mercoledì 14 luglio 2010

Malinconia dell’intellettuale

zeulig 

Se è ingaggiato l’intellettuale è disimpegnato Le follie intellettuali i copti impersonano in una bella donna. Tolstòj invece nota che “Rousseau mentiva e credeva alla sua menzogna”, il prototipo dell’intellettuale nella storia. E questo chiude il discorso, o lo riapre: l’intellettuale è fangoso. Certo, non è il ragno della logica: la provvidenza è altalenante e non c’è razionalità nella ragione, non necessariamente, l’astratta ragione è aritmetica povera. L’onestà intellettuale è il fondamento imprescindibile di una categoria, se ancora c’è, dell’intellettuale. Ma più che l’astratto genere, aiuta la figura dell’intellettuale nella storia. In quella recente, poiché la figura è recente. Maschile e femminile, è opportuno ricordarlo, alle origini, a Parigi, Berlino e Londra nel Sei-Settecento (ma i primi intellettuali, si sa, furono i gesuiti, del potere a chi sa, o lo presume, i primi e i più veri libertini intellettuali). 
Il numero 1 di “Alfabeta” seconda serie è dedicato all’intellettuale con un’ottica tutto sommato derisoria. Eco deride l’intellettuale di destra. Andrea Cortellessa individua l’imbuto nel quale l’intellighenzia è precipitata in questa età del mercato, di Santoro e Maria De Filippi, e di Berlusconi, a partire da Pasolini, dal suo misoneismo radicale, là dove non opera lui, accoppiato al suo povero gigionismo – ma senza dirlo: non si può dire? Ma, poi, tutto il pianto è sull’Italia. E sulla Francia, di cui l’Italia è sorella minore – almeno fino a che, se Dio vuole a lungo, si leggerà il francese. Si vede subito a un approccio comparatistico. 
Un quadro dell’intellettuale oggi sarebbe partito altrove da Internet. Dal blog, dalla scrittura breve (dal pensiero breve? o forse semplice), dalla comunicazione istantanea, dalla comunicazione allargata. Se l’organicità è criterio utile (buono, morale), oggi l’intellettuale è disorganico. Anarcoide, e anche un tanto ignorante – dichiaratamente, l’estemporaneità, l’improvvisazione, la cosiddetta rabbia facendo premio, una sorta di canescioltismo. 
Ma prendiamo lo status classico dell’intellettuale per buono, anche se è un altro segno che l’Italia è ancora “sovietica”. In Germania l’intellettuale ha avuto una funzione guida eccellente per almeno un secolo, da von Humboldt al primo Bismarck. Finché lo spirito di caserma prevalse nel prussianesimo, respingendo l’intellettuale nell’area deprecatoria, da Nietzsche in poi. Che si avvale del crisma dell’anarchia ma confusamente, compresa l’anarchia di destra, di Jünger e Thomas Mann, borghesaccio impunito (il Thomas Mann italiano, dei suoi traduttori e mediatori, non ha nulla del violento originale): si pensi agli intellettuali tedeschi nella prima guerra, e alla Novemberrevolution, da Rosa Luxemburg a Spengler e alla generazione degli adolescenti che finiranno nei Freikorps. La Germania rimane intellettualmente superiore, ma per il mito di Sadowa. Un mito intellettuale: i liberali abiurarono in massa in favore della Prussia. “Una vittoria soprattutto intellettuale” dirà il Blitzkrieg di Hitler Marc Bloch, storico francese volontario di entrambe le guerre, prima ovviamente della Soluzione Finale, e della sua personale persecuzione da parte degli occupanti. Ma Sadowa fu anche la fine dell’intellettuale, che da allora non ha più avuto alcuna funzione nelle tre Germanie che si sono succedute, di Bismarck, di Weimar, della Repubblica Federale, né critica né retorica.
Analoga la funzione dell’intellettuale in Italia, si pensi solo al pre-Risorgimento: Leopardi, la questione della lingua, Genovesi, Galiani, Palmieri di Micciché, Cuoco, Parini, Foscolo, Manzoni, Cattaneo, Verdi e gli operisti tutti. Con una deriva immediata dopo l’unità, pur senza guerre, al notabilato, che costituisce, sono ormai centocinquant’anni, la cifra probabilmente indelebile dell’intellettuale italiano, nell’Italia “bizantina”, in quella giolittiana, nella fascista, e nella Repubblica. Se non per i filoni liberale, di Croce, Gobetti, Salvemini, Einaudi, dello stesso Gentile, grande imprenditore culturale, e confessionale, da Toniolo in qua, marginali però benché vivaci. L’eclisse insomma non è nuova, ed è indotta. La Repubblica è dominata dal “compagno di strada”, non si sarebbe cos’altro trovarci, la creazione cominternista di Willi Münzenberg, il più grande imprenditore culturale di tutti i tempi, utile per la propaganda, utilissimo, e nient’altro. In confronto a esso non si trovano che “battitori liberi”. Ma non nel senso proprio, del gergo calcistico, dell’atleta che chiude la difesa e rilancia l’offensiva, bensì nel senso del gigionismo. L’intellettuale viene in sospetto in Italia come dannunziano ma in realtà è malapartiano, presenzialista e volutamente futile, furbastro più che no, a suo modo sempre “politicamente corretto”, cioè sull’onda. E comunque, dannunziano o malapartiano che sia, è sempre “francese”. Per l’equivoco della stagione illuministica, dell’Intellettuale Re. Che preparò la Rivoluzione, l’unica finora riuscita – con ripensamenti. Dimenticando che la Francia, paese di saldo spessore culturale, che si vuole anche politico, ha però una cultura politica fallimentare – e non da ora, già dai tempi celebrati del Re Sole (perché la Francia non ha avuto un impero?), con l’incredibile oorte di mantenute in titolo, gli ultimi bagliori li ebbe con le regine italiane. Tutt’altro mondo l’America, dove l’intellettuale ha sempre avuto un ruolo decisivo. Tra i padri della patria, e della costituzione. E nella successione dei presidenti. Basti pensare al ruolo ultimamente di Kissinger, Schlesinger, Brzezinski, della scuola di Chicago, dei conservatori di Bush. O dei filosofi: William James, Emerson, Thoreau, Dewey, o i contemporanei Chomsky, Rorty, Rawls, Walzer, Williams, l’intellettuale non è ritenuto mai superfluo. Ma l’America, e non solo per questo, è termine inconfrontabile, non è Europa. Il piccolo intellettuale italiano Pensa di divertirsi l’intellettuale tra le mura ma è avaro e muore triste. Il problema è che Thomas Mann ha ragione: l’intellettuale è un politicante, bassa lega. Se il letterato politico è il vero intellettuale, alla Zola, lo Zola di Heinrich Mann, allora il letterato e l’intellettuale sono poca cosa, ruota di scorta. Politicanti dilettanti. Di idee non digerite, per fini minuti, mimati, che si magnificano ultimi, la lode, un premio, l’egemonia di Gramsci e Platone. E si coronano d’i-deali, rivoluzioni, resistenze, utopie, il mondo spregiando. Minutanti degli spacci della parola. La politica è invece seria, essendo la democrazia. Anche quando fanno parte di aristocrazie, anzi specie in questi casi, gli intellettuali finiscono per rivangare luoghi comuni. Anche, dice Tocqueville confrontato alla brusca democrazia americana, per “una certa mollezza di spirito e di cuore che essi contraggono in mezzo al lungo e tranquillo uso di tanti beni”. Per cui “preferiscono essere divertiti piuttosto che scossi, vogliono essere attratti ma non coinvolti”. Un groviglio, alla Epimenide cretese. L’intellettuale Thomas Mann è uno che quando ha ragione si arroga “un diritto d’infamia”. La politica è ardua: “Odio la politica e la fede nella politica, perché essa rende l’uomo borioso, dottrinario, testardo, disumano”, afferma. Benché capisca che “l’impoliticità è anch’essa politica”. È che “l’ironia come modestia, come scetticismo volto all’indietro, è una forma della morale, è etica personale, è «politica interna»”. L’intellettuale vi è senz’arte né parte, ohne Kunst ohne Gunst, potrebbe dire lo stesso Thomas Mann se parlasse maccheronico. La sua debolezza (scomparsa) è piccola e grande. È grande nei testi epocali che Andrea Inglese cita nello stesso numero di “Alfabeta 2”, di Lepenies, Wallerstein. In Italia la crisi è invece piccola, di parrocchia e non di sistema. Per lo straordinario carrierismo e amoralismo (consortile, politicante, e perfino familistico, a favore di amanti, figli, nipoti, mogli) che regolano lo studio (la ricerca) e l’università, la giustizia, la sanità, il giornalismo, tutte professioni intellettuali, e concludono alla loro straordinaria inefficienza, dispersione di risorse e di valori, di cui poi l’intellettuale si lamenta vittima. E di cui il predominio mediatico, che se ne vuole la causa, è invece lo specchio. Nel suo piccolo l’Italia fa anche – ha fatto – le prove delle grandi trasformazioni. La produzione di sapere essendo insufficiente da tempo nei maggiori paesi europei per la stessa produzione di sapere (centri di ricerca e università), l’Italia ha parzialmente supplito, negli ultimi trent’anni grosso modo, fornendo ogni anno migliaia di dottorandi e dottori nelle più diverse discipline. L’emigrazione negli Usa, senza ritorno, si può anche inquadrare nella politica americana di centralizzazione (accaparramento) delle intelligenze, deliberata, costante, in tutte le discipline, a tutti i fini, teorici e pratici. L’emigrazione delle intelligenze in Germania, Gran Bretagna, Francia, Olanda, Svezia, va invece a riempire i buchi della mancata produzione di intelligenze in quei paesi. Se questo è il futuro che aspetta anche l’Italia, allora l’eclisse dell’intellettuale sarà effettivamente un fatto. E questo sarebbe tutto. Se non che, si che in realtà si parla? Si parla dell’Italia dopo il 1989. Che si vuole l’inizio della globalizzazione, con tutto ciò di negativo di cui si carica l’entrata del Terzo mondo nel Mondo – che rivoluzione! -, mentre invece è l’inizio, in Italia, di un passato che non passa. Su cui non si è riflettuto, se non tra reduci. L'intellettuale dopo la Caduta dice fascista ogni mollusco Si parla solo dell’Italia, e di una certa cultura italiana, seppure materialmente preponderante nei posti deputati alla riflessione e alla cultura: l’università, la ricerca, l’editoria, e anche i giornali e la Rai. Ma Santoro è, come la De Filippi, solo più bravo a sfruttare un palco che la cultura crea. L’Italia è un reality. Non da ora. Né lo hanno creato Santoro o De Filippi. Lo hanno creato il giornalismo qualificato scandalistico e una università corriva. Il giornale d’opinione specializzato in scandali è specialità tutta italiana, che si dice di gossip ma quello è: non sembri strano appaiare il “Corriere della sera” alla “Bild” o al “Sun”, tolte la pagine culturali che “Bild” e “Sun “ non hanno, e compresi i commentarioli di cui si ornano, a diecine ogni giorno, per creare il frizzo là dove la cronaca latita, tolto questo non c’è altro – e anche le pagine culturali, fatte dagli uffici stampa delle case editrici, non sono granché virginali. Dall’università non arrivano da molti anni, dall’irrobustimento dell’autonomia col decentramento, che cattivi esempi. Compresa la moglie di Asor Rosa. E questo è il problema: la cultura di chi lamenta l’eclisse dell’intellettuale, e non Berlusconi, che è solo un venditore di pubblicità - se la “Santa Giovanna d’Arco” di Dreyer attirasse pubblicità non si farebbe pregare a proiettarla notte e giorno: Berlusconi è uno che vende spazi, soprattutto quelli gratuiti dell’etere, e si attacca quindi al carro vincente, della grossolanità e dell’ipocrisia . Non si cita del resto nemmeno per caso Elemire Zolla, che “L’eclisse dell’intellettuale” scrisse cinquant’anni fa. Tema a lui più congeniale, essendo propriamente conservatore, e anzi reazionario - il reazionario attua e ritroso il "principio speranza", che presiede a ogni atto dell'intelligenza. Si può anche piangere con l’ubiquo Pasolini sull’avvento della televisione nel 1958. O sulla scomparsa delle lucciole nel 1975. Ma questo si fa perché amiamo tutto sommato consolarci – un prete direbbe assolverci. Il lamento di Pasolini, riformulato, è questo: la cultura è “quello stesso ambiente in cui prosperano le forme intelligenti della nuova barbarie” (Alain Brossat). Se così è, l’intellettuale è succube? È parte attiva? Per Pasolini la Repubblica è il fascismo con altri mezzi già nel 1969, prima di piazza Fontana (colloqui con Jean Duflot, “Da un fascismo all’altro”). Per Scalfari e Malaparte la Repubblca è corrotta già negli anni 1950. Per Ernesto Rossi già al tempo di De Gasperi. Può darsi che l’intellettuale debba essere misoneista, non riconoscere il tempo presente – quello del si stava meglio quando si stava peggio, e della tecnologia fascista (eversiva, distruttrice). Ma è il misoneismo rivoluzionario (utopico)? La "Teoria del giudizio politico" di Hannah Arendt prende atto che la politica non può esistere senza la facoltà d'immaginare. Né la democrazia, si può aggiungere. O non c'è democrazia senza la politica? Sarebbe opportuno saperlo in questa età di antipolitica, sia pure la politica disgustosa. Quanto al disgusto del mondo, il nodo si scioglie con la forma della Resistenza. Se debba essere dichiarata, onesta, oppure disimpegnata (poetica, mitica). Pasolini ha scritto bei versi sulla Resistenza (“La Resistenza e la sua luce” e altri), ma al tempo della Resistenza, 1943-45, fu un imboscato – malgrado l’esempio del fratello minore Guido, che fu invece un combattente, vittima perdipiù del tradimento dei suoi compagni. Dunque, questo intellettuale che si sente tradito non vuole avere funzione pedagogica, se tradisce le parole, non vuole essere parte in causa, avendo ribrezzo di questa Italia, oggi come nel 1950, e non vuole essere testimone, Se si eclissa, questo è il problema, che farci? Il Paese va avanti anche di giorno, anche se questi intellettuali vegliano. Verità vorrebbe che si dicesse l’intellettuale nostrano un notabile. L’intellettuale è infatti tipicamente nostrano, anche se la specie è universale, come il suo linguaggio: il ruolo e la funzione sono locali, e quindi le abitudini e le attitudini. Non il notabile ottocentesco, che accedeva alla dignità del ruolo per servizi resi alla comunità, di qualità, costanti, ed era tenuto al giudizio superiore, equo, saggio. L’intellettuale è subentrato in questo ruolo quando la figura era ormai svuotata, ed era anzi suo compito svuotare. E oggi ben s’attaglia all’usa-e-getta della audience, cioè degli umori e della moda: un chiacchierone piuttosto che un riflessivo, e sbracato invece he riservato, csi valuta se accresce di un ette l’ascolto, chiamato in tv peraltro non per quello che sa ma nel ridicolo ruolo di chi sa tutto. Ma questo è già un discorso storico. L’intellettuale è una chioccia, che per un qualche motivo in Italia degenera: bellicoso dell’ideale, manda gli arditi all’assalto e si fa disfattista. È intellettuale della guerra etica, eroica, liberatoria, eccetera. Per cui la guerra vera, di fango, attese, scoppi sfiatati, asincroni, e il ferro tagliente delle granate, grida, rantoli, lacerti, mutilazioni, sembra a loro sempre mal fatta. Né la migliorerebbe una guerra all’arma bianca. C’è questa bufala della guerra di liberazione. Di chi? Gadda ventenne si sarebbe arruolato fra i brigatisti, o tra gli arditi. La buona coscienza e l’odio-di-sé Con Santoro e De Filippi stiamo male, siamo afflitti, non vogliamo, ma possiamo, fare i pirla e nulla più Il problema del qui e oggi naturalmente non è De Filippi. Ne parliamo per ipocrisia - residua? – ma noi stessi non ci crediamo: il problema è l’intellettuale, che altro? “Ogni volta che il Macedone è alle porte risorge la domanda sulla giustificazione dell’otium filosofico e letterario, e ogni volta Diogene cade nella tentazione di lasciarsi andare all’attivismo”, spiega Ranuccio Bianchi Bandinelli, che fu un compagno, ma era antichista, e aveva conosciuto cinque Germanie oltre all’ultimo kaiser. Il fatto dunque è remoto. Anche se di questi macedoni c’è una rifioritura. E tuttavia, ciò di cui parliamo non è Maria De Filippi. Né Santoro - e a essere sinceri neppure Berlusconi, che è venditore, di pubblicità e di se stesso, di ciò che ha. Diogene era quello che, affaccendandosi i cittadini alla difesa contro il Macedone alle porte, si mise a rotolare su e giù nella botte, nella quale aveva scelto di vivere, per non parere inattivo. Senza colpa, allora l’autocritica non era stata inventata, ma per noi è diverso. Prendiamoci dunque le misure, ogni tanto si cambia taglia. La nostra condizione parte da Gioberti. E non per scherzo: fu l’abate ad aggiogarci al nazionalpopolare, le lega dei borghesi intellettuali con il popolo. Ma non è tutto. Non bisogna farsi colpa di essere intellettuali. Anche se dietro il napalm c’è un professore di Princeton, o di Uppsala, un ottimo chimico La bomba è dei fisici. È opportuno distinguere con Schopenhauer le qualità intellettuali dalle qualità morali, o di carattere - “Non ci sono che gli intellettuali per fare buoni poliziotti”, diceva Nizan. L’orgoglio è il primo dei vizi, che è dell’intellettuale, ma non bisogna nemmeno illudersi. “Simili agli asini che scalciano o si azzuffano davanti a una mangiatoia vuota”, Chamfort trovava i letterati suoi simili, gli intellettuali dell’epoca. “Come molti intellettuali, è profondamente stupido”, usava dire la saggia Madame de Merteuil, che tutti gli intellettuali hanno ambito farsi, benché cattiva – doveva essere di gelo. La creazione della categoria era recente – i primi intellettuali sono le “preziose ridicole” del salotto secentesco di madame Rambouillet, molto italianeggiante peraltro – e la diffidenza è scusabile. L’intellettuale si costruisce in modo semplice: non rinunciare ai minuti privilegi, tra essi l’abitudine, e appellarsi all’aristocrazia dello spirito. Come se non si potesse essere intellettuali e responsabili? Siamo qui a faticare per non far cadere Nietzsche nella vittoria che non avrebbe voluto, il nazismo, e a difendere il sofistico Socrate e il cristianesimo agostiniano. Sapendo che Lenin arrivò alla rivoluzione su un treno militare tedesco, pieno di marchi, con la moglie e l’amante. L’intellettuale fatalmente è borghese. E quando diventa comunista, come deve, si odia – non si sa se più per essere comunista o per essere borghese, ma si odia. Diventa quindi feroce. Dev’essere come l’odio di sé ebraico, o il Sud dell’antimafia, di chi odia la rappresentazione che di se stesso se ne fa – lui stesso fa. Un operaio della Fiat non farebbe la pelle agli Agnelli, non ci pensa e non gli piacerebbe, un intellettuale invece lo teorizza, e gli piacerebbe farlo se non ne fosse incapace. L’incapacità è forse la causa del dispetto. L’equivoco l’ha creato Lord Acton, che nel 1886 ha descritto “quel presidio d’illustri storici che ha preparato la supremazia prussiana e adesso tiene Berlino come una fortezza”. Il vero tema è: quante divisioni hanno gli intellettuali. Figura recente e curiosa. Che, essendo concrezione della nostalgia del non democratico Platone, il dittatore del sapere, dovrebbe sapere di non sapere – in quanto depositario di verità è, al meglio, Epimenide cretese. L’intellettuale ingaggiato è disimpegnato, si vuole libertino o eroe ma è triste. E vanitoso, la superficialità è suo titolo di vanto: quando l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti chiese nel 1938 circostanziata certificazione di “arianità” si ebbe risposte accurate dai migliori intellettuali, tra essi Einaudi, Pasquali, Sapegno, Marchesi, e tutti accettarono di giustificarsi, eccetto Croce ( “L’unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me, che ho per cognome Croce, all’atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata”), ma Croce era in qualche modo un aristocratico. Si può prenderla filosoficamente. L’Europa si vuole razionale, euclidea. Ma il matematico a lungo confuse con Euclide di Megara, ancora nel Trecento, per via del Bene che quegli identifica con l’Essere o Uno. Che è dove iniziano i guai, perché questo Uno è la pura astrazione, di fronte alla quale tutto quanto si agita nel mondo sensibile, dalla larva all’uomo, perde ogni consistenza di realtà. Senza contare che questo Euclide, che anche Petrarca immaginò severo misuratore della realtà, fondò la scuola delle doppie contrastanti verità, il paradosso del bugiardo cretese, contro il principio aristotelico del terzo escluso. E si arriva, senza il terzo escluso, all’Europa borghese e quindi smarrita – impaurita perché smarrita. Il borghese è inquieto, Quinet ne ha fatto il paradigma: il borghese dell’Ottocento, della borghesia trionfante, trovava il diritto roma-no contrario alla proprietà, il vangelo e gli atti degli apostoli comunismo puro, il medio evo pieno di jacqueries, le rivolte dei contadini, mai sazi, con i saraceni alle costole, e comunque un inferno, di riforme, eresie, livellatori, giacobini, asce, forche, ghigliottine. Nel Novecento l’inquietudine non ha bisogno di storici, la classe non classe si lacera di terrore. Ma ci sono dei limiti. I maggiori traditori, più numerosi, più efferati, sono intellettuali, Giuda non è isolato. E mai gli intellettuali hanno tradito tanto come in Russia e in Germania il secolo scorso, in massa, con coscienza e anzi con diletto. Diavoli nient’affatto luciferini e anzi marchettari, confidenti di polizia, col ghigno freddo tra i denti. È o no il “tema dell’epoca”, la fine dell’illuminismo? Quando l’intelligenza è diventata democratica s’è imputtanita, senza vergogna, in senso proprio, l’orgoglio rovesciando nel farsi fare. L’intellettuale ha tradito la lingua, gli altri e se stessi. Con la pretesa dell’autocritica superiore. Superiore nei riti di umiliazione: uno legge di Ejzenštein davanti al CC e vomita. Per non dire degli storici, che ancora non sanno chi era Lenin, e non solo in Italia, bisogna riconoscerlo, e forse nemmeno Stalin. Può essere che l’intellettuale è tale in quanto è traditore. Dovendosi identificare alla politica, ai servizi meniali in politica, dice quello che deve, non ha più occhi per vedere. Il 3 ottobre 1914 un centinaio di rinomati intellettuali tedeschi, scienziati, filosofi, poeti, sottoscrisse un Appello al Mondo Occidentale, in cui, per respingere le accuse di militarismo, affermava la superiore cultura della Germania. Non respingevano la guerra, respingevano le cri-tiche. Tenendosi sempre, anche grazie all’Appello, lontani dalla guerra, che come ogni altro avrebbero potuto fare al fronte. Gli intellettuali, nel loro piccolo, sono demagoghi. Perfino Rilke cantò il “dio della guerra”. Perfino un marchio riconosciuto come Thomas Mann, uomo di carattere, sospese nel 1914 la sua attività di creatore di personaggi per dedicarsi al pensiero politico. Per esplodere dopo quattro anni di fatica, di cui due di rifacimenti, lui che non riscriveva mai, in fondo alle seicento pagine delle Considerazioni di un impolitico, un malloppo che è una partita Germania-Resto del mondo, all’annuncio del negoziato di pace con la Russia: “Pace con la Russia! Pace anzitutto con lei! La guerra, se dovesse continuare, continui solo contro l’Occidente, contro i trois pays libres, contro la «civiltà», la «letteratura», la politica, la retorica borghese”. Mann anti-borghese, dunque, questa mancava, nel mentre che ribadisce la superiorità tedesca alla fine, non percepita, della Germania. Hitler come Stalin, come la stessa Rivoluzione dell’89, questa Europa è un caso, forse unico, della forza enorme che le idee possono avere nella storia, più del denaro, degli interessi, dei clan, degli eserciti, e della loro insensatezza. Ma un governo dei filosofi sarebbe letale: un ideologo userebbe la Bomba. “La Russia prende sul serio gli scrittori” lo scriveva l’onesto Fortini. Tra i bolscevichi, Sklovskij ricorda, i quali vinsero per essere più crudeli, gli intellettuali mostravano forte tempra: spaccavano il ghiaccio, scrivevano orazioni, si accusavano. A Sklovskij fucilarono due fratelli, che amavano entrambi la rivoluzione. L’irrilevanza non è dell’impegno, l’impegno lascia comunque tracce, ma dell’impresa intellettuale. L’aneddoto celiniano è perfido ma è sintomatico: lo scrittore crede all’unicità della sua opera. Venga la guerra, la peste, l’olocausto, per l’autore indispensabile è la sua opera. Questo è giusto, ognuno si fa valere per quello che sa fare, ma è sciocco. Se la scrittura è la memoria. Di che? Della malinconia di Proust, ottima memoria. Della visione teologica di Dante, profonda. Dell’aneddoto del conte di Foxa, l’ambasciatore spagnolo, raccontato a Malaparte, che ne ricavò il meglio di Kaputt, l’armata che il ghiaccio si prende inesorabile (altra fonte sono i Capriccios, sic, mezzo italiano mezzo spagnolo, del generale tedesco Grüninger, come subito li rifece Jünger nei Diari, n.d.C.). Vero, anche se probabilmente mai accaduto. Ma nulla a che fare col destino dell’uomo e delle masse. A meno che esso non sia fantasia. Ma fantasia non sono le malattie, i debiti, la fame, la fine cruenta dei milioni, miliardi di uomini non memorizzati nelle scritture. Di cui si fa a meno. Il “lavoro intellettuale” di Sartre e Fortini è niente, se non è una vergogna. È come dice Schmitt: “L’intellettuale fu rappresentativo solo in un’epoca di transizione, nella ribellione alla Chiesa”. L’intellettuale di Platone è un dittatorello. Quello “organico” sa di rifiuto – Schmitt lo di-rebbe della natura del teologo, della teologia che nei primi secoli fu fonte di controversie cruente, con identico arsenale - esegesi, ipse dixit, anatema - ma non grato: un intellettuale dovrebbe essere semmai contro il Partito. Il tema, non detto ma noto, è il decennale della morte di Togliatti. Di cui si decide, senza dirlo, di non dire nulla. Per l’amnistia, che col ritorno della destra pesa. I giudici, per dire, del tribunale speciale che condannarono a trent’anni il padre e la zia di Anteo Zamboni non fecero un giorno di carcere. Anteo è il balilla che a Bologna nel ’26 sparò a Mussolini, forse, non si sa, perché fu pugnalato all’istante dai balilla del federale Arpinati. Che aveva organizzato l’attentato, finto, se non fu lo stesso duce. L’unico fascista colpevole resta Pound, da manicomio. Idoni il di-scorso di Togliatti alla Camera sul Vaticano e l’art.7 dice da padre della chiesa: un giorno magari lo fanno santo. Ma ora non sappiamo che dirne. L’intellettuale ama rappresentare la sua funzione, con ricorso aperto sulla scena all’omissione e l’ipocrisia, ma questo ne fa un cantante d’opera più che una autorità. Il suo è un lavoro, usurante. Garboli, che è stato bello e ricco di suo, e ospitale, e l’intellettuale voleva proletario, aveva ragione: più proletarie di tutte sono le attività intellettuali, lavoro non pagato, una schiavitù, seppure volontaria. Pensare o scrivere non sono un lavoro nel vocabolario e l’opinione, sono ritenuti e si vogliono uno svago, roba da dilettanti. Mentre sono l’occupazione più assidua, minuto per minuto, giorno per giorno, senza soste né vacanze, vengono idee pure la notte, sia la scrittura creativa, poesia, filosofia, o politica, d’occasione, di scopo, più spesso senza retribuzione, nel più puro stile stakhanoviano, volontaristico. C’è piacere evidentemente in questa professione, all’opposto che nel puttanesimo, ma allora sorge il problema: perché? per cosa perdersi? La realtà di cui si pretende scrivere in presa diretta è muta? Sì, si sa, non si scrive in realtà se non di ciò che è stato scritto, libri su libri. È l’iperfetazione della critica nell’atrofia creativa, perfino muscolare, riflesso condizionato dell’industria. La realtà si dà per lampi, al cinema, com’è nella sua natura di barbagli di luce. Il cinema ha rispondenza pronta e mobile col reale. occhio, linguaggi, tagli, diversa dalle altre arti, che vanno per decenni, e diverte, letteralmente svia, determinando il gusto che rappresenta - ottima pubblicità fa. Ma il caso di Veronesi che il Partito obbliga a lasciare il seggio di parlamentare se diventa presidente dell’Agenzia per la sicurezza nucleare, un incarico governativo? Senza che nessuno obietti, nemmeno il presidente della Repubblica che ogni giorno ci richiama al destra-sinistra. Eppure non si tratterebbe di un atto di coraggio ma di mera sensibilità giuridica: un partito che cacca dal Parlamento un parlamentare eletto, sia pure nelle sue liste. Si vede che il centralismo democratico non è una politica ma un imprinting, la famosa servitù volontaria. Eco, invece che di Dante, avrebbe potuto parlare di Veronesi, il parlamentare in questione, Umberto Veronesi, lo scienziato, quindi ben intellettuale, gustose deduzioni, se non conclusioni, avrebbe potuto trarne – ma Eco ha perso la lingua, pure lui. Ricapitolando: l'intellettuale va col tempo - dopo tanto vagare, conviene tornare alla cosa. Se è inefficace, e in Italia lo è, dal almeno un quarantennio, da quando non ha nemmeno capito il Sessantotto, lo è perché è sterile: l’ipocrisia lo rode malgrado se stesso, anzi proprio per questo, per le sue buone intenzioni. Si crea i suoi mondi irreali di “significati” per il desiderio di fare filosofia, ma la buona educazione fatalmente degrada a protervia. Il rovesciamento non è isolato, tutta la realtà partecipa dell’irrealtà. Ma quello dell’intellettuale è voluto, è di programma: nell’assurdo pretendere di conoscere tutto, sistematizzarlo, e perfino, con la forza del proprio pensiero, cambiarlo – si direbbe prometeico, ma l’ingegner Prometeo non era scemo, l’originale. “Si esprimono i sentimenti quando si parla e le idee quando si scrive”, stabilisce Rousseau. Così non si scrivono più lettere d’amore, genere fermo alla fonte, Abelardo e Eloisa, le Portoghesi di Guillerages, l’amico di Molière, qualche Lafayette. E si solleticano le attese: liberare gli accessi, liberare l’uomo, liberare la libertà, astretta negli stazzi del pensiero pensato, storia di storie, riscrittura. L’intellettuale non ha più potere, ma mai è stato tanto conformista. “La scrittura altera la lingua”, insiste Rousseau. L’avvilisce? Rousseau, uno “nel quale la coscienza non era l’elemento dominante”, dice Proudhon. Per fortuna. P.S. Un addendo si rende necessario estratto dall’intervento di Alfonso Berardinelli sul “Corriere della sera” giovedì 15, a proposito di “di che stiamo parlando?”: “Il fatto è che Berlusconi è andato al potere in un Paese intossicato da decenni di cattiva politica, di immobilismi politici, di ideologizzazioni politiche forsennate, di politicizzazione coattiva di tutti gli ambiti di vita. Berlusconi è la proiezione sullo schermo politico di una società italiana nuova e diversa rispetto al passato, una società nella quale alla nobiltà e serietà dell'agire politico nessuno riesce a credere più. La nuova politica che Berlusconi ha portato nel nostro sistema non poteva e non può trasmettere agli italiani niente di più di quello che gli italiani socialmente e culturalmente sono diventati in questi ultimi trent'anni, dopo la fine della Guerra fredda, dopo la crisi autodistruttiva, fra un compromesso storico immaginario e un terrorismo reale, che ha demolito la sinistra e le sue tradizioni”. Pasolini ha ragione, si può aggiungere, ma al contrario: la politica s’è ingroppata la letteratura e l’ha seccata. Il presente è povero se pure la politica, che è arma maestra, e si vuole bella e buona e avventurosa, isterilisce. È la parabola dell’intellettuale, il barone di Münchhausen il giorno che cadde nello stagno, e impugnò la sua capigliatura per tirarsene fuori.

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