Michele Costa, figlio del procuratore della Repubblica di Caltanissetta Gaetano, assassinato trent’anni dalla mafia, dice a Palermo, alla privatissima celebrazione del 5 agosto 2010: “Sull’omicidio di mio padre si è indagato superficialmente”. Cioè non si è indagato. Sull’omicidio di un Procuratore della Repubblica.
Nello stesso giorno, ma a Cortina d’Ampezzo, Calogero Mannino, prosciolto dopo vent’anni dalle accuse di mafia, chiede che si faccia chiarezza sull’omicidio di Rocco Chinnici. Che era un altro Procuratore della Repubblica, di Palermo, e quindi più esposto di Costa. Segno che anche su Chinnici non si è indagato. Né Costa né Chinnici, d’altra parte, fanno parte del panteon antimafia compromissorio che gestisce ogni anno le celebrazioni funebri a Palermo.
Michele Costa accusa la Procura di Palermo, nelle persone dei sostituti Sciacchitano e Lo Forte. A essi fa risalire la divulgazione delle indagini di Gaetano Costa, confidenzialmente agli avvocati dei mafiosi indagati. La divulgazione delle dichiarazioni del pentito Marino Mannoia in merito all’omicidio. La pronta liberazione di Tommaso Buscetta, che l’assassinio del procuratore Costa s’era prestato a declassare a “bravata”.
Ma c’è di più: quando le vittime della mafia sono democristiani onesti, Piersanti Mattarella, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, sono vittime generalmente di altri democristiani. Sciacchitano e lo Forte, che poi hanno fatto carriera situandosi nel compromesso, sotto l’ombrello del vanesio torinese Caselli, erano criticati apertamente dal loro capo Chinnici come manutengoli democristiani. Ma, poi, lo stesso Michele Costa aveva difeso come avvocato Lo Forte nel 1997 nell’aspra polemica tra il giudice e i carabinieri del Ros. La storia dell’antimafia è poco onorevole – dell’antimafia istituzionale.
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