Commemorandolo ai trent’anni dall’assassinio, Ferruccio de Bortoli ricorda sul “Corriere” che la sera prima dell’attentato Walter Tobagi presiedeva un incontro al Circolo della stampa di Milano. Si discuteva del caso Isman, di Fabio Isman che era stato carcerato per aver pubblicato un dossier dei sevizi segreti dai quali una manina previdente aveva strappato la pagina che parlava di Marco Donat Cattin. L’aveva strappata per concentrare l’attenzione sulla pagina mancante, e cioè sul presidente del consiglio Cossiga che del figlio terrorista avrebbe reso edotto il padre ministro, e che qualcuno voleva sloggiare da palazzo Chigi. Ma questo il direttore del “Corriere della sera” non lo ricorda, benché l’argomento sia attualissimo e in discussione alla Camera: della disinformazione che interessi coperti, politici o giudiziari, fanno passare come controinformazione o libertà d’informazione.
Il tema della disinformazione allora non era la corruzione ma il terrorismo. Il dibattito al Circolo della stampa fu infuocato, e Tobagi personalmente fu fatto fatto oggetto di ripetute aggressioni verbali. Di cui la traccia è stata fatta sparire, con i nastri della registrazione del dibattito. Neanche questo de Bortoli nel suo commosso articolo ricorda. Il “sovietismo che non c’è” controlla ancora via Solferino? Tobagi disse tra l’altro, in questo discorso al Circolo della stampa che non si ripubblica, nemmeno nel libro della figlia Benedetta: “C’è un imbarbarimento della società italiana che tocca tutti. Ma sappiamo come nasce, e non possiamo meravigliarci ogni volta che ne scopriamo gli effetti”. Si commemorano i morti, anche nel caso di Tobagi, per ipocrita autocelebrazione, senza mai rispetto per la verità.
È certamente lecito per Ferruccio de Bortoli celebrare Tobagi, è uno dei pochi giornalisti italiani a specchiarne l’autonomia di giudizio. Un po’ meno per il giornale e per l’editore: impadronirsi del morto è vecchia pratica gesuitica, non commendevole, specie quando il morto viene celebrato dopo qualche anno e in certi momenti, l’opportunismo cozza con l’onestà intellettuale che è il segno di Tobagi. Sulla disinformazione, i dossier che inquinano l’opinione, i tanti “documenti” che i giornali pubblicano per pettegolezzo, o per obbedire a logiche segrete o di parte, il pensiero di Tobagi è ben sintetizzato da Franco Abruzzo nella prefazione a Federica Mazza, “La storia del sindacato dei giornalisti da Francesco de Sanctis a Walter Tobagi”, Scheiwiller, 2005:
“Contro i rischi della superinformazione e della diffusione di notizie di «padre ignoto», si alza ammonitrice la voce di Walter Tobagi, del Tobagi dell’ultimo dibattito al Circolo della Stampa di Milano. Era il 27 maggio 1980. Un discorso ancora oggi attualissimo. Non dobbiamo confondere controinformazione e superinformazione, consapevoli anche che l'apparente controinformazione potrebbe essere «un servizio prestato a una superinformazione di cui sfuggono completamente fini e modalità». Se cade in questo errore, diceva Tobagi, «il giornalista deve chiedersi se fa un servizio giornalistico o se fa un altro servizio, che nel caso specifico è assai meno nobile». Il lettore non può essere destinatario di notizie di «padre ignoto». Al lettore si deve anche dire la fonte che ha diffuso l’informazione «perché se non si fa questo i giornali rischiano di diventare degli strumenti che servono per combattere battaglie per conto terzi». Tobagi suggeriva una via d’uscita alla crisi dei rapporti giudici-giornalisti: dibattimenti rapidi in modo tale che i giudici non siano costretti a nascondere le notizie e i giornalisti non siano costretti a scrivere articoli sulla base di pochi dati. Era il 27 maggio 1980. Nove anni dopo è entrato in vigore il nuovo rito processuale penale. Le cose non sono migliorate. I processi sono sempre lenti. Dai Palazzi di Giustizia continuano a uscire molte notizie di «padre ignoto»”.
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