Il fico d'india
Questo è un libro onesto, non prevenuto, non a effetto, che però non si scrive sull’unità. E anzi, per la sua parte centrale, che è poi il carteggio tra Cavour e i suoi collaboratori al Sud, si finge che non esista. E un'allegra esposizione di un punto di vista. Ma convincente. Nei suoi limiti: il quadro è veritiero, le responsabilità non sono ripartite. Mancano quelle del Sud, la capacità di reagire, e anche di difendersi. Storicamente non accurato, insomma: l’antimeridionalismo di Pasquale Villari è un’invenzione, quello di Cavour pure (il conte non sapeva assolutamente nulla dei suoi “cari napoletani”, né gli importava). Ma il punto di vista è persuasivo, ben sorretto dalle pezze d’appoggio, il feroce leghismo postunitario: dà vita al fatto con gli stessi personaggi e gli argomenti che vorrebbero negarlo. Del “Sud” non manca niente, nessuno stereotipo. C’è pure il fico d’india – e la copertina col fico d’india con cui gli Editori Riuniti pubblicarono nel 1992 “La questione meridionale” di Gramsci.
Nel titolo originale la questione meridionale viene legata alla cultura italiana, italian culture and the southern question. Non nel senso che la “cultura italiana” è inclinata, per tradizione, passione, interesse, alla squalifica del Sud. Ma per gli interessi specifici dell’autore, storico della cultura. Che qui analizza la “nascita del Sud” in alcuni scrittoori del Grand Tour, e in Gladstone, Cattaneo, Gioberti, Leopardi, Verga (un capitolo, questo, esemplare nell’italianistica), l’“Illustrazione Italiana”, Pasquale Villari e Leopoldo Franchetti. Ma finisce per rendere vero il primo senso, che l’Italia si è fatta con la “creazione” del Sud. Che è il senso vero, molto esplicito del carteggio di Cavour sulla questione meridionale, che costituisce il capitolo più ampio del libro e che Moe decide sardonicamente di richiamare come “La liberazione” (la fonte sono i cinque volumi di corrispondenza raccolti da Zanichelli attorno al 1950 sotto il titolo “La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del regno d’Italia”).
Una conclusione più esplicita che in "Darkest Italy", con cui lo "storico e giornalista" britannico John Dickie ha anticipato di un anno Moe - con la stessa lettura degli "stereotipi" e de "L'illustrazione italiana", ma con capitoli diversi sulla "sicilianità" di Crispi e sul banditismo. La conclusione è alla prima pagina: “L’unificazione scisse la nazione in due parti, accentuando il carattere settentrionale dell’una e quello meridionale dell’altra”. E poco importa che essa fosse opera in buona misura di meridionali, fuoriusciti o comunque critici. Ma non di De Sanctis, che vi si oppose polemicamente, e in ultimo di Settembrini, che si resero conto subito che la liberazione era un’annessione.
La squalifica del Sud emerge tra l’infanzia e la vecchiaia di Casanova. Che nelle “Memorie” ha ricordi esecrandi del suo viaggio a Martirano, nel cosentino, alle dipendenze del locale vescovo: “Sessanta ore dopo esserci arrivato, lasciai Martirano”, s’inventa nelle Memorie” cinquant’anni dopo. Ma nel 1743, quando Casanova aveva diciott’anni, a Venezia si cercava e si prendeva lavoro a Martirano.
La creazione del Sud è in buona misura opera di meridionali, emigrati e non, Giuseppe Massari, segretario di Cavour, Francesco Trinchera, Crispi, il calabrese Biagio Miraglia, e tanti, troppi altri. Contro di loro De Sanctis, anch’egli emigrato a Torino, dovette sostenere dure polemiche. In particolare contro il napoletano Trinchera, che tutti i napoletani voleva a tutti i costi assassini e traditori – Trinchera era del partito di Lucien Murat… Nel secolo abbondante del Grand Tour, i viaggiatori facevano riferimento alle borghesie meridionali, le sole in grado di ospitarli e di indirizzarli, e ne riflettono, osserva Piero Bevilacqua nella prefazione, “il calco negativo di un idealtipo settentrionale rielaborato dagli intellettuali meridionali”. La frase più nota di Gladstone, la più citata in Italia, è dalle sue “Lettere” da Napoli, dove viaggiò con l’amico, economista celebre, William Nassau Senior, anche per assistere al processo al patriota Carlo Poerio, ed è una citazione: del regime borbonico “ho visto e sentito usare questa forte e vera espressione: è la negazione di Dio eretta a sistema di governo”. La peggiore condanna di Napoli, insomma, è creazione di Napoli. Il siciliano Crispi, governatore sabaudo a Palermo, secondo una denuncia inoltrata a Cavour “ha raccolto in dodici ore di dominio (a Palermo) tutto l’odio che il più infame dei satelliti del Borbone, Maniscalco, raccolse in dodici lunghissimi anni”. Magistrale è la ricostruzione che l’autore fa della definitiva “creazione” del Sud da parte di Pasquale Villari, un calabrese di Bagnara emigrato politico a Firenze, dove insegnò e morì nel 1917 senza aver mai fatto ritorno al Sud, e il barone Leopoldo Franchetti tra il 1874 e il 1878. Che avrebbe definitivamente sepolto il Sud, non più il luogo del pittoresco: il “Sud” diventa “una minaccia per l’integrità politica e morale della nazione”, partendo dal “dispotico latifondista”, corrotto, mafioso, sperperatore. Alle “Lettere meridionali” di Villari si fa solitamente merito da parte dei meridionalisti di avere “influenzato” Franchetti, positivamente cioè.
Affrica, caffoni, beduini
Ma nulla eguaglia la cattiveria dei collaboratori di Cavour, in quella straordinaria corrispondenza sull’annessione, che non si può assolutamente dire altro. Bixio gli scrive che “i napoletani sono degli orientali, non capiscono altro che la forza”. Luigi Carlo Farini, governatore a Napoli nei primi mesi del dominio piemontese gli scrisse il 27 ottobre 1860 la nota invettiva: “Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile”. Per il genero di Manzoni, D’Azeglio, piemontese dunque milanesizzato, “la fusione coi Napoletani… è come metterci a letto con un vaiuoloso”. Non si tralascia nessun capo d’accusa, la sporcizia, l’ignoranza, l’anarchia, la babele, e il “Medio Evo”. La corruzione del sud è già allora il tropo dominante, da parte di un ceto politico che dopo qualche mese, col governo Rattazzi, con Lissa e Custoza, e con le speculazioni di Firenze e Roma avrebbe singolarmente connotato nel senso peggiore l’Italia unita.
Lo stesso Cavour a Lady Holland scrive che “i napoletani” – cioè il Sud - sono “corrotti” e “abbrutiti”. Corrotti “fino al midollo” li diceva all’ambasciatore inglese a Torino. La nipote ne accrediterà nel 1862, per ragioni di stato, la morte nel segno della pietà per “i napoletani”: “Li governerò colla libertà, e mostrerò ciò che possono fare di quel bel paese dieci anni di libertà. In venti anni saranno le provincie più ricche d’Italia”. Cavour morirà in effetti senza aver concesso ai suoi luogotenenti lo stato d’assedio tanto invocato. Ma la versione pietosa della sua fine contrasta con tutto il carteggio. E poi col primo dibattito parlamentare sul Sud, l’8 ottobre 1860. Dove l’unica voce dissenziente tra le dure apostrofi contro “i napoletani”, fu quella del milanese Giuseppe Ferrari. Contrario all’annessione in quanto federalista, ma anche onesto testimone, di Napoli dove si era voluto recare di persona: “Ho visto una città colossale, ricca, potente… Ho visto strade meglio selciate che a Parigi, monumenti più splendidi che nelle prime capitali dell’Europa, abitanti fratellevoli, intelligenti, rapidi nel concepire, nel rispondere, nel sociare, nel agire. Napoli è la più grande capitale italiana, e quando domina i fuochi del Vesuvio e le ruine di Pompei sembra l’eterna regina della natura e delle nazioni”. Un testimonianza che spicca anche per essere unica: nella preparazione immediata dell’annessione non un solo cenno all’innovazione tecnica nel regno del Sud, nella ferrovia, nella marina, nell’agricoltura degli agrumi e della vite, alla competitività internazionale, alle buone finanze, e a quella straordinaria integrità della Pubblica Amministrazione che consentiva di rimediare ogni pochi anni a disastrosi terremoti rapidamente, senza sprechi, e con soluzioni tecniche di avanguardia.
Piemontesi e cappuccini
I buoni sentimenti del resto, siano stati quelli di Cavour buoni, non mutano la natura delle cose. La verità di questo libro è, incontrovertibilmente, che il Sud è stato conquistato. Da padroni incapaci. E l’incapacità, come la più generale stupidità, è infettiva. Celiava il poeta africano Agostinho Neto, che ha voluto e realizzato l’indipendenza dell’Angola: “Le colonie non sono uguali: a qualcuna sono capitati i gesuiti, ad altri i cappuccini. A noi sono capitati i cappuccini, che più che altro generavano figli”. Al Sud non sono capitati i prussiani, gli inglesi, o i francesi, ma i piemontesi. Che tra tutti gli italiani non erano i peggiori.
Ne è esponente tipico un non piemontese, La Farina, che non sapeva nemmeno cosa stava scrivendo a Cavour il 21 novembre 1860: “Fuori del suo nome (di Cavour, n.d.r.), non v’è nome piemontese che qui sia conosciuto: del Piemonte nessuno ne parla, nessuno ne chiede; la sua storia è ignorata, delle sue condizioni politiche, delle sue leggi non se ne ha notizia alcuna: insomma l’annessione morale non esiste”. E continua chiedendo lo stato d’assedio, senza sapere che ha descritto, per patriota che fosse, l’unificazione come una conquista: “I Napoletani si sono così abituati a considerare la loro città come un mondo a sé, che per farli entrare nella vita comune della nazione bisogna non solamente invitarli, ma costringerli”. Il principe di Carignano, luogotenente generale dell’ex Regno a fine 1860, lo confermerà con maggiore imprudenza allo stesso Cavour (i briganti erano in un primo momento “unitari”): “L’annessione qui si è fatta sotto la pressione rivoluzionaria con la paura dei fucili dei Garibaldini e dei banditi”. E chiederà truppe truppe e comandanti con carte bianca: “Ciò che serve qui sono truppe sparse ovunque e in grande quantità, e invare Governatori e intendenti delle altri province del Regno, ma persone senza mandati”, oggi si direbbe senza regole d’ingaggio. Dopo le ultime guerre di liberazione o umanitarie, in Serbia, in Iraq, in Afghanistan, il “modello” ha un’identità ben precisa, cioè imperialista.
Resta da capire la persistenza, per un secolo e mezzo ormai, degli stereotipi, benché così cattivi e dannosi. Una spiegazione è la persistenza dell’opinione pubblica nella forme delle idee ricevute o dei preconcetti: l’equivoco è, come la speranza, duro a morire. Studiando l’Olocausto una cosa è chiara: il nazismo non si nascondeva e gli ebrei ovunque in Europa sapevano che il nazismo era razzista feroce, ma si ritennero fino all’ultimo europei eguali agli altri, e in Germania anzi tedeschi. Un’altra spiegazione è purtroppo la verità sull’opinione pubblica, che raramente non è stata, non è, un fenomeno di dominio.
Nelson Moe, Un paradiso abitato da diavoli, L’ancora del Mediterraneo, pp. 379, € 25
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