Il volume dell’Ordine dei Giornalisti di Milano, “Walter Tobagi giornalista”, a cura di Giuseppe Baiocchi e Marco Volpati, scaricabile dalla rete sul sito dell’Ordine, un’antologica dell’opera del giornalista assassinato nel 1980 dalle Forze Comuniste Combattenti, contiene l’ultimo intervento di Tobagi nella sua Stampa lombarda, aspramente contestato da molti convenuti all’assemblea. Un dibattito all’insegna dei fronti contrapposti, e con l’inevitabile “imbarbarimento della società”. Tobagi poneva il problema delle fonti e delle strumentalizzazione, dell’uso pilotato delle indiscrezioni. Il giornalista del “Corriere della sera” assassinato è un martire della libertà d’informazione, ma non come la intendono coloro che se ne sono gesuiticamente impossessati. Il testo del suo intervento si può leggere di seguito, con la premessa dei curatori.
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Il 27 maggio 1980 si tiene al Circolo della Stampa di Milano un affollato convegno, promosso dall’Associazione lombarda dei Giornalisti sul tema “Fare cronaca fra segreto professionale e segreto istruttorio”. Il convegno era un modo per rispondere al malessere suscitato fra i giornalisti dal caso Isman (il giornalista del Messaggero incriminato per aver pubblicato i verbali dell’interrogatorio di Patrizio Peci forniti da un alto dirigente dei servizi, Russomanno). Le vicende del terrorismo avevano infatti aperto nel mondo dell’informazione la spiacevole sensazione di venire in alcune occasioni usati, non per trasmettere notizie, ma per essere trasformati in strumenti involontari di lotte di potere interne agli investigatori, alla magistratura, al potere politico. Su questi effetti perversi quella sera si interrogano, in un dibattito di alto profilo etico e intellettuale, giornalisti, magistrati, avvocati. Tobagi ne tira le fila, riassumendo rischi e disagi ma anche, com’era suo costume intellettuale, cercando di proporre in positivo strumenti nuovi e modalità per tutelare meglio libertà di stampa e diritto del cittadino all’informazione. È l’ultimo suo intervento. La mattina dopo, il delitto.
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In senso proprio, credo non ci possano essere conclusioni di un dibattito come uello di stasera ed è, direi, quasi imbarazzante parlare dopo il professor Pisapia per le cose così limpide che ha detto. Quindi il tentativo che farò, scusandomi se non sarò brevissimo, nonostante l’ora tarda, è di ragionare un po’ sulle cose che sono avvenute, sulle cose che sono state dette.
La prima osservazione, ma debbo prima chiedere scusa personale a un collega se mi sono permesso di interromperlo verso la fine, ma mi pareva si fosse perso il senso drammatico della situazione nella quale anche questo nostro dibattito si sviluppa con frequenza crescente. È vero che c’è un imbarbarimento della società italiana che tocca tutti, ma sappiamo purtroppo come nasce questo imbarbarimento e possiamo meravigliarci ogni volta che scopriamo degli effetti prodotti da questa situazione, ma sappiamo appunto come nasce e dobbiamo anche domandarci in che modo possiamo evitare che si propaghi.
La prima osservazione è che questi convegni si vanno ripetendo con un eccesso di frequenza. Ne abbiamo fatti – mi pare – tre da gennaio in qua, quindi a ritmo di quasi uno al mese, il timore è che non si cada un po’ nel vezzo, nella inefficienza, nell’inadeguatezza delle famose «grida spagnolesche» che non servivano. Perché tutte le volte noi ripetiamo gli stessi appelli, poi le cose vanno avanti come prima: vediamo a chi toccherà la prossima volta.
La seconda osservazione riguarda lo sciopero. Lo sciopero è stato evidentemente per molti di noi, se non per tutti, uno sciopero difficile perché poteva dare la sensazione che noi volessimo pronunciarci esplicitamente contro una sentenza. Da questo punto di vista è particolarmente sgradevole e non voluta questa interpretazione dello sciopero da parte di chi è estremamente sensibile a un concetto di democrazia che si fonda sulla diversità e sull’autonomia delle istituzioni, ognuna delle quali deve funzionare nella propria autonomia sostanziale e quindi ogni manifestazione che in qualche modo tende a vincolare e condizionare le scelte compiute da un’istituzione autonoma, qual è la magistratura, può apparire non tollerabile, non sostenibile. È altresì vero e credo che in questo senso l’adesione allo sciopero è stata poi così massiccia e così convinta da parte dei giornalisti che c’era in gioco non solo un elemento di solidarietà personale con il collega Isman – qui noi abbiamo sentito il fratello di Fabio, Fabio è un collega che molti di noi hanno conosciuto perché è uno di quei colleghi che si trovano sempre sul campo, sempre dove c’è da correre, da lavorare – quindi c’è un elemento di solidarietà personale da parte di chi lo conosce, ma c’è anche il senso di dare un’indicazione che la categoria dei giornalisti, nonché non rivendicare dei privilegi corporativi, non è disposta a diventare una sorta di capro espiatorio di chissà quali cose vengono fatte al di sopra delle proprie teste.
E qui si inserisce anche l’altra considerazione che purtroppo dobbiamo fare perché non capiremmo la situazione che si è determinata se non ci dicessimo con brutale franchezza che nella vicenda Russomanno, così come in altri casi, si è avuta la percezione netta della politica proseguita con altri mezzi, cioè l’amministrazione della giustizia o meglio delle indiscrezioni che trapelano dal segreto d’ufficio come uno degli strumenti della lotta politica che avviene in questo Paese. È una cosa probabilmente non nuovissima, anzi è una cosa vecchia.
La novità credo solamente stia nell’intensità con cui il ricorso a questo metodo iproprio di lotta politica avviene e nella gravità perciò che essa assume. Perciò, se noi vogliamo seriamente fare i giornalisti, questo è un problema; abbiamo parlato molto di segreto istruttorio, stasera, non abbiamo parlato di segreto professionale, anzi non abbiamo parlato, credo, abbastanza, di deontologia professionale; quello che
dobbiamo affrontare è un problema molto interno ai giornalisti, ma dobbiamo dircelo, il problema delle fonti e della strumentalizzazione.
Chi ha fatto giornalismo negli ultimi dieci anni è cresciuto alla scuola della controinformazione, la grande lezione imparata alla fine degli anni ’60 è che le notizie delle fonti ufficiali non sempre erano sufficienti, adeguate, non sempre neanche veritiere. Da lì è nata la controinformazione. Io credo a questo principio: noi dobbiamo restare saldamente ancorati, stando attenti però a non confondere la controinformazione con la superinformazione, che è un’altra cosa, perché quando l’apparente contro informazione altro non è che un servizio prestato a una superinformazione di cui sfuggono completamente fini e modalità, allora il giornalista deve porsi l’interrogativo se fa un servizio giornalistico o se fa un altro servizio, che nel caso specifico è assai meno nobile. Questo per quanto riguarda le fonti. Diciamoci anche con altrettanta franchezza il problema della strumentalizzazione.
Siccome siamo abbastanza adulti in questo mestiere, sappiamo che le notizie non sono dei funghi che spuntano dopo la pioggia e sappiamo anche che gli «scoop» non si fanno rovistando nei cestini di carta straccia. Questo lo sappiamo tutti; anche a chi è capitato di fare, diciamo così controvoglia, qualche «scoop», così, sa come accadono queste cose, anche i magistrati lo sanno benissimo, lo sanno benissimo gli avvocati. Però, qual è il problema? Il problema è di essere coscienti della strumentalizzazione che si subisce e che si attua perché non c’è dubbio che nel rapporto tra il giornalista e la sua fonte esiste costantemente un rapporto di strumentalizzazione che è biunivoco e allora se è così, come credo sia evidente che sia, il problema fondamentale che uno degli elementi base sui quali si può costruire un’informazione sana è il problema della pubblicità delle fonti.
Le notizie di padre ignoto non servono perché, al lettore al quale si dà un’informazione, si deve anche dire in quel momento o lasciare comunque intendere o fornire gli elementi che consentano l’identificazione di qual è la fonte che ha diffuso in quel momento quella informazione perché se non si fa questo i giornali rischiano di diventare degli strumenti che servono per guerre combattute per conto terzi.
Beninteso, io credo che anche su questo, visto che si sono ricordate storie di 25/30 anni fa, ci sono maestri che hanno vissuto queste esperienze e hanno anche conosciuto queste persone. Mi permetto di citare una persona che ovviamente non ho conosciuto per ragioni di età, ma di cui ho letto con molto interesse gli scritti e che era un giornalista che tutti noi faremmo bene a riscoprire e che era Mario Borsa. Borsa teorizzava in modo limpido che la libertà di stampa esiste in un Paese quando ci sono almeno due gruppi economici editoriali in concorrenza tra di loro e
quindi le notizie che non vengono date da un gruppo sono date dall’altro gruppo. Almeno due certi.
Debbo dire che la prima volta che io lessi questo principio affermato da Borsa in diversi scritti pensai: come è angusta questa concezione di libertà di stampa quando ci sono tante fonti, tutto questo pluralismo. Era il ’72-73. Sembrava tutto pluralistico. Ecco, io credo che noi faremmo bene anche a riscoprire anche questa chiarezza di impostazione per cui la diversificazione dei gruppi editoriali è uno degli elementi centrali e probabilmente le difficoltà di cui ci troviamo come giornalisti dipendono anche da questa gestione gelatinosa dei rapporti editoriali che non consentono di individuarlo, di stabilire un rapporto diretto tra fonti e
non fonti.
E questo evidentemente si collega a quanto dicevo prima, che non è assolutamente sano in un Paese democratico che non vuole subire delle involuzioni pericolose che la politica si faccia nei Palazzi di Giustizia, perché se un processo di questo genere si consolida e va avanti vuol dire che nel meccanismo istituzionale esistono delle disfunzioni gravi e serie. Io non so se le cose alle quali si riferiva il giudice Cerrato sono corrette nel senso che ho letto – mi sembrava una lieve forzatura – nel senso che io ho letto questa intervista sull’Europeo – se quella era la fonte, e mi pareva che come si usa fare con un mal vezzo corrente, si diceva che se così fosse sarebbe grave – cosa che non implica una responsabilità diretta dell’affermazione, ma adombra la cultura dei sospetti che si manifesta poi in molti di questi casi.
Per non farla troppo lunga io pensavo di dire alcune cose brevi sul segreto istruttorio: sono stato anticipato da Fini e da Pisapia. Quello che noi dovremmo rivendicare come giornalisti è proprio la difesa dei diritti dei singoli che non sappiamo chi siano. E questo, credo, deve costituire un motivo di seria riflessione perché io mi domando – sempre per tornare alle cose che 10 anni fa credevamo
estremamente arretrate ed invece adesso scopriamo che sono una specie di quintessenza della democrazia – mi domando proprio il rapporto tra la pubblicità che la stampa italiana può dare alle vicende giudiziarie nella fase istruttoria ed il rigore al quale è tenuta la stampa britannica.
Mi spiego con un esempio. Io mi sono occupato, come molti altri giornalisti, almeno per un certo periodo, della vicenda del «7 aprile», ma si può parlare del «7 aprile »e si può parlare di altre vicende analoghe. Il meccanismo informativo così come funziona adesso che cosa determina? Determina una situazione nella quale quando alcune persone vengono arrestate – talvolta addirittura è sufficiente che nei loro confronti venga emessa una comunicazione giudiziaria – la stampa si appropria di queste notizie, le amplifica e di fatto agli occhi della larga massa dell’opinione pubblica queste persone diventano colpevoli. Dopodiché i meccanismi giudiziari vanno avanti col rigore di cui io in coscienza non mi sentirei di rivolgere alcun rimprovero, ma che sono dei meccanismi lunghi, dei meccanismi complicati. Per
cui i magistrati, mano a mano che accertano che la persona non c’entra, questa viene rimessa in libertà.
Il problema di fronte al quale noi ci troviamo, che sento come cittadino prima ancora che come giornalista, è che tipo di garanzia si offrirà a queste persone; io confesso tranquillamente che non so, ad un anno di distanza – se Nicotri c’è ancora mi può fare un rapido punto della situazione – quanti dell’inchiesta «7 aprile» sono usciti. Ogni tanto si legge su un giornale, in una notiziola, che ne è uscito uno; così per le ragioni più varie. O non si legge.
Il tipo di problema che credo molto rigorosamente noi ci dovremmo porre, che potrebbe anche probabilmente conciliare una serie di esigenze diverse che la magistratura per un verso e la stampa per un altro, hanno, è se non sia davvero più rigoroso e più corretto vedere in che modo si possa trapiantare in una società italiana un meccanismo doppiamente garantistico che non costringa i magistrati a nascondere delle cose, che non costringa i giornalisti per dovere d’ufficio a scrivere degli articoli lunghissimi quando esistono dei materiali che non offrono la documentazione sufficiente, ed invece si possa e si debba premere perché si arrivi rapidissimamente – e comunque con rapidità maggiore (certo più di quello che non c’è adesso) – a dei dibattimenti che sono anche l’unico momento nel quale è possibile ricostruire una duplicità di versione.
Credo che da questo punto di vista ci sia veramente uno sforzo di fantasia da fare.
Debbo esprimere invece un’opinione molto modesta, molto personale su quanto diceva Ziccardi in relazione a una sorta di frammentazione del segreto istruttorio. Io non sono assolutamente un tecnico, quindi magari applico a questa proposta un criterio che non vale. Però vorrei richiamarlo semplicemente a riflettere su, per esempio, alcuni problemi che derivano nella diplomazia attuale dalla introduzione di quelle norme americane che dopo cinque anni, in base al diritto di informazione, consentono la pubblicazione di questo materiale.
Leggevo la scorsa settimana alcune pagine delle relazioni degli ambasciatori veneziani nel ’500, ’600, ’700 che sono state ripubblicate, e mi colpiva molto la franchezza di contenuto che gli ambasciatori potevano avere dicendo: «Il tal personaggio che abbiamo incontrato il tal giorno è uno del tutto incapace, quell’altro è un furfante» e così via. E confrontavo questo, con un articolo
comparso un paio di settimane fa sull’"Herald Tribune", nel quale si analizzava invece la crescente gelatinosità dei rapporti dei diplomatici americani nei vari Paesi i quali, quando parlano di una persona, che sia in Italia, che sia in Polonia, non possono esprimersi con altrettanta brutalità, perché sanno che dopo cinque anni quel loro giudizio diventa pubblico.
Non so se un problema di questo genere sia trasferibile ed applicabile a questo meccanismo, però credo che bisogna tenerne conto. Concludo rapidamente, per dire che con tutti i problemi che possiamo avere, con tutte le tensioni che si possono essere innescate, credo che abbia ragione il giudice Beria d’Argentine quando dice che la via da seguire è la via del dialogo e della proposta pratica.
Questa proposta dei comitati di giustizia e informazione: proviamo a vedere se riusciamo a crearli, almeno in embrione, qui a Milano. Io da questo punto di vista vorrei anche rivolgere – e con questo chiudo – un invito ai colleghi che sono qui stasera. Stasera è stata una serata molto importante nella vita del giornalismo milanese e dell’Associazione in specie, perché a questa nostra sera sono venuti molti colleghi giovani, sono venuti molti colleghi che normalmente non si vedono nelle nostre riunioni. Quindi credo che sia estremamente importante se tra i colleghi che hanno seguito il dibattito questa sera ve ne sono alcuni che sono disposti, che sono interessati a occuparsi di questo tema che è estremamente delicato e che credo richieda un’analisi approfondita e alcuni sforzi di fantasia, insieme con gli amici magistrati, per tentare di definire delle strade possibili.
Se ci sono dei colleghi appunto interessati a questo, saremo felici di accoglierli al lavoro della nostra Associazione.
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