Paolo Legrenzi, Non occorre essere stupidi per fare sciocchezze, il Mulino, pp. 143, € 10
lunedì 21 giugno 2010
Intelligente per essere stupido – o viceversa?
La stupidità piace e il libretto è citatissimo. Ma è per metà un articolo non nuovo su Clinton e la Lewinsky, e per l’altra metà una benevola rassicurazione da buon confessore – per Berlusconi compreso (sul quale Legrenzi manca un punto: se Berlusconi non ha successo in politica proprio perché fa lo “stupido”, il semplice, quello che dice “il re è nudo”, affondando così la stupidità vera, che è presuntuosa, dei conformisti, i faziosi, gli ipocriti, e degli stessi comici di mestiere, Grillo, Guzzanti, Moretti? o riuscendo per questo solo fatto simpatico, anche se pasticcione, lui che avrebbe invece tutto per essere antipatico, un riccastro, il più ricco d’Italia, e col conflitto d’interessi). Alle ultime paginette Legrenzi apre l’argomento più interessante: “Si proteggono i lavoratori più deboli e, come conseguenza, questi non vengono più assunti”. Oppure: “Si protegge la conservazione dei beni culturali, e quando un’impresa edile trova un reperto, temendo che sia di valore storico, lo ignora, se non peggio”. Che è il vecchio tema: se una buona azione può produrre effetti cattivi. E bisognerebbe ricominciare.
La stupidità purtroppo c’è – non è l’errore. Innata o acquisita che sia. E' argomento rischioso ma fatto imbattibile. E vasto ne è il repertorio. Si può leggere la storia come una tensione al progresso, una freccia a 90° verso l’alto, o come una serie di catastrofi a cui poniamo di tanto in tanto rimedio, una freccia tendenziale verso il basso, con oscillazioni che di tanto in tanto la raddrizzano (la sopravvivenza, la curiosità). L’Europa che culmina la sua storia bi millenaria nel cupo Novecento ne è un caso. La storica Barbara Tuchmann ha potuto seguire una linea di stupidità nella grande storia, “La Marcia della follia. Dalla guerra di Troia alla guerra del Vietnam”. Con un esempio su tutti: come l’Inghilterra perse l’America. O i papi che costrinsero mezza Europa alla Riforma. O l’attacco “suicida” del Giappone a Pearl Harbour. Lo vediamo del resto ogni giorno, nell’infinito stupidario della famiglia, del lavoro, della vita minima in comune, nel condominio, alla posta, sul tram. C’è perfino la “stupidità della poesia”: la denuncia Jean Paul nell’“Elogio della stupidità”, la celebra in tono elogiativo Savinio, nel commento alle avventure dell’“Asino” di Luciano.
Da un lato la storia rasenta la follia, dall’altro il banale errore. Jean Paul, che ne scrisse l’“Elogio” a diciott’anni, si esercitava contemporaneamente sulla “Differenza tra il pazzo e lo stupido”. Il tema è peraltro sempre stato popolare. Legrenzi si limita a citare Musil e Carlo Cipolla, ma non c’è, si può dire, chi non ne ha trattato. Menandro, Isocrate, Catullo, il “Siracide”, 21,10, il libro dei consigli della Bibbia greca poi chiamato anche “Ecclesiastico”, l’“Ecclesiaste” naturalmente, il “Canzoniere eddico”, i proverbi, Oscar Wilde, “non c’è altro peccato che la stupidità” (ma nel “Marito ideale” l’aforista Wilde professa “una grande ammirazione per la stupidità”), Baudelaire, e il borghesissimo Flaubert di “Bouvard e Pécuchet”. Per Orazio, al quarto carme, “è piacevole, al momento opportuno, essere stupidi”, e per Seneca, nella “Tranquillità dell’animo” - “di tanto in tanto è piacevole essere stupidi”. Mentre per Plinio il Vecchio “nessun mortale è saggio a tutte le ore”. Il placido Cassiodoro la consiglia. “La stupidità al momento opportuno è la più grande saggezza”. Tema dissodato recentemente da Savinio e Umberto Eco, anche se non in forma di aforisma, e dallo storico Cipolla, e contrastato, ma debolmente, solo da Fruttero e Lucentini.
Bisogna ricordarsi, diceva Rabelais, che “al mondo ci sono molti più coglioni che uomini”. E che, aggiunge Longanesi, “due stupidi sono due stupidi, diecimila stupidi sono una forza storica”. Ma c’è anche un’arte della stupidità. Nel senso di Cassiodoro oppure in senso inverso. Il Dottor Johnson nota di un tale che “dev’essergli costato molta fatica, un tale eccesso di stupidità non esiste in natura”. Mentre il superbamente intelligente von Hofmannstahl afferma: “La stupidità più pericolosa è un’acuta intelligenza”. Sia il genere che la trattazione sono insomma ardui.
La stupidità di Jean Paul si parla da sola e si tesse un elogio: il colmo della stupidità. Scesa dove più in basso non si può, però, guarda in alto e cosa trova? Stupidità. Non nel senso dell’“Ecclesiaste”, o del pessimismo cosmico (“infinito è il numero degli stupidi” – senso peraltro soprammesso dal traduttore san Girolamo ma estraneo, pare, all’originale ebraico, e alla traduzione dei Settanta, che recita: “Ciò che manca non si può contare”), né del moralismo ciceroniano (“Stultorum plena sunt omnia”), ma della divertita scoperta. Legrenzi fa molti esempi di Nero Wolfe e Philip Roth, e quindi è simpatico. Ma stupidità, certo, è anche affrontare la stupidità seriamente – si cade nel paradosso di Epimenide cretese che tutti i cretesi attesta bugiardi.
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