La storia, venuta dall’India, l’autore carica di disprezzo. La vicenda è due volte dolorosa, per essere il romanzo, scritto da un ebreo, un concentrato di antisemitismo. Caso non isolato, tra i letterati ebrei usò fino al 1940, Th. Lessing, Némirovski, Feuchtwanger – l’editore americano che fece il successo di “Süss l’ebreo”, Ben Huebsch, l’aveva intitolato “Power”. Ma questo viene dopo. “Bella del Signore” richiama “Rachel du Seigneur”, l’aria della “Juive” pezzo forte di Gigli e Caruso. La “Juive”, capolavoro di Fromental Halévy, figlio di Élie Lévy, fondatore nella Rivoluzione dell’“Israélite Français”, è il grand opéra dell’ebraismo rinnegato. L’incapacità d’amare, non c’è vizio peggiore - e miglior tema di romanzo, Flaubert, Proust, Joyce ci hanno fatto fortuna, anche Svevo, due ebrei e due no. Geneviève, figlia di Fromental, sposata Georges Bizet, e da vedova Émile Straus, avvocato dei baroni Rothschild e ministro, che fu patrona di Proust e si dice modello di Oriane de Guermantes, era vivace, figura accattivante nel ritratto giovanile di Delaunay, ma ordinaria, e vestiva sciatta come la mamma di Proust sua coetanea – le foto deprimono le lettere. Daniel, nipote di Fromental, fu a scuola il primo amore di Proust, senza estri né sviluppi: Proust quarantenne ne dirà i versi “penosi, noiosi, inezie talvolta esecrabili”. Quanto lontani dal Jehuda ben Halevy del poemetto di Heine: “Alla vita come al canto\ è la grazia il più gran vanto”.
Cohen avrà voluto scrivere il romanzo d’una triplice impossibilità, di amare, di essere, di essere ebreo. Ma ha costruito una somma terrificante dell’odio di sé ebraico. In forma di parodia dell’amour fou, o dell’amore, il riconoscimento, l’attesa, l’amplesso. Che, si sa, in sé è ripetizione. Protagonista un ebreo di Salonicco, non altrimenti caratterizzato che per gli improbabili parenti che fioriscono in caffettano a Ginevra. Personaggio d’ignobile sadismo, e improbabile gelosia, incapace di apprezzare la musica e ogni bellezza, che la politica riduce alla conventicola. Condannato a non amare per una colpa non detta, quindi per la sua condizione esistenziale, anagrafica. Negli anni di Hitler, di cui non c’è ombra.
Una rilettura non ha mutato la percezione. Cohen ha scritto un libro d’amore, è stato detto, per la madre. Nasce nel mammismo l’insolenza contro la donna? Per un bastardo è un’aggressione alla stessa madre, in idea certo.
Un romanzo comunque mostruoso. Incontinente, come Proust – qui si fanno telegrammi di quattro pagine, la durata è l’incontinenza verbale. Imponendo un’attesa di seicento pagine prima che l’eroina, moglie di modesto impiegato svizzero in viaggio, dopo una serie di entrate e uscite dalla vasca da bagno, si faccia un paio di settimane di scopate in albergo – si va avanti col bagno per un centinaio di pagine pure in “Franny & Zooey”, ma sono adolescenti e non scopano, è solo lo scrittore che vuole dirci che è bravo. Le scopate sono inframezzate da geli subitanei: i baci sono per il seduttore “ventoserie boccali”, che lasciano disgusto. Il “Concerto brandeburghese” è “implacabile”, tra “scieurs de long et pompiers de l’Éternel”, segherie e giaculatorie. Un paio di pagine riducono l’amata a gorgogli ventrali, scrosci, tonfi e altri rumori puteolenti nel bagno, nonché a tamponi invisibili a grande assorbimento. Viene quindi una gelosia lunga cento pagine, duecento a corpo leggibile, forse per rifare la gelosia di Proust, volgare, nauseante. Di un tipo, l’eroe, che lascia all’alba il letto d’albergo e se ne torna furtivo al suo appartamento, per non essere visto non sbarbato e non docciato. “Era per sentire dei borborigmi che aveva rovinato la sua vita”, si compiange. Il tutto intervallato da sciocchi dialoghi con i parenti dementi.
Potrebbe essere una tragedia, ma non ne ha l’intenzione. Espone anzi la stessa tela di fondo, a Ginevra, di ghenghe, massonerie e ruffianerie che perdettero l’indignante Céline, spingendolo a vomitare scemenze, e si perpetuano nel subitaneo premio dell’Accademia Francese, luogo eminente di entrature, e nella gaffe solo apparente di “Le Monde”, la recensione ripetuta, che a tale eminenza ha dovuto piegarsi.
Cohen è stato funzionario al Bit di Ginevra negli anni in cui Céline lo era nell’organizzazione che oggi è l’Oms. L’eroe viene “escluso”, cioè privato della naturalizzazione francese, nel 1936. Dunque dal Fronte Popolare. E si vergogna dei parenti. Il disprezzo è comune fra gli ebrei assimilati, c’è in Babel, e perfino in Kafka. Ma Cohen stesso è nativo di Corfù. Quindi sa che i corfioti, se non altro per l’influenza degli ebrei italiani, di Venezia, Ferrara, Ancona, non sono quelli che spregia, eccessivi e sporchetti. Lo stesso nome del protagonista, Solal, è di famiglia rispettabile, per censo e cultura – una Cohen-Solal è ultimamente biografa di Sartre ed esponente socialista.
Fa colpo il libro ma per la vivezza della perversione, più espressiva che in Céline. Non ci sarà un dover essere ebreo, ma c’è un dover essere, il peso di ciò che si fa e si dice. Ogni romanzo è ipotiposi, tenta di creare con parole ciò che parola non è, gli intenti reconditi dell’autore. Ma la vita è ipotiposi, anche se fiacca. Scrivere è portare al presente il passato, incluso l’inesistente. E al passato il presente, inesistente incluso. La storia si scrive.
I Cohanim, custodi del tempio, la stirpe dei Cohen, vantano un apparato genetico diverso tra tutti gli ebrei - c’è sempre una razza migliore delle altre. I Cohen, Kahan, Khan, sono diversi sia tra i sefarditi che tra gli ashkenaziti. Così hanno sempre creduto, e controllando geneticamente l’ascendenza sono ora risaliti fino a Aronne, il fratello di Mosé. Ma esitano, il Mosè egiziano li turba – era l’unico nella Bibbia ad avere parlato con Dio. Per di più i lemba del Sud Africa, il cui mito delle origini li accomuna agli ebrei, hanno lo stesso cromosoma y dei Cohanim. Lo shakeraggio della storia sempre disturba le coscienze. Albert Cohen s’è fatto in “Bella del Signore” l’autoritratto? Sarebbe una salvezza: Cohen ha scritto quattro libri cattivi sui suoi corfioti, e uno adorante sulla sua mamma. I brutti corfioti potrebbero essere il popolo errante della barzelletta di Mosé - “Perché Mosé ha vagato per quarant’anni con gli ebrei nel Sinai?” “Perché si vergognava di portarli in città”.
Albert Cohen, La bella del Signore
venerdì 30 luglio 2010
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