“La donna-madre di una Calabria antica” recita l’in testa del tascabile Bompiani di questo romanzo postumo di Alvaro. Capitalizzando in mezza riga tutti i luoghi comuni sulla Calabria, sul Sud – è incredibile che ci siano solo luoghi comuni sulla Calabria, anche per i calabresi, perfino per gli studiosi calabresi. Alvaro lasciò “Mastrangelina”, e il successivo “Tutto è accaduto”, come seconda e terza parte di un ciclo avviato con “L’Età breve”. Che è un ritorno alle origini, dopo tanto cosmopolitismo, e il rifiuto consegnato al celeberrimo “Gente in Aspromonte”. Un ritorno al mito, e alla verità. “«Il nostro paese è decaduto. Non si ricorda più. Gli dei sono morti», disse Diacono, «Eppure c’erano»”. Non si ricorda più.
Una storia vera, la scoperta della statua di Démetra a Locri, allora Gerace (nel testo Corace), dà a Alvaro l’estro d’introdurre al mito, nel finale, la storia di “L’età breve”, e l’attacco di questo “Mastrangelina”. Il seguito è un esempio eccezionale di antropologia d’autore. Non in assoluto, il racconto è mal connesso. Ma il campionario narrativo è vivacissimo, specie per un narratore meridionale, vincolato alla maniera, e di più per uno calabrese. Specie per il donchisciottismo, di un’ironia forsennata e tuttavia riuscita. Nei capitoli centrali, da antologia, il XIV, il XV, i precedenti, i successivi. Di baroni senza rendite, e professionisti senz’arte, di uomini e donne schiavi della modernità ma fuori dal lavoro, dall’applicazione, dalla vita sociale. Il “punto d’onore regionale” è l’inanità (difficoltà, rischio) e lo sradicamento (modernità, odio-di-sé).
Con molto autobiografismo. Qui è l’educazione sentimentale dell’adolescente Alvaro. Brancatiana, e insomma di maniera (“«Ma ti guarda?», chiedeva Rinaldo a Benestare. Perché tutto il suo fantasticare era negli sguardi”), ma subito corretta. Alvaro è il ragazzo che “leggeva tutti i libri”, e sapeva le poesie - che qui fa rivivere, dono anche questo inconsueto: gli bastava leggerle due volte per memorizzarle. Il padre riemerge, come in quasi tutti i racconti di Alvaro, come in ogni adolescenza calabrese, ma non più antagonista: “Mio padre crede che la gente sia buona, e che basti andare per il mondo”. Con la separatezza dei sessi, ma non violenta, né disarmata. Le figure e le situazioni stagliate come nella migliore narrativa di viaggio nella regione, di Courier, degli inglesi. L’albergatore Pitagora che non ama i suoi ospiti è il secondo capitolo: non li capisce. Anche se capita ovunque di essere dimenticati, se solo al ristorante si presentano un compare o una comare, o peggio i due insieme con la loro figliolanza, il dottore, il sindaco, l’avvocato: c’è la curiosità ma non l’interesse per il cliente occasionale, il forestiero. Ma, poi, tutto è immutato. La “tendenza verso la cultura classica”, comune agli intellettuali della città – la città di Turio, che è Catanzaro, dove Alvaro prese la maturità da “esterno”. Che si dedicano a scoprire le origini locali di Omero. O gli studi stenti dei figli incapaci, che si vogliono promossi comunque per la promozione sociale, avere il posto senza lavorare – faticare. Gli studenti dei paesi, isolati-spersi e comunque poveri, topos di tanti racconti di Alvaro, con i “pacchi” da casa, le cibarie, altro topos ricorrente.
Un monumento alla Calabria, vivace piuttosto che verghiano (“Gente in Aspromonte”) e monocorde, e ben più vivo. Il ciclo Alvaro intitola “Memorie del mondo sommerso”. Ma il taglio non è ostile, e anzi compassionato. Anche delle cose che sono, si suppone, desuete. Il bacio della mano al padre, prima di ogni partenza e ad ogni arrivo. L’impulso: “Ci piace donare, n0n c’è nulla di pù bello che donare, così, per nulla, perché è il nostro carattere”. L’eccesso: “Un attimo di debolezza, a Turio, si pagava con una vita maledetta”. Il pessimismo, per cui ogni ragazzo può dire: “Da noi tutto finisce nel dolore e col sangue”, pensando alle cocotte bionde che invece “sono allegre e per questo hanno fortuna”. Con un’ardita tesi della furia improvvisa omicida di quelle valli di montagna”: A un certo punto si esplode. Si sopporta èper annipo, improvvisamente non si può più sopportare. E si uccide”.
Molti usi vi sono documentati di cui più non si parla. L’ospitalità d’uso nella casa borghese in paese, di cui i viaggiatori riferiscono sempre con meraviglia. Il tesoro sepolto: “Tanti nei nostri paesi vivono con l’idea della scoperta di un tesoro sepolto”. I tedeschi che girano a piedi, studiosi di geologia e di parlate dialettali. I contadini che vanno in città per le pratiche, “i piedi straziati dal selciato, per via delle scarpe che avevano calzato facendo il loro ingresso in città, dopo aver camminato comodamente scalzi pei sentieri di campagna”. Lo studente che va a scuola con la pistola, come capitava ultimamente nella scuola dello scrittore Delfino, e di don Pino Strangio, il rettore del santuario di Polsi.
Corrado Alvaro, Mastrangelina
sabato 10 luglio 2010
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