Curiosa autoanalisi. Leggibilissima, benché non finita – ma è destino di Hemingway che sempre gli manchi qualcosa, come qui fa mostrare dalla sua “corrispondente dell’Iowa”. E atteggiata, Hemingway è sempre al comando (tradendosi anche: fa l’amore una sola volta in molti mesi, ma tre volte di seguito, a 56 anni). Sfugge al controllo la storia in quanto lettera d’amore a Miss Mary, amore coniugale – storia unica in letteratura. E l’Africa, di cui Hem si conferma il miglior poeta, con tutti i suoi manierismi. Qui vi s’identifica anche, senza snobberie: nei ritmi di vita, lo humour, l’understatement, e la conoscenza sensibile, immediata. È proprio vero che Hemingway, l’ultimo europeo d’America e ben sofisticato, tra Parigi, Venezia e la Spagna, è sempre il ragazzo dell’Idaho, tra boschi, sorgenti e animali, unico maschio con quattro sorelle (quattro anche le mogli).
È l’inizio di quella che sarà la malattia mortale, la depressione? Qui in forma di incubi al mattino (anche Scott Fitzgerald, altro depresso, ha le tre del mattino, dopo la sbronza: alcolismo e depressione non si legavano, prima del Prozac?). È anche un libro sull’orrore di uccidere, tardivo: Hem ne cerca per tutto il libro una giustificazione. È possibile che sia crollato per l’orrore del cacciatore che era stato, la “vera” impotenza?
Ernest Hemingway, Vero all’alba
lunedì 28 giugno 2010
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