Dopo Cancemi (l’assassino di Falcone, che quindici anni fa ha “immaginato” che Berlusconi s’incontrasse con Riina e gli portasse ogni mese duecento milioni) Spatuzza: alcuni pentiti sono tanto pentiti che a volte non si possono nemmeno proteggere. Il problema insomma non è nuovo. Ecco cosa ne scrivevamo a novembre del 1997:
“Il Comando dei Carabinieri ha risposto con molto controllo alla pubblicazione, per molti aspetti proditoria, domenica su “Repubblica” di alcuni verbali allegati alla documentazione spedita dalla Procura di Palermo al Csm, che lunedì ha cominciato a esaminare la vicenda. Vi si diceva che i Carabinieri avrebbero offerto 800 milioni al mafioso Angelo Siino perché accusasse di contiguità alla mafia il magistrato Guido Lo Forte, sulla testimonianza dello stesso Siino, ora pentito. Ma Siino non lo ha detto. I CC si sono limitati a esprimere “fondate perplessità”, riaffermando “serena fiducia” nella magistratura.
“È stato il primo atto sensato in questa vera e propria battaglia campale, non meno sanguinosa per essere cartacea, scoppiata un mese fa tra la Procura di Palermo e il Ros (Reparto operativo speciale) dei Carabinieri. Può essere un inizio? Sarebbe un ritorno alla ragionevolezza e, sopratutto, a un vero impegno antimafia. Questa battaglia rappresenta infatti l'epicentro di una lotta antimafia squilibrata, poiché, da una parte e dall'altra, dalla magistratura e dagli inquirenti, puntata contro le istituzioni, con un abuso, a questo fine, dei confidenti, ribattezzati collaboratori di giustizia, dichiaranti, pentiti.
Da una parte anche l’azione antimafia si è da qualche anno concentrata, come tutta l'attività repressiva, sulla criminalità della funzione pubblica, dai politici agli amministratori. Non senza logica: la concussione è reato più grave della corruzione, e così la mafiosità di un pubblico ufficiale. Ma senza quel particolare equilibrio che un’azione repressiva dovrebbe assumere quando interviene nella politica. Dall’altra parte, l’esperienza fatta con i terroristi pentiti ha condotto ad attribuire ai pentiti di mafia una sorta di fiducia incondizionata. Alcuni sono diventati protagonisti di best-seller, confezionati da Enzo Biagi o Pino Arlacchi. Altri sono stati portati in Parlamento, alla Commissione antimafia, a tenere lezioni di etica invece che a dare informazioni. La fiducia incondizionata ai pentiti di mafia e la commistione con la politica sono stati un errore.
“I pentiti di mafia, a differenza dei terroristi, sono e restano violenti e nemici della società. Si sono moltiplicati in numero irragionevole, oltre un migliaio in quattro anni. Hanno posto e pongono condizioni esose per il loro pentimento. Qualcuno ha anche trattato speciali ricompense per speciali rivelazioni. O ha confessato una cosa a un inquirente, e la cosa opposta a un altro. È questo il caso di Siino, che ha denunciato i magistrati ai Carabinieri e i Carabinieri ai magistrati. Molti hanno continuato le loro attività criminali sotto la protezione delle forze dell’ordine. In alcune zone della Calabria e della Sicilia la “riproduzione” dei pentiti, il loro proliferare con i grandi benefici connessi, è diventata una polizza per la “riproduzione” della mafia: “Tanto, se mi va male mi pento, esco di prigione e ci guadagno”.
“Tradizioni, precedenti (negli Usa e nei paesi di diritto inglese), studi ed esperienze unanimi consigliavano prudenza. La procedura nella Roma antica voleva che anche delle cose viste il testimone dicesse “mi sembra”. Un minuzioso studio sulla “psicologia della testimonianza” di Cesare Musatti ha portato a questa conclusione: “Venne accertato sperimentalmente che non esistono testimonianze - se non per circostanze di scarso rilievo, prive di elementi importanti per un dibattito giudiziario - di cui si possa dire che sono integralmente veritiere. E ciò semplicemente perché ogni fatto di cui si viene a conoscenza è visto da ciascuno attraverso la sua specifica persona. Due individui diversi non possono che percepire in modo differente quello che viene detto lo stesso fatto”. Il ponderoso studio di Theodor Reik su “L'impulso a confessare”, ne rileva motivazioni tutte paludose. Gli storici lo sanno da tempo. Notava Pirenne che non ci sono due testimoni che diano la stessa versione di un fatto. E Chabod, nelle sue “Lezioni di metodo”, aggiungeva che, “se due o più narrazioni riferiscono la stessa cosa in forma uguale o presso a poco uguale, esse devono necessariamente essere in qualche rapporto...(o) anche derivare entrambe da una terza e comune fonte”. Del resto Marc Bloch, proprio nell'“Apologia della storia”, ha trovato “non solo individui ma anche epoche mitomani”, nel Medio Evo naturalmente, e anche in epoca recente. Non è del resto da ieri che Carabinieri e Polizia sanno come vanno trattati i confidenti, ché tali i pentiti di mafia restano.
“Invece c’è stata molta colpevole leggerezza nel trattamento dei pentiti, che hanno avuto da investigatori e magistrati un pregiudizio favorevole. Se ne sono accettate anche le testimonianze de relato (per sentito dire) con morti. Si sono accettati i pentiti a rate, quelli a orologeria, e perfino i ricattatori scoperti. Classificazioni successive, forse spiritose, del giudice Lo Forte individuano pentiti “illuminati”, “attendibili”, “parzialmente attendibili”, “intrinsecamente attendibili”, “in evoluzione”. Mentre il Procuratore capo di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, cui tocca indagare sui fatti di Palermo, ha dovuto creare la categoria degli “insufflati”.
“I pentiti di mafia sono stati condotti a considerarsi onnipotenti. Ma in siciliano sono chiamati “raggiraturi”, e questo spiega tutto: i pentiti di mafia sono e restano malfattori opportunisti. Con Siino, mafioso di città, uomo d'affari e non killer, un po' più articolato degli altri spaventosi pentiti da cinquanta o cento omicidi, il loro gioco è diventato apparentemente più raffinato. In realtà il gioco di Siino è stato semplice. Il magistrato Lo Forte era chiacchierato. Nel senso che era legato al Capo della Procura di Palermo, Giammanco, che ha preceduto Caselli, senza lasciare buona opinione. Ed era stato nominativamente criticato nei diari pubblicati di Antonino Caponnetto e Rocco Chinnici, che invece quella posizione hanno ricoperto con la stima di tutti. Caponnetto indica in Lo Forte uno degli ostacoli, nella Procura di Palermo, all'azione di Falcone e di Borsellino. Chinnici, che sarà ucciso in un attentato nel 1983, imputava al magistrato, con pessimi epiteti, la mancata attuazione di certe indagini (“Sciacchitano e Lo Forte della Procura”, annota Chinnici in data 30 marzo 1979, “emissari del grande vigliacco e servo della mafia Scozzari”). Già allora Lo Forte, nel suo piccolo, e il suo punto di riferimento in Tribunale Francesco Scozzari, rimproveravano a Chinnici di dare credito alle indagini dei Carabinieri e della Polizia. Lo stesso Lo Forte che è il motore dei processi più importanti istruiti a Palermo negli ultimi anni, non a carico della mafia ma di Contrada, Andreotti e Dell’Utri. Non ci voleva molto a fare del magistrato il perno di un raggiro.
“Ora, in un certo senso, per parafrasare l’accusa rivolta a Ferragosto da Caselli al Parlamento, “la mafia è stata abolita dai pentiti”. Si può discutere se, come sostiene l’avvocato Costa, difensore di Lo Forte, ci sia una “regia” per scardinare la lotta alla mafia. C’è un rischio certo, in atto, ed è che i pentiti diventino tutti inattendibili. Dopo quanto sta succedendo sarà più difficile sceverare il vero dal falso, restaurare la credibilità dei veri pentiti, quelli che, come Buscetta, hanno dato più indicazioni utili che depistaggi.
“Una riforma della gestione dei pentiti è ora necessaria, oltre che utile. Ma prima bisognerà sgomberare il campo dalle implicazioni politiche cui la stessa gestione è stata soggetta. L'antimafia politica, quella cioè che privilegia come bersaglio non i mafiosi ma la funzione pubblica, è venuta a trovarsi dalla parte della mafia - a copertura, certo non voluta, delle trame mafiose. C’è stata trascinata attraverso la disponibilità dei pentiti a fare piazza pulita di ogni passata e presente funzione pubblica, politica, amministrativa o altro.
“Un gioco peraltro scoperto, nel quale l’antimafia politica s’è lasciata trascinare senza nemmeno recalcitrare. L'errore di un uso privilegiato dei pentiti è stato peraltro sempre evidente. Ciò lascia qualche dubbio su chi sia il Pupo e chi il Puparo, in termini palermitani, di questa tragedia degli equivoci. Ci potrebbe essere un beneficio dall'incredibile guerra tra magistrati e CC, se essa segnasse, almeno per qualche tempo, una pausa nel feroce uso politico della giustizia in questi anni”.
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