo, in grado di sapere cosa stava succedendo nel mondo. Remo Ceserani lo ritiene “molto più colto e informato di gran parte degli scrittori italiani dei suoi anni e consapevole degli esperimenti e problemi affrontati dalla contemporanea letteratura europea, compresa quella russa”. Ma si vuole nei racconti, in troppi racconti, diverso: un meridionale. Benché incongruo (insignificante), l’aggettivo è in lui ricorrente – nel racconto “Mezzogiorno” lo collega addirittura alla fame, giocando sul doppio significato del termine.
In almeno un’occasione, il saggio “Rich Literature and Poor Life”, scritto nel 1954 per la rivista di Kissinger “Confluence”, Alvaro fa una professione incantevole di orgoglio meridionale: “Sono calabrese, nato in un paese della più remota montagna della penisola italiana, l’Aspromonte…. Nella mia vita di scrittore ho dedicato gran parte del mio lavoro alla gente della mia terra, facendo mio il suo rancore contro la classe dirigente. Con tutta la sua miseria una regione come la nostra rimane vicina al cuore per le sue qualità umane, per la sua capacità di sofferenza e di sacrificio, per la forza delle sue emozioni, per la sua poesia della famiglia e la sua bellezza, che a volte richiama alla mente un monumento archeologico naturale, tragico, come la vita dei suoi abitanti (il testo è ritradotto in italiano dopo la morte dello scrittore, non ritrovandosi l’originale, in “Totalitarismo e cultura”, l’antologia di “Confluence” voluta da Adriano Olivetti per le Edizioni di Comunità nel 1957). Ma di questo monumento c’è poco nella sua opera.
Alvaro più di tutti, più forse di Verga, ha fissato (cristallizzato) il meridionale. Che qualche volta vive la natura, ma quasi sempre è triste, sfuggente, inaffidabile, collerico, violento. Per il quale ha inventato il “mammismo”, su una realtà molto immaginaria, adottando la Grande Madre mediterranea, cioè meridionale prima che italica, che è invenzione di mitografi molto settentrionali. Gianfranco Contini ha potuto così delineare un tema caratteristico, se non centrale, di Alvaro: “Che cos’è un uomo, un meridionale, di fronte alla donna”. Che, quando ha una qualche attrattiva, è instancabilmente nordica. In “Nasce un villaggio”, uno degli abbozzi raccolti da Ceserani in “La signora dell’isola”, c’è tra i tanti meridionali di Alvaro anche un settentrionale: “Un tipo di settentrionale piccolo e gramo”. 
L’odio-di-sé-meridionale, così costante nella bibliografia di Alvaro, è temperato insomma da un residuo di orgoglio. Perché è al fondo un disadattamento, con se stessi e con il resto. Con il Nord: che nasce dalla delusione, dall’identificazione impossibile con il Nord, in quel quadro unitario che il Nord ha imposto senza crederci. l
leuzzi@antiit.eu

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